Artigiani
La scuola è luogo in cui il giudizio attiene all’autonomia
“ Childhood is the image where you can drink
The sweetness of memories
A place where you can hide
When the fierce beasty world put
Its nails in your flesh”
Amo il mio parrucchiere. Lo conosco da vent’anni e sono una sua affezionata cliente per la professionalità con cui svolge il suo lavoro. La tinta con cui copre i miei capelli è così naturale, così simile al mio colore, che non pensereste mai che sono tinti. Persino quel leggero tono con cui rendo il capello più luminoso, corrisponde alla mia sfumatura. Niente di alterato, niente di eccessivamente artefatto, non mi piacciono quelle tinte così vistose che inducono gli altri ad attirare lo sguardo.
Sfumare significa attenuare l’intensità di un colore, fare un abbozzo, rendere un’immagine sommaria, poco riconoscibile al punto che quell’immagine risulti anonima.
Un significato, ossia un concetto, perde di spessore se dissociato dal suo significante ovvero la sua rappresentazione mentale. Un significante è tutto ciò che è rilevante perché ricco di significato, espressivo. Ciò che siamo, non è legata al destino, alla fatalità, al puro avvicendarsi degli eventi, ma affonda le sue radici in ciò che siamo stati, nei nostri ricordi, che il tempo non cancella o attenua.
L’infanzia è il luogo in cui non esistono sovrastrutture, è il mondo incontaminato dal calcolo, sono le braccia che ci hanno sostenuto, i giochi che eravamo soliti fare, le immagini familiari che comparivano sulle prime polaroid. La sottrazione delle rotelle della bici che marcava l’abbandono del mondo dei piccoli e la novità di farcela a restare in equilibrio dando una postura precisa al corpo. L’ infanzia è quel mondo necessario in cui è inevitabile rifugiarsi perché è la sorgente in cui ci dissetiamo quando abbiamo bisogno di ritrovare la nostra immagine, quella realtà che si oppone alla disgregazione di un mondo che va in frantumi, demolito sotto i colpi dell’indifferenza, dell’odio, della sopraffazione.
C’è un mondo che demolisce, che falsifica, che fa della confidenza un pettegolezzo pubblico, un’arma con cui ferire. Che non conosce correttezza, che vorrebbe arrogarsi il diritto di insegnare. Dimentica di aver deriso la scuola, e continua a farlo. Non riconosce la grandezza dell’altro, per loro grandeur è la possibilità di corrompere e acquistare un titolo.
La donna è una forma su cui possono scrivere il mondo che hanno progettato. Un pensiero autonomo va sporcato con l’offesa, con l’insulto. Non ha cervello una donna che sceglie una strada più impervia, la sua strada; è una donna che conferma il loro stereotipo che è sempre stata da scartare perché è una poco di buona. Vivono un mondo sottosopra, in cui nascondono facce. C’è il prestanome che deve fare fede per loro, perché la loro l’hanno più volte deformata. E se non rientri nel loro giro, cercano di deformare la tua. Non sanno nulla d’arte, ma creano spazi artistici su misura, come quando durante il sequestro di Giuseppe Di Matteo gli improvvisavano celle in muratura. Un omicidio commesso a San Giuseppe Jato, l’11 gennaio 1996, da esponenti mafiosi nel tentativo di impedire che il padre, Santino Di Matteo, collaboratore di giustizia ed ex-mafioso, collaborasse con gli investigatori.
In foto: Marcello Dudovich
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