Consumi

Poco Chiara

20 Dicembre 2023

Sembra che, oggi, il caso Ferragni sia la cosa più importante che deve preoccupare l’Italia. Certamente non è una bella cosa perché evidenzia come l’inganno della buona fede dei followers, come si dice oggi, dei fan, come si diceva tempo fa, o dei seguaci, come si diceva ancora prima, sia sempre un brutto episodio nella sfolgorante carriera di un’influenzatrice.

Ma partiamo dall’oggetto del contendere che è un normalissimo pandoro, senza particolari ingredienti che potrebbero essere stati fili d’oro zecchino, sete preziosissime che ne avrebbero composto il sacchetto che lo ospita, una scatola di legno intagliato da artigiani o meglio da artisti del legno dell’Alto Adige e incastonato di pietre preziose, feticci che avrebbero potuto ricordarvi in un futuro, quando avreste aperto la scatola dove avevate posto le fotografie o i gioielli, che avevate comprato un certo panettone. No. L’unico ingrediente per cui bisognerebbe comprarlo è la firma di Chiara Ferragni sulla scatola di cartone che lo imballa. Unicamente per quello, non c’è altro pregio. Pink Christmas è il nome del pandoro firmato da Chiara Ferragni, che forse non ha nemmeno idea di quali siano gli ingredienti di codesto dolce natalizio il cui bigliettino di accompagnamento fa capire agli utenti che, se lo compreranno, contribuiranno a “una donazione all’Ospedale Regina Margherita di Torino per acquistare un nuovo macchinario per le cure terapeutiche dei bambini affetti da Osteosarcoma e Sarcoma di Ewing”.

L’intento è nobile, assai nobile. E gli utenti di sicuro si saranno sentiti più buoni (A Natale semo tutti più bboni, come diceva la Lollo di Anna Marchesini) preferendo un pandoro Chiara Ferragni, prodotto da Balocco, noto industriale dolciario di Fossano. Ma quando si scopre che quei soldi, oltre un milione di euro, sono andati a finire nelle tasche della Ferragni e non all’Ospedale Regina Margherita, ci si resta assai male. Non sono bruscolini, è un milione di euro.

Chiara cade dalle nuvole, poverina. Non sa cosa fanno i suoi contabili, evidentemente. Le tante operazioni che sponsorizza, o meglio, dove appare la sua preziosissima firma e il logo del suo occhio che ti scruta dentro, probabilmente le hanno fatto perdere il conto dei soldi che entrano a cascata nella ormai consolidata ditta di famiglia. Vogliamo crederle? Facciamo finta di crederle? D’altro canto, immediatamente, scusandosi e manifestando la propria estraneità, non so come sia potuto succedere e cose così, lei dice di voler tirar fuori un milione di tasca sua per l’Ospedale in questione, anche se, ad ogni modo, farà fare ricorso ai suoi avvocati per la sgradevole situazione creatasi. Si chiama pratica commerciale scorretta ed è un reato.

Certo, una beneficenza da un milione di euro non è poca cosa. Almeno lei la fa, eccome. E chiede anche scusa, non è poco, viste le rivendicazioni d’orgoglio e la negazione di altre truffe, come quelle dell’attuale ministro del turismo (sotto indagine a sua insaputa), che non sa neanche dove la parola “scusa” stia di casa.

Vorrei proprio vedere come si fa a restituire centesimo su centesimo a chi ha comprato il pandoro colpevole, oltre a elargire un milione all’Ospedale. Perché non scordiamo che quel milione l’hanno sborsato migliaia e migliaia di persone in buona fede. E sarei proprio curioso di dare un’occhiata ai conti di Balocco e di Ferragni e vedere come le cifre sono in movimento perpetuo, come l’orologio che segna la fine del mondo. Speriamo che qualcuno li pubblichi, questi conteggi.

Resta lo sbalordimento, almeno per me, che non avrei mai comprato nemmeno un pandorino firmato Ferragni, su come la gente si lasci imbambolare così da una bella donna, su come non faccia che smaniare per seguirla, immaginando che colei risponda a tutti i followers (o fan o seguaci, come volete voi), mentre lancia un rossetto, dei jeans stracciati, un pandoro. Lo sbalordimento di come il nuovo mondo sia ormai talmente stravolto dai social e del modo in cui si perda il senso della realtà è senza confini. Non c’è filo d’Arianna che tenga, per uscire dal labirinto, i neuroni di tutti coloro sono bruciati in partenza, perché per star dietro a delle baggianate simili non esistono parole per definire il grado di assenza e irresponsabilità di quelle persone.

Chiara Ferragni rappresenta perfettamente il cortocircuito del consumismo. Da un lato si fa testimonial per prodotti cosmetici come, solo per fare un esempio, Pantene (associata a Procter & Gamble, un’azienda in cima alla lista nera della chimica che fa test su animali, così, tanto per) e dall’altro devolve somme considerevoli in beneficenza, rendendolo noto. La beneficenza, eticamente, dovrebbe restare anonima, altrimenti si chiama sponsorizzazione, che è una cosa diversa, in quanto incrementa il consumo altrui con un profitto personale, pur avendo alcuni effetti collaterali associabili alla beneficenza. Ossia io pubblicizzo cose perfettamente inutili e costose, come i jeans stracciati, il pandoro firmato che non ha alcuna differenza cogli altri pandori, accessori di moda, prodotti per il trucco, e così via, sempre col sorriso sulle labbra e con occhioni stupendi, mi arricchisco e poi, magari, faccio passare per una svista un milione di euro “guadagnati” con una pubblicità ingannevole. Naturalmente, se poi mi scoprono, la prima cosa che faccio è chiedere scusa e devolvere un milioncino in beneficenza.

Ma le scuse di Chiara hanno qualcosa di posticcio, di fuori posto, sono artefatte. La recitazione ha sapore di qualche cosa di casalingo. Una come lei avrebbe dovuto fare una conferenza stampa in una sede degna, a Milano non ne mancano, e scusarsi pubblicamente, sotto le telecamere, magari rispondendo a domande di giornalisti, non un video nel tinello, fintamente struccata e vestita da finta penitente, perché i gioielli e gli abiti che indossa in quel video costano un’eresia, dicendo che c’è stato un “errore di comunicazione” e non una truffa. Questo è un video che può mandare su whatsapp l’amica a un’amica del cuore a cui ha rubato il fidanzato, ma incamerare un milione di euro quando si è promesso di fare beneficenza non è un “errore di comunicazione“, è un furto ai danni di chi ci ha creduto e ha comprato quel pandoro per quello scopo. L’errore di comunicazione stai continuando a farlo, agendo in questa maniera casalinga, perché ormai non sei più una semplice influencer da social, sei la star delle influencer in Italia e quindi hai bisogno di una risonanza adeguata. È un modo casereccio e banale per ripulire il danno fatto, chi rompe paga e i cocci sono suoi. Ma i cocci, in questo caso, sono un danno d’immagine enorme. Ora però cerco di ripararlo facendo immediatamente beneficenza col milione, tipo quello che riceveva il signor Bonaventura nel Corriere dei Piccoli.

Beneficenza che ho sempre fatto, dice Chiara nel video, e come la fanno negli Stati Uniti i ricconi, stesso stile. E, in effetti, anche suo marito, a Milano, distribuiva dalla sua fuoriserie qualche tempo fa bigliettoni ai barboni, in una situazione grottesca, quasi disneyana o da cinepanettone. Un bravo sceneggiatore da questa vicenda del panettone in questione potrebbe trarre un soggetto tipo Totò truffa. Alla fine è un po’ come vendere la Fontana di Trevi al primo venuto. Beneficenza è una parola sacra, Chiara, che va usata con proprietà e venerata perché colla beneficenza vera si aiutano realmente delle persone.

Si chiama, a casa mia, cerco di salvare la faccia senza perderci più di tanto, un piccolo incidente di percorso. Perché viene da pensare che, se per questa campagna Chiara ha incassato un milione di euro, chissà per il resto quanto ha incassato. Per compensare la cosa eticamente riprovevole che può essere l’arricchimento attraverso la vendita di cose superflue, faccio campagne progressiste contro la violenza sulle donne, finanzio ospedali, magari divento una dama benefica dell’Unicef che, comunque, ha dietro la macchina della produzione industriale del consumo di qualche cosa.

E, attraverso i social, divento un ingranaggio micidiale di questa macchina che produce consumo. Anche la beneficenza, pertanto, ed ecco il cortocircuito, diventa consumo perché senza consumo non ci sarebbero i dindini per i bambini malati. Sembra una perversione. I social amplificano tutto e lo confondono in una rete di ruoli che sfuggono ad analisi superficiali, proprio perché, sebbene la rete agisca in profondità e scavi nelle nostre vite e nei nostri consumi, la faccia che prevale e che galleggia è quella sorridente dell’effimero e della spensieratezza, dei like e dei followers. I bambini possono anche essere denutriti e pieni di fango ma la fata madrina è scintillante e col capello vaporoso appena uscita dal parrucchiere, sennò che fata Disney sarebbe.

E non è solamente il caso di Ferragni e Fedez, beninteso. Tutti gli influencer passano il tempo incollati al monitor a controllare le preferenze. Quando qualcuno mi dichiara di avere centinaia di “amicizie” su facebook io dico sempre ma chissà come fai a star dietro a tutti sti “amici”, si vede che la tua giornata dura 72 ore, bravo, complimenti. E cancello quella persona dalla mia agenda, perché sono sicuro, non essendo tra quegli amici imprigionati su un social, che non riceverei mai abbastanza attenzioni da colui o colei, impegnatissimo/a. Perderei solo del tempo.

Pensate a quanti possano essere i followers di Salvini o di Meloni o del generale Vannacci, star del momento. E i messaggi d’amore che i primi mandano ai loro beniamini, cuori, facce sorridenti, occhietti, battimani, muscoli, pollici in su. Perfettamente identici, morfologicamente, ai followers di Chiara, stessi schemi, sebbene oggetti diversi, naturalmente. Meglio l’innocua Chiara, ma poi, innocua mica tanto, visto ciò che è stato rivelato.

Il camuffamento di ciò che si svolge al di là del profilo virtuale di un personaggio è la chiave, infatti. Nessuno di tutti i followers saprà mai cosa avviene poi dietro la foto brillante con cui Chiara (o altre star dei social, politici compresi) ripaga tanto amore da parte di perfetti sconosciuti. L’illusione di partecipare alla vita di un vip è il motore di tutto.

Ma torniamo al pandoro incriminato. Balocco è stato multato anche lui, e di una bella cifrona, oltre 400.000 euro. Però, l’unico che abbia fatto una reale beneficenza alcuni mesi fa è stato proprio Balocco, oltre 50.000 euro e sempre a quell’ospedale.

La truffa sta, secondo l’Antitrust nel fatto che “Le società Fenice e Tbs Crew hanno incassato oltre 1 milione di euro a titolo di corrispettivo per la licenza dei marchi della signora Ferragni e per la realizzazione dei contenuti pubblicitari senza versare nulla all’ospedale Regina Margherita di Torino“.

Mah. In chi e in cosa si possa avere ormai fiducia, questa vicenda acuisce il problema di fondo. Di certo sorprende che una come Chiara Ferragni, così attenta alla costruzione della sua immagine, mattone dopo mattone, con marito famoso e cantante, con figli esibiti come se fossero parte dell’arredamento della sua formidabile casa (una delle tante) e quindi con famiglia felice formata da padre, madre, figli che dovrebbe tanto piacere a Meloni & C. – i quali però si scagliano contro i Ferragnez solo perché hanno simpatie progressiste -, si lasci sfuggire il controllo di una campagna di beneficenza così delicata.

Si potrebbe associare, a grosse linee, Chiara a Elon Musk, altro riccone che ha aumentato la sua fama attraverso i social, comprandone addirittura uno (messaggio: coi soldi compro tutto), Twitter, e trasformandolo in X, emblematico nome per un social, evocando Mister X, X-files, XXX (forse) e tante altre cose. Anche il figlio più piccolo si chiama X seguito da altri fonemi in “elfico”. In elfico, avete capito bene. E, naturalmente, Meloni invita Musk a illuminare la sua festa e anche a valorizzare le sue baggianate, perché tali sono le minchiate colossali che Musk proclama a ogni piè sospinto. In elfico, mah.

È difficile riconoscersi, almeno per me, in questo mondo finto, non perché i social non possano essere utili, assolutamente, ma perché mi pare che la piega che hanno preso porti a rimbecillire la gente a una velocità supersonica. I mille pregi di una rete che mette in comunicazione in tempo reale tutto il mondo vengono oscurati dalle truffe o da come gang di bulli possano usarla per compiere i loro misfatti. Certo, esistono, poi, anche le persone ordinarie che inviano le foto del nipotino appena nato a tutti gli amici e parenti oppure chi diffonde i propri quadri o altre opere d’arte. Però prevale in forma sempre crescente l’uso smodato che si fa di un social senza più comunicare col mondo reale e perdendo così di vista la realtà realtà, quella dove le cose si toccano con mano e dove il fantasmagorico mondo virtuale non c’è.

Molte persone, soprattutto giovani (ma non solo), perché ormai nascono col cellulare nella culla e forse programmano da soli la poppata con un biberon smart, non riescono più a distinguere i due piani del reale e del virtuale. A volte i genitori di quei ragazzi sono anche peggio e, anziché controllarli e centellinare l’uso dello strumento, lo incoraggiano, causando spesso squilibri relazionali nei figli oltre che in loro stessi. Le cronache sono piene di casi di gente scoppiata per un totale scompenso coll’ambiente circostante, dove la tecnologia usata impropriamente occupa uno spazio notevole nell’alienazione e nella percezione della realtà e quindi nella solitudine di quelle persone. Peggio mi sento con quelle macchine che ti propongono dei viaggi in un’altra dimensione indossando dei caschi che ti fanno volare, nuotare sott’acqua, o passeggiare su altri pianeti che non esistono. L’ho provata anch’io, da due amici maturi che erano entusiasti del nuovo gioco, anche se credo che dopo un po’ finirà a far compagnia ad altri giochi desueti in soffitta, almeno per loro. Io l’ho trovato spoetizzante, privativo, più che aggiuntivo. Muovevo le mani, impugnando un comando, poi la testa e il paesaggio cambiava, andavo in su e giù come se volassi facendomi provare solo un senso di vertigine, vedendo anche ai lati dei deludenti confini sfumati dello stesso paesaggio, poi ogni tanto l’ordigno si bloccava e diceva di ravviare rompendo l’eventuale incanto ossia l’immersione nella fantasia. Un fallimento, per la mia psiche disturbata e incontentabile.

Ma come era più bello, almeno per me, leggere un romanzo e immaginare come potesse essere quel mondo descritto dall’autore. Almeno, l’autore di quella trasposizione nel tuo cervello eri tu, non una macchina che decide per te anche il più piccolo dettaglio del paesaggio. Oppure, nell’epoca della musica portatile, ascoltare un brano musicale, chiudere gli occhi e immaginare, viaggiare con sé stessi altrove, ma un altrove sempre creato da te, e tutt’al più suggerito dall’interprete di quel brano, consapevole che quell’altrove era tuo e solo tuo, e che magari potevi comunicarlo, dopo, a chi volevi bene, famiglia, amici, amanti.

Prendiamo Il nome della rosa, un romanzo che sembra che abbiano letto tutti, perché se inizio a nominare L’uomo senza qualità (che opera! e quanto sarebbe attuale rileggerla oggi) rischiamo di restare in pochini.

Leggendo il poliziesco di Eco, tutti i lettori avranno immaginato la propria abbazia, la torre, la biblioteca, le mura, magari rifacendosi ad abbazie visitate nella realtà, come la Sacra di San Michele o i ruderi di San Galgano, col paesaggio intorno, col freddo, e, soprattutto, col buio. Il buio è la dimensione principale di quel romanzo, il buio perché nel Medioevo non esisteva luce, fisicamente e anche metaforicamente, per l’autore. Nessun film, sebbene perfettamente recitato da attori strepitosi come Sean Connery, potranno mai rendere l’idea che ognuno dei lettori si è fatto di quel luogo e di quelle vicende. Io trovo che se si ritrovasse questa relazione colla propria fantasia e col testo scritto la realtà virtuale passivamente proposta da queste nuove diavolerie sarebbe assolutamente scartata. La passività è la chiave, ti sembra di essere attivo perché sei illuso di condurre il gioco ma non è così perché ti muovi comunque in un ambiente creato precedentemente da qualcun altro, che, inevitabilmente, ti condiziona, ed è lì, presente, non te lo crei tu momento dopo momento.

Leggendo un romanzo, al contrario, tu crei e ricrei continuamente l’ambiente dove si svolge, le fattezze dei personaggi secondo la descrizione dell’autore e secondo la tua esperienza nella vita, associando una faccia a una descrizione, il percorso che i personaggi fanno all’interno della trama e vedi Madame Bovary che si specchia, che indossa quei vestiti, che frequenta quelle persone, o Alice che precipita nel tunnel o che sbuca fuori dal tetto della casa del Bianconiglio dopo aver mangiato il biscotto, rappresentandosi tutto nella tua testa ma personalizzato. Magari il giorno dopo questo scenario cambia, perché sei cambiato tu, e la tua fantasia ricomincia a lavorare e a costruire per te, dandoti nuove idee, dandoti spunti per affrontare la giornata, influenzandoti in un comportamento piuttosto che in un altro perché magari hai riflettuto sulle attitudini di un personaggio e ti sei immedesimato in lui o lei e hai pensato cos’avresti fatto al posto loro. E, in questo modo, interagisci col mondo reale.

Questa pratica moderna trovo invece che sia di un solipsismo da fare paura. Tu e la macchina, soli in un mondo sconosciuto, dove tu sei assolutamente influenzabile da chi ha prodotto il software, decidendo l’ambiente con cui tu interagirai, precondizionandoti. Per me non ha alcuna attrazione.

Tornando all’inizio, ossia il pandoro di Chiara Ferragni & Balocco (che comunque è un esempio tra mille), il meccanismo dell’uso dei social in questa maniera è assai simile a quello della realtà virtuale di quei giochi. Il rischio, che nessuno poteva prevedere fino a questo punto se non gli autori di fantascienza, è quello della spersonalizzazione e dell’assoluta manipolazione. E del solipsismo cronico in cui ci stiamo proiettando disaffezionandoci alla realtà, senza più renderci conto di cosa sia vero e cosa non lo sia, inabissandoci in insicurezze che in altri tempi avremmo saputo riconoscere, assuefacendo le nostre emozioni verso una rassegnazione, senza più voglia di combattere per le nostre idee.

Spegnete i cellulari e leggete i grandi romanzi, sono infinitamente più vari e coinvolgenti. Leggete Il giro del mondo in 80 giorni o Il conte di Montecristo, perdiana! E, magari, più in là, anche L’uomo senza qualità. Ed evitate di comprare cose inutili. Magari, anziché comprare il pandoro rosa di Chiara Ferragni offrite un pasto caldo al povero che vive sotto il portico.

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