Consumi

Touristes sans frontières

25 Agosto 2024

Chiedo umilmente perdono. Sì, perché parlare di ultraturismo è un peccato mortale, con tutti i veri problemi che ci sono nel mondo, sembra un passatempo da borghese annoiato, superficiale, che si occupa solamente della spuma delle onde senza vedere cosa c’è veramente nel mare. E, nel mare, in fondo al mare, ci sono cose bruttissime, soprattutto tra Africa e Italia.

Chiedo perdono ma lo devo fare.

Ciò che mi spinge a scrivere di ultraturismo e di cercare di rassettare un po’ il pensiero dominante è l’indignazione che monta quando sento e risento la volontà di mettere un biglietto d’ingresso nelle città d’arte.

Sì, un biglietto d’ingresso, come al cinema, ma non per vedere l’ultimo film di Steven Spielberg o di Checco Zalone, bensì per vedere le facciate dei palazzi e delle chiese e i panorami che le nostre città offrono.

Non so se cogliete il traviamento: io per passeggiare sul territorio nazionale pago una tassa di circolazione, ma non su tutto il territorio, solamente una parte, e questa parte sono alcune città d’arte, come a dire che se voglio vedere la basilica di San Marco o la piazza del Plebiscito devo pagare un biglietto, ma non uno solo, uno per ogni città. Dicono anche sui sentieri delle Dolomiti. Ci saranno sconti per comitive? O per studenti e lavoratori, come a teatro? I disabili, da soli o con accompagnatore, saranno esentati dal biglietto, come nei musei statali?

L’ultraturismo è l’ultima delle diavolerie di questa estate piena di sciocchezze e di squallide esibizioni dei vip, soprattutto della classe politica, ma pone dei quesiti fondamentali sui diritti del cittadino, che sia o no dello stesso comune, provincia o regione.

Io trovo già la tassa di soggiorno un balzello incostituzionale, in quanto perché mai dovrei pagare una tassa per andare a dormire in un altro posto, già pago l’albergo, e non costano così poco gli alberghi, Trivago o no. Ora pure il biglietto d’ingresso.

Sì, ma come si risolve il problema di queste folle oceaniche che assediano le città, sento già la vocina di chi è stufo del turista che piscia sull’angolo perché non sa dove farla.

Rispondo che non è solo il turista che non sa dove farla, ma anche la persona che soffre d’incontinenza urinaria, che paga le tasse e che una volta, ormai si parla del secolo scorso, se di sesso maschile aveva la possibilità di usufruire degli orinatoi, oggi scomparsi e nemmeno musealizzati come la Fontaine (1917) di Duchamp. Nulla, te la devi fare addosso.

Per dirne una, l’altro ieri ero andato da Accardi, una rosticceria-pasticceria palermitana nei pressi dell’Università, che fa una caponata strepitosa (e non solo), che poi ho portato anche a casa. È un luogo molto frequentato dai locali per le ottime cose che produce, e credo anche da turisti perché ho letto recensioni attraenti su Trip Advisor. Mi è venuto il terribile stimolo di pisciare, anche perché avevo da poco reintegrato i liquidi persi col sudore, cosa che in agosto capita, soprattutto al 38° parallelo, quello di Palermo, senza bisogno di scomodare cambiamenti climatici.

Ovviamente, non solo nelle vicinanze ma in generale, non ci sono cessi pubblici, ma nemmeno di quelli che c’erano a Parigi o in Isvizzera, a monetina e autopulenti, che, tutto sommato, provvedevano a una necessità della popolazione.

Essendo Accardi un luogo civile, pieno di buone cose e con un più che discreto servizio, chiedo dove sia il cesso per i disabili, perché io appartengo alla categoria. Ogni esercizio commerciale di quel tipo deve avere il cesso per disabili.

Vedo il terrore che s’impadronisce del giovane cassiere.

«Ah, ma è fuori, glielo devo aprire io.»

«Non c’è problema, purché lo facciamo in fretta altrimenti la faccio qui.»

Il giovane, peraltro garbato, fa pagare le due persone in fila alla cassa e poi scappa dietro il banco della rosticceria ad aprirmi l’ambito luogo. Passa un minuto. Ne passano due. Tre! Ma dov’è andato? Io qui me la faccio addosso. Niente. Passano quattro minuti e lo vedo riapparire dalla porta sulla strada.

«Venga, venga.»

E io vado, vado, lo seguo per sessanta metri, superando il tabaccaio, una sala giochi e arrivando alla fine dell’isolato.

«Ma è lontano? Non immaginavo una trasferta.»

«È un po’ decentrato.»

Arriviamo davanti a un cancello che probabilmente viene aperto raramente perché neanche un nerboruto giovane di colore ma che parlava perfettamente l’italiano con inflessione panormita riesce ad aprirlo facilmente dall’interno.

Io intanto stavo scoppiando.

Il cancello, alla fine, si apre ed entro in questo locale che ha tutta l’aria di essere un deposito delle cucine della rosticceria, con teglie, cestini, decorazioni ammassate. Mi viene aperta una porta, che non si apre nemmeno tutta perché anche dentro il cesso ci sono delle suppellettili varie e sono invitato a entrare.

«Ah.» faccio io. Ed entro.

Finalmente. Non sono riuscito a sedermi perché ai lati della tazza c’erano pile di cestini ma, siccome non ce la facevo più, l’ho fatta.

Naturalmente il tasto dello scarico non funzionava. Esco, scusandomi di non aver tirato lo sciacquone ma avvertivo che il tasto non funzionava e non l’avevo rotto io.

«Sì, lo sappiamo.»

«Ah.» faccio io.

«Non è una cosa molto regolare.» Mi azzardo a dire.

«Lo so, ma non lo chiede mai nessuno.»

«Ah.» faccio io. «Grazie e buongiorno.» e mi avvio verso l’auto.

Ora, se un locale come Accardi, in una città, vuoi o non vuoi, turistica come Palermo, ha il cesso disabili fuori uso, oltre a essere decentrato, posso immaginare cosa succeda in locali meno blasonati.

E poi qualcuno vorrebbe mettere i biglietti d’ingresso alle nostre città? Senza offrire servizi? Così, giusto perché così si scoraggia l’ultraturismo? Immagino cosa siano i servizi su Strada Nuova o a Rialto, a Venezia, oppure intorno al Palazzo Vecchio. Io di cessi a gettone non ne ho visti manco lì e i bar storcono il muso se chiedi di usare i servizi, soprattutto se non hai preso un caffè e un cornetto a 5 euro prima.

Ma torniamo al nocciolo della questione che è la libertà di un qualsiasi individuo di poter fruire del patrimonio artistico e monumentale che abbiamo. Non è che pagando il biglietto d’ingresso nelle città poi tutto sarebbe gratuito: gli Uffizi, l’Accademia, il Museo Correr o la Galleria Borghese continuerebbero a essere a pagamento. Non per i disabili e accompagnatori, come dicevo prima, ma per il resto della comune umanità sì. E nelle città non ci sono panchine per sedersi, cessi dove pisciare, luoghi dove mangiare magari una banana per non disturbare troppo e non lasciare un occhio al ristorante. E poi le amministrazioni comunali si lamentano anche che ci sono troppi rifiuti lasciati dai turisti. E assumi personale, porca miseria, e fai vuotare ogni quarto d’ora i già pochi cestini che ci sono in giro, sei una città che vive di turismo o cosa? C’è solamente la contemplazione del David e della Loggia dei Lanzi contemplata dal biglietto d’ingresso oppure anche qualche servizio in più?

Chiunque continui a proporre un biglietto d’ingresso nelle nostre città è un delinquente irresponsabile. Tanto vale ricostruire le mura delle città e ripristinare le antiche porte con guardie di finanza, alto là, chi va là, parola d’ordine, si apre alle 7.00 e si chiude alle 20.00. E si entra solo se si ha il salvacondotto.

Non è così che si difende il nostro territorio da una sempre più numerosa presenza turistica, concentrata soprattutto nei mesi estivi e nel periodo natalizio.

La gente che vede, ormai in tutto il mondo, i film ambientati in Italia, siccome attraverso i social si vuole rivivere una “experience”, lo dice pure il sito web del Twiga, dove si assicurano Experience senza fine e diversificate, da condividere attraverso selfie et similia, si sposta, e paga un sacco di soldi per venire nelle nostre città. Perché, non dimentichiamolo, le nostre città d’arte, come alberghi e come ristoranti, sono abbastanza care di partenza.

Non c’è quindi la selezione all’ingresso dovuta al censo, come pretenderebbero coloro che propongono il biglietto per entrare. I turisti, sia quelli che amano davvero l’Italia e le sue bellezze sia quelli che ci vengono per un giorno per un selfie e poi un giro all’outlet, spendono un sacco di soldi. Soldi che vanno nelle tasche degli esercenti e che non è sempre così scontato che versino le tasse regolarmente. Quanti bar presentano solo il conto stampato da una macchinetta che non è uno scontrino regolare ma lo fanno passare per tale? Tanto, il turista, che ne sa?

Forse, per pagare i servizi ai visitatori, dovresti prendertela coll’esercente che evade piuttosto che chiedere il biglietto d’ingresso al turista.

Torniamo, però, all’ultraturismo.

Una società che si muove in massa per le vacanze è un fenomeno tutto del secondo dopoguerra. Il boom economico, facendo aumentare le risorse delle famiglie italiane, consentì un accesso mai raggiunto prima a ciò che era considerato “benessere”, e quindi gli elettrodomestici, il cibo e le “vacanze”.

I film italiani degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta sulle vacanze si sprecano, soprattutto da noi ci fu questo filone. In Francia, per esempio, assai meno che in Italia. E le macchiette di Alberto Sordi, Paolo Panelli, Totò, Franca Valeri eccetera, sono rimaste a testimonianza della tenera beceraggine del primo turismo di massa della Storia che il Paese stava sperimentando.

Sociologicamente parlando, le vacanze servivano a ritemprare lo spirito dopo un anno di lavoro ed erano una conquista di tutti. In agosto tutto chiudeva nelle città perché tutti si trasferivano in riviera e i rivierani andavano a dormire in garage per affittare le loro stanze da letto ai turisti. Molti hanno cominciato a far fortuna così, e hanno pure fatto studiare i figlioli col ricavato del turismo estivo.

Erano altri equilibri in un Paese che usciva devastato dal fascismo e stava scoprendo la sua vocazione turistica. Ma nessuno si lamentava, anzi, i turisti erano visti come una benedizione.

Ultimamente, però, ed è vero, nei centri storici, dove sopravvivono alcuni superstiti della vecchia società che li abitava o dove sono sopraggiunti nuovi residenti, in luoghi come Palermo, che ha recuperato faticosamente le vecchie case della città vecchia distrutte dalla seconda guerra mondiale, c’è un baccano infernale fino a tarda notte, spesso con risse tra ubriachi o violenti.

Ma questi non sono i turisti dell’ultraturismo, questi sono gli avventori abituali di molte osterie con un “dehor” (senza”s”, perché ormai si scrive così) che, inevitabilmente, abituati all’impunità dovuta all’assenza totale di forze dell’ordine nei paraggi, si lasciano andare agli schiamazzi e alle intemperanze. Perché bisogna urlare, tutti urlano, tutti parlano sopra gli altri, si vede soprattutto in televisione, tutti hanno diritto a rivendicare la propria “libertà” anche quella di urlare e di insultare, e anche di picchiare, pure per la minima banalità.

Questa è la radice del problema, non l’ultraturismo, che, naturalmente non va sottovalutato e va studiato e, quando possibile, regolato.

Il problema è soprattutto nella quantità di luoghi di “svago”, chiamiamolo così, dove poter lasciarsi andare senza censure. Le autocensure non sono più di moda, non vengono insegnate né in famiglia (“il bambino dev’essere libero di esprimersi, poi imparerà” ho sentito dire a certi genitori incoscienti) né a scuola e meno che mai in televisione. Certe serie tv e certa musica popolare propongono i delinquenti come eroi, forse negativi per alcuni, ma percepiti come positivi e da imitare per molti altri, e nessuno mette un freno a tutto ciò. Tant’è che poi i fratelli Bianchi tispiezzoindue di Velletri ammazzano di botte il povero Willy Monteiro Duarte d’origine capoverdiana nel bar per futili motivi. Ora vedono il sole a scacchi, ed è bene che lo vedano fino alla morte.

Probabilmente sono gli stessi che si scazzottano alla fine delle partite di pallone, perché il loro testosterone è difficile da tenere a bada, altro che pugile algerina.

Una società così degenerata è difficile da rimettere sulla retta via. Sono questi che fanno baccano per strada a notte alta, sono i giovinastri locali che passano colla radio a tutto volume alle tre della notte, per affermare il loro ego malato; i turisti già sono a letto, perché poi magari devono alzarsi al mattino presto per prendere l’aereo o il treno per andare a visitare sette capitali in sette giorni.

L’ultraturismo è un fenomeno complesso e va analizzato in fondo e nei singoli casi, non si può affrontare superficialmente con un mediocrissimo Open to Meraviglia e bona l’è. Soprattutto vanno analizzati tutti i dettagli e le implicazioni sociali e ambientali che gli spostamenti in massa dei turisti comportano e studiare strategie di accoglienza e di controllo diverse, facendo sentire il viaggiatore, soprattutto straniero, che viene a spendere soldi da noi, ben accolto pur dovendo rispettare delle regole, tra cui quelle di non incidere il proprio nome sui monumenti. Lì, in questi rari casi, ci vuole il sequestro anche delle mutande, pignoramento del conto corrente e foglio di via.

Così come molti, troppi, turisti italiani all’estero si distinguono sempre per gli schiamazzi e per gli eccessi. D’altro canto a Ibiza ci si va per le feste notturne e per lo sballo, mica per il mare. Se non vuoi l’ultraturismo senza qualità non devi fare le feste di quel tipo, altro che biglietti d’ingresso. Ma c’è qualcuno che le vieta o ne limita gli orari?

Per oggi vi grazio delle mie tante indignazioni e finisco qui. Ma tornerò presto.

 

P.S. Ho paura a scriverlo perché potrei diventare un influencer ed essere seguito. Dimenticate ciò che sto per scrivere.

Due settimane fa è venuta a trovarmi un’amica francese che adora l’Italia. L’ho portata un po’ in giro per la Sicilia occidentale, non c’era molto tempo, ma ho voluto farle vedere qualcosa di diverso. L’ho quindi portata al Museo della Nave Punica a Marsala e poi, attraverso una strada bellissima e deserta, tra vigneti senza fine e pale eoliche enormi ma decorative, per quanto surreali, via Salemi, al Cretto di Burri, ai Ruderi di Gibellina. Eravamo solo noi due. L’ultraturismo era impensabile. Cancellate subito questa mia considerazione.

 

 

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