Consumi

Gianni Morandi e la dura vita del commesso nell’epoca del “sempre aperto”

19 Settembre 2016

Papà Francesco e le domeniche

Gianni Morandi viene attaccato perché posta sui social una sua foto sorridente mentre esce con le borse della spesa, la domenica, da un supermercato.
Diciamo subito che apostrofarlo con un “vergognati!” non è un bel modo per comunicargli il proprio disappunto, disappunto che è in sostanza ascrivibile alla mai risolta questione se sia giusto o meno tenere aperti gli esercizi commerciali la domenica e i festivi.

Correva l’anno 2011 e Mario Monti aveva appena “salvato” l’Italia dallo spread e dal fallimento.

Fra le innovazioni  da lui introdotte vi fu  anche quella della piena liberalizzazione degli orari commerciali, una misura “tecnica” per rilanciare i consumi, misura di per se stessa bislacca in una fase di piena crisi in cui gli italiani facevano i conti con l’incubo della terza settimana e già faticavano a comprare il necessario negli orari di apertura canonici.
Va detto che prima di questa “rivoluzione” non è che la domenica nel Belpaese fosse inibita per i negozi ogni facoltà di alzare le saracinesche; la legge Bersani (si proprio lui) stabiliva un massimo di domeniche in cui si poteva aprire (sedici) e la possibilità per i comuni a vocazione turistica di splafonare. Ci si confrontava alla bisogna  fra comuni, imprese e sindacati, si concordavano calendari, e nessuna sollevazione di consumatori a rischio di inedia si è mai verificata in oltre un decennio.

Da questa norma di respiro nazionale  erano escluse in partenza librerie e mobilifici (la capatina all’ikea la domenica era di fatto un must anche prima del decreto Salva Italia).
Il furore liberalizzatore di Mr Monti si è in breve mostrato per quello che era: un grosso e gradito regalo alle imprese della grande distribuzione che sin da subito compresero che la domenica si poteva vendere di più perché un centro commerciale aperto, ahinoi, poteva anche divenire  un polo di aggregazione sociale alternativo a quelli tradizionalmente noti.

Il consumatore si crede libero ma spesso non lo è: la sua è sempre una libertà di scelta più o meno eteroindotta.

Le imprese hanno infatti guidato la trasmigrazione dei consumi verso la domenica, facendo iniziare le promozioni in quel giorno, aprendo le porte scorrevoli delle loro strutture, in coincidenza con  queste aperture, a vip e star della televisione, a improvvisate  lotterie con ricchi premi e cotillon, alle selezioni per i più  svariati talent show.

La domenica è presto divenuta, anche per effetto di questi stratagemmi di marketing, la seconda giornata dopo il sabato, in cui Auchan e compagnia bella registravano i maggiori incassi.

La liberalizzazione riguarda  però, giova tenerlo a mente, anche le festività civili, religiose e la notte; per queste aziende quindi si può dire che l’appetito è venuto mangiando, fino alle ultime derive che vedono Francesco Facchinetti scorrazzare alle 4.00 di mattino per le corsie di un noto colosso francese della GDO, nei panni di gioioso testimonial del “sempre aperto”.
Tra i commenti sotto la fotografia di Gianni non compare e per ovvie ragioni quello di un ben più importante Francesco, eppure il Pontefice ha a più riprese stigmatizzato il lavoro domenicale, arrivando a rispondere in prima persona ad una lettera di un bambino che gli si rivolgeva, lamentando il fatto che la domenica i suoi genitori, entrambi commessi, non potevano passare un po’ di tempo con lui.
Associazioni di categoria  come Confcommercio e Confesercenti, hanno ripetutamente  espresso contrarietà a questa legge, perché  i piccoli esercizi commerciali, spesso a gestione famigliare, non hanno alcuna intenzione di immolarsi sull’altare di una competizione sfrenata e dall’esito in partenza scontato e preferiscono chiudere, producendo tra l’altro la desertificazione dei centri storici.
E i lavoratori? Se la passano oggettivamente male.
Il “sempre aperto” non si è tradotto in nuova occupazione stabile, ma  si è limitato a stressare la vecchia. Nelle grandi catene (quelle che aprono sempre) ormai si assumono solo part time con la domenica obbligatoria e per chi cerca disperatamente una occupazione non esiste margine di trattativa.

Ci sono poi i precari di ogni ordine e grado, dai somministrati, ai soci di cooperativa addetti al rifornimento degli scaffali, ai voucheristi.
Federdistribuzione, la associazione datoriale che rappresenta la stragrande maggioranza delle imprese di settore e con lei le Coop di Consumo, non rinnovano il contratto nazionale di lavoro da ormai 3 anni; per le organizzazioni sindacali contrattare l’organizzazione dei turni e dei riposi è una attività pressoché quotidiana ma che spesso deve scontrarsi con ristrutturazioni, licenziamenti collettivi, trasferimenti coatti, con buona pace di chi pensa che i lavoratori di questo settore si lamentino per il solo gusto di farlo.
Chi associa il lavoro del commesso o della cassiera a quello di un infermiere o di un vigile del fuoco, ( obiezione ricorrente), non sa poi di cosa parla: infermieri e vigili garantiscono un servizio essenziale ed hanno condizioni contrattuali consolidate che compensano il loro disagio.

Si può sostenere che l’acquisto di un etto di prosciutto effettuato  a tarda notte  o il giorno di Natale o semplicemente la domenica sia un diritto irrinunciabile del cittadino?
Dietro questa polemica, scoppiata sulla bacheca Facebook  del Gianni nazionale, si celano temi profondi  alcuni dei quali davvero centrali e non banalizzabili  come spesso il tifo da web tende a dipingere.
Chi invita questi lavoratori a non lamentarsi ma anzi ad essere felici di poter lavorare, perché almeno loro un lavoro ce l’hanno, fornisce una testimonianza eloquente di come in questo paese sia ormai tabù parlare di qualità ( e non solo di quantità) della occupazione, di diritti e non solo di obblighi.

Il Jobs Act del resto, rappresenta la traduzione plastica in norma di questa filosofia poco lungimirante, semplificabile nell’adagio che un lavoro purché sia è sempre meglio dello stato di disoccupazione; peccato che un “lavoro purché sia” non renda competitivo il sistema paese ma finisca per affossarlo  anche e soprattutto  in termini di produttività.
Il modello di società che tutti in quota parte, contribuiamo a costruire, rischia poi di essere inquinato da una visione strabica della modernità, troppo schiava  del canto di sirene liberiste che tanto male hanno fatto in questi anni all’Europa.

Trasformare i centri commerciali in luoghi di incontro in cui trascorrere il poco tempo libero che abbiamo è  una manifestazione di progresso?

Sacrificare al consumo ogni valore anche quelli che costituiscono i fondamenti  della nostra storia e della nostra civiltà, come il Natale e il 25 aprile o il  Primo Maggio, è un passaggio da compiere con leggerezza?

Ignorare che il mio diritto (spesso come in questo caso derubricabile a capriccio) si poggia sulla insoddisfazione, sulla infelicità, talora sullo sfruttamento di un mio simile è questione su cui glissare con cinismo?

Gianni Morandi non poteva certo porsi tutti questi interrogativi quando ha varcato la soglia del supermercato, ed insultarlo perché non l’ha fatto è scorretto e ingeneroso.

Se  però da oggi tutti noi ci ponessimo, a seguito anche di questo episodio, qualche domanda in più su quante conseguenze sugli altri  può avere un nostro comportamento solo in apparenza neutrale, forse avremmo fatto un buon servizio al nostro vivere assieme. Gianni di certo lo farà. Proviamo a farlo tutti, assieme a lui.

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