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La rivolta dei gilet gialli in Francia: sarà vera gloria?
La rivolta dei gilet gialli contro la carbon tax varata dal presidente Macron, la cui popolarità è ormai sottoterra, sta dilagando da giorni nella Francia periferica, sorprendendo per numeri, imprevedibilità, eterogeneità delle adesioni e metodiche. Il bilancio momentaneo degli scontri offre un bollettino da guerra civile in embrione, con un morto, centinaia di feriti e nessuna volontà di arretramento da ambo le parti in causa.
La controversa ecotassa, concepita per scoraggiare l’utilizzo di veicoli inquinanti e abbinata ad alcuni incentivi statali per l’acquisto di auto ibride, costituisce, di fatto, il coronamento non negoziabile della linea politica intrapresa dal leader di En Marche sul tema della tutela dell’ambiente, sommandosi a un recente aumento del 15% del prezzo del carburante. L’impatto del provvedimento (che entrerà in vigore a gennaio) su quelle consistenti fette della popolazione costrette a viaggiare quotidianamente per ragioni lavorative sarà notevole. Da qui, blocchi stradali, piazze gremite e cariche poliziesche.
Comprensibile a questo punto l’interesse per la vicenda da parte dei commentatori nostrani. Una protesta spontaneistica, disintermediata – poiché slegata dall’intercessione sindacale –, eppure così energica, merita senza dubbio una finestra d’intelligibilità. Ma merita anche cautela nell’approccio. Perché è concreto il rischio di sbrodolamenti giornalistici o partitici della primissima ora inclini alle classificazioni leggere.
Il meccanismo è semplice. Collocare una ribellione ancora non inquadrabile sul materassone memory foam della lotta all’establishment e, all’occorrenza, intestarsela frettolosamente in attesa di nuovi sviluppi. Uno spettacolo che conosciamo alla perfezione e che in Italia inscena più repliche che altrove. Forse perché chi osserva la realtà italiana è abituato a confrontarsi con piazze dechirichiane, enigmatiche, mute, pigre, preda di un’atmosfera post-storica, incapaci di fornire contenuti politici rigogliosi. Oppure perché, tra chi si accinge a decodificare eventi di questo tipo, continua a gironzolare il complesso di inferiorità rivoluzionaria nei riguardi dei francesi. Questione di retaggio: loro hanno inventato l’illuminismo, noi il fascismo, quindi, quando protestano tendiamo a dargli credito.
Le parole dell’hedge fund manager Crispin Odey, non esattamente un upgrade di Antonio Gramsci, darebbero manforte alla prima ipotesi: “Mi ha sempre stupito il fatto che gli italiani abbiano subito una caduta ventennale del potere d’acquisto senza creare disordini in piazza”. Il considerare, invece, assodato l’attraversamento del tempo da parte della protesta gialla, subodorabile tra le righe di qualche editoriale improvvido, farebbe pendere l’ago della bilancia verso il supposto complesso di inferiorità. Altrimenti come spiegare, da italiani, la puntuale dimenticanza di fenomeni analoghi, quali i forconi o il popolo viola, da parte di chi sta maneggiando gli avvenimenti francesi per il nostro comparto mediatico; una vaga esterofilia non rappresenta una spiegazione sufficiente.
A proposito, ricordate i forconi e il popolo viola? Risposta cinica: una volta incontrarono la Storia, non li riconobbe. Risposta cinica numero due: grasse risate. Risposta morbida, quasi possibilista: confluirono in altro.
Bene, se ci fosse una lezione da estrarre da queste esperienze spontaneistiche fallimentari, con ogni probabilità, sarebbe la seguente: una dimensione protestataria permeabile, orizzontale, incline all’outfit suggestivo e non coordinata da corpi intermedi, può dare adito, con agio, a un surplus di entusiasmo e simpatizzanti nel breve termine, ma, sulla lunga, può trasformare le suddette caratteristiche d’apertura in limiti strutturali e sfaldarsi senza lasciar traccia. E non è l’uomo nostalgico del Novecento che è in noi a parlare, ma la scarsa longevità acclarata di ogni forma d’antagonismo sorta sulla rete con tali presupposti.
Tutto questo scetticismo risulta prevedibile e fuori luogo? Dunque, sospendiamo per un attimo il pregiudizio, teniamo a bada l’offensiva scettica e cerchiamo, in breve, di abbozzare il profilo del rivoltoso in giubbotto catarifrangente per seguirne la logica rivendicativa.
Cosa notiamo lanciando un primo sguardo panoramico? Un contenitore movimentista, l’ennesimo, prodotto e preparato dalla stagnazione economica e dall’annessa polverizzazione del ceto medio, stesse forze motrici agenti nei vari populismi in ascesa. In altre parole, l’espressione, l’ennesima espressione, della diacronia tra politica e società civile, tra società civile e realismo.
A uno sguardo più ravvicinato? Una postborghesia precarizzata, incapace di immaginarsi al di fuori del privilegio perduto, e una protoborghesia inibita alla meta, incapace di accettare l’idea del privilegio inafferrabile.
Ciò che si rivendica, in sostanza, è il superamento dello status quo con lo status quo ante, l’avvento di una retrotopia luminosa. In quest’ottica, il progressismo ecologista entro cui si ubica la carbon tax somiglia a un lusso, l’attuale redistribuzione della ricchezza lo sottolinea. Il pianeta può aspettare, anche le generazioni future. La rivoluzione, forse, dovrebbe essere altro, ma noi potremmo avere problemi di vista.
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