Cibo

Lo Stato protegge i fighetti del “food“ o i cittadini dall’olio “falso”?

11 Novembre 2015

Secondo la Procura di Torino c’è la concreta possibilità che decine e decine di milioni di italiani siano stati frodati (nella migliore delle ipotesi), avendo bevuto olio che credevano extravergine ma che in realtà non lo era. La questione è nata da un’indagine eseguita dalla rivista “Il Test” che ha fatto analizzare dall’Agenzia delle Dogane 20 bottiglie di extravergine da cui è risultato che 9 di questi oli non rispondevano ai criteri organolettici richiesti.

I produttori interessati sono di chiarissima fama: stiamo parliamo di Carapelli, Bertolli, Sasso, Coricelli, Santa Sabina, Prima Donna e Antica Badia. Ed è giusto sottolineare che non è reato “tagliare” l’extravergine con altri tipi di olio, a condizione naturalmente di dichiararlo in maniera chiara all’esterno della confezione.

Questa storia ha evidentemente a che fare con il tema delle disuguaglianze. Nel senso che una parte minoritaria del Paese, in condizioni economiche più vantaggiose, ha un accesso più garantito a prodotti alimentari che presuntivamente rispondono a criteri di più alta qualità. Il tema dell’alimentazione, così strombazzato nei sei mesi di Expo, ha assunto ormai una posizione centrale nella vita delle persone, al punto che quel “Nutrire il pianeta”, la ragione sociale che ispirò la candidatura di Milano e che doveva approfondire e scavare nelle diseguaglianze del mondo, si è trasformato rapidamente in un fierone del food che ha portato milioni e milioni di famiglie a cibarsi di culture lontane. In linea di principio niente di male, anzi, ma non esattamente ciò che si concepì al momento della proclamazione di Milano città dell’Expo 2015.

Questa storia dell’olio extravergine che extravergine non sarebbe è perfetta per illustrare un dislivello inaccettabile della nostra società. Per restare al tema alimentazione, c’è una netta spaccatura nel Paese: chi se lo può permettere va a cercarsi un tal produttore, si affida a un presidio Slow Food, legge magari qualche guida (occhio alle immonde marchette dei giornalisti) e poi, spendendo certo di più, riesce a portare sulla tavola della propria famiglia un prodotto di qualità. Tutti contenti, tutti soddisfatti. Chi invece ha condizioni economiche meno generose, si vede costretto a battere la via normale di un supermercato, dove un cristiano qualunque penserebbe di essere ancor più protetto proprio perché meno fortunato. Nel caso dell’olio, se l’impianto della Procura di Torino dovesse avere conferma, il cittadino avrebbe speso per una bottiglia il trenta-quaranta per cento in più di quanto doveva. In buona sostanza si è impoverito, qualcuno gli ha tolto letteralmente i soldi dalle tasche.

Ma chi dovrebbe badare a questo dislivello, chi dovrebbe farsi sentinella di un equilibrio virtuoso tra più fortunati e più disagiati? Ovviamente lo Stato. Restiamo al caso dell’olio, perché è paradigmatico di una situazione molto più estesa. Come mai lo stato non ha vigilato, come sono potute finire negli scaffali dei supermercati e dei negozi quelle bottiglie e soprattutto: chi restituirà il maltolto ai cittadini eventualmente truffati?

I controlli evidentemente o non bastano o non sono all’altezza e sembra puerile che in queste ore il ministro Martina ci faccia l’elenco della spesa delle cose fatte e delle operazioni riuscite. In materia alimentare, come per molte altre discipline, i controlli dello stato sono fondamentali soprattutto per un motivo: perché costano molto e nessun altro se li può permettere. Me ne resi conto qualche anno fa, chiamato da Andrea Vianello come autore di «Mi manda Raitre». In un’epoca d’oro della televisione (e dell’economia), ogni questione controversa veniva messa a nudo dai laboratori, a cui la trasmissione ricorreva regolarmente nell’interesse del consumatore. Poteva essere un detersivo o una bibita gassata, ma quel responso spesso era in grado di dichiarare la vita o la morte di un prodotto. Nella stagione a cui partecipai, il ricorso alle analisi era molto meno intenso, non perché non ve ne fosse necessità, ovviamente, ma per una questione di costi esageratamente alti. Che la rivista «Il Test» abbia prodotto queste analisi sugli oli extravergini è una felice eccezione. Ma non è la norma.

I controlli che lo Stato non fa, o fa male, sono un contrappasso troppo crudele ma sin troppo evidente delle diseguaglianze della società. Soprattutto perché nessun altro, in forma privata, può organizzare una vigilanza parallela e per una serie di fondamentali motivi, che vanno, appunto, dai costi particolarmente sensibili, alla disagevole condizione intellettuale di non essere terzo e dunque neppure impermeabile alle possibili accuse di favorire questa o quell’azienda. C’è da lavorare con le università, c’è da staccare uomini volonterosi, probi e soprattutto capaci per ridurre, se non colmare, quell’insopportabile gap tra chi può comprarsi una cosuccia consigliata da Carlin Petrini e chi invece, rientrando trafelato a casa intorno alle otto, con i bambini che urlano, si fionda al super e prende la prima bottiglia che gli capita a tiro.

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