Consumi
Il nuovo narcisismo tra chirurgia plastica e autoscatto
“Se vuoi darti una botta di vita, non c’è bisogno di scomodare avvocati e carte bollate, puoi farlo comunque, io l’ho sempre fatto. Sotto banco. In nome di una liberà di quattro soldi. La mia. La libertà di mentire, di tramate, di rubare le vite altrui senza che quelle neanche se ne accorgono. A volte l’onestà è una gran cazzata e non fidatevi di chi parla male dei furbi, è gente intrisa di un moralismo precostituito”. (P. Sorrentino)
Un selfie non è mai una posa a perdere: non ci si fotografa mai tristi, in disordine, non filtrati. È la regola per pesare nell’impero del piacere. Un impero che tutti abitiamo e che ha inevitabilmente finito per modellare il concetto stesso di bellezza. Durante la pandemia, tra riunioni online via Zoom, videochiamate e dirette Instagram, l’immagine dei nostri corpi è diventata un riflesso costante, lo specchio è lo sguardo degli altri. Indicativo è anche l’aumento delle procedure mediche cosmetiche e degli interventi di chirurgia plastica che hanno registrato un trend in crescita costante nel mondo.
Si interviene su testa e viso, in chirurgia palpebrale e blefaroplastica e per il miglioramento delle labbra. Sono proprio i ragazzi e le ragazze i nuovi pazienti che si sottopongono a interventi di chirurgia estetica, quelli della Generazione Z. Una vera e propria ossessione per la perfezione che ci porta a vedere imperfezioni anche dove non ci sono e che, nelle situazioni più gravi, può portare ad un disturbo: la dismorfofobia o dismorfismo corporeo che è considerato un disturbo ossessivo compulsivo. Ci sono ragazze, poco più che ventenni, che non hanno bisogno di aumentate il volume delle labbra e invece lo vogliono ingrandire con acido ialuronico in maniera eccessiva, fino a raggiungere misure irragionevoli.
La mistificazione del corpo serve a negarne la caducità. Non solo il ricorso alla chirurgia estetica, ma anche l’ossessione per la forma fisica, l’inseguimento della magrezza o della muscolatura tatuata, la proliferazione di laboratori per la cura delle unghie, lo sbiancamento dei denti. La lista degli interventi cosmetici è infinita: dalla demandorlizzazione degli occhi in Corea agli impianti de glutei in Brasile.
Se un tempo le pazienti, foto alla mano, richiedevano di assomigliare alle top model, oggi la richiesta si allinea allo spirito del tempo: per le ragazze il riferimento è spesso quella che gli americani chiamano “rich girl face” ben promessa dalla famiglia Kardashian come Kim e Kyle Jenner, zigomi pronunciati e labbra gonfie. Spesso moltissimi giovani si presentano dal chirurgo con un selfie a cui hanno applicato filtri di bellezza. I filtri dei social diventano il modo in cui vediamo noi stessi il modo in cui vogliamo vederci.
Il selfie è stato catalogato come il nuovo disturbo mentale, l’associazione inglese “Girlguiding” ha condotto un sondaggio proprio sull’uso dei “filtri di bellezza”, rilevando che il 34 per cento degli utenti non posta mai immagini di sé senza ricorrere a questi strumenti di alterazione artificiale. Per quanto riguarda la differenza di genere nell’uso dei filtri: i ragazzi li definiscono divertenti, le ragazze come uno strumento per sentirsi più belle. Certo il filtro ci fa una pelle perfetta, toglie macchie e cicatrici, ma le ragazze che li usano sono adolescenti o comunque giovanissime che considerano come caratteristiche di un volto perfetto un naso piccolo, occhi grandi, labbra carnose. Spesso se si usa un filtro è perché ci sono cose di sé che si vogliono cambiare. La funzione social non rischia di filtrare solo una foto, ma inghiotte la percezione della realtà, fino a farla perdere, specie nella fase delicata della scoperta del sé. Se il mito di Narciso narra di un uomo che si innamora della propria immagine riflessa nella superficie del lago, un mito quindi che dovrebbe coltivare la nostra unicità, oggi molti adolescenti sembrano coltivare la loro replicabilità, il conformarsi a una regola dell’immagine per essere accettati. La credenza alla base dei selfie non è “mi vedo dunque sono”, ma “sarò visto dunque sono”. L’ossessione dei selfie da far rimbalzare sul social è bisogno di riconoscimento, per molti proprio fame. Non di guardarsi, ma di essere guardati da migliaia di occhi. Dentro ogni fenomeno narcisistico c’è la speranza di essere notati, forse per essere amati dalla società, dalla famiglia.
Il passaggio dalla cultura del narcisismo alla cultura del video- narcisismo, evoca, quindi, l’immagine archetipica dell’autorispecchiamento, la sorgente d’acqua in cui Narciso si specchiava è diventato oggi lo smartphone. Tutto ciò è ascrivibile al fatto che viviamo in un’epoca che facilita lo sviluppo di immagini di sé fragili che si traducono in paura di rapporti duraturi, superficializzazione e virtualizzazione delle relazioni, stigma per ciò che è considerato brutto, orrore dell’invecchiamento, rimozione della vulnerabilità, ricerca dell’apprezzamenti a buon mercato. Un like vale più di uno scambio comunicativo.
Non che sia un male coltivare se stessi. Il vero problema, e qui è lo spartiacque tra narcisismo temperato dell’ambizione e dell’assertività a quello patologico della grandiosità e dell’insensibilità, è se questa ricerca è fatta con gli altri o a loro discapito. Viviamo nell’epoca in cui si sono indeboliti i legami di solidarietà e si sono irrobustite le idolatrie fatte di ossessioni identitarie, economiche, estetico-chirurgiche.
Se la reputazione, che si può facilmente tradurre con la frase chi sono io per gli altri, prende il posto dell’identità, che è ciò che io vedo di me, che effetti produce? Reputazione e identità sono cruciali nella personalità narcisistica. Il narcisismo è spesso il motore della volontà di autoaffermazione del desiderio di possesso, che possono aprire la via alla “volontà di potenza” e, in circostanze esasperate, alla prevaricazione e al dominio sugli altri.
Se esistiamo solo se ascoltati, la Generazione Z, tra selfie e video, chiede di meno: si esiste solo se filtrati.
In foto: Ugolino, Rodin.
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