
Consumi
Elogio del gusto. Ma quanto è ancora vero per le nuove generazioni?
Funzione, nutrizione e nuove derive alimentari
Tra le colline spoglie e resistenti sopra Madrid, nasce una possibilità. Tenere insieme energia e nutrimento, tecnica e cultura, sostenibilità e gusto. Ed è proprio in quel paesaggio che affiorano i primi segnali di una crisi più ampia. La preoccupazione espressa dagli allevatori spagnoli non riguarda solo l’economia pastorale. È una domanda sul futuro del cibo stesso. Sul suo valore culturale, sulla sua capacità di generare senso e identità. I giovani si allontanano dall’allevamento non soltanto perché è faticoso, ma perché sentono che il gusto – inteso come esperienza, come memoria, come racconto – è stato espulso dalla centralità della vita contemporanea.
Un’azienda italiana ha già avviato un progetto simile sfruttando lo spazio di un parco fotovoltaico. Ora vorrebbe replicarlo in Romagna, dove le pecore Asaf pascoleranno sotto i pannelli solari, alimentandosi con erbe selezionate e restituendo, attraverso il loro latte, un prodotto di altissima qualità. Ma non si tratta solo di qualità. È un sistema integrato, circolare, dove ogni elemento ha un senso e un posto. Dove anche il gusto ritrova dignità.
In quel caseificio che sorgerà accanto ai foraggi, non si produrrà solo formaggio, ma anche cultura. Si resisterà all’omologazione. Si costruirà un racconto che parte dal suolo, passa per gli animali e arriva fino alla tavola. È lì che il gusto torna a essere centrale, non come nostalgia, ma come risposta. Risposta a un cibo sempre più neutro, funzionale, privo di legami con i luoghi e le persone che lo generano.
Un progetto innovativo che integra agricoltura ed energia solare, con un impianto agri-voltaico dove il rispetto per la tradizione e l’innovazione si incontrano.
Ma solo in Spagna si stanno verificando queste problematiche, o la globalizzazione ha reso ogni Paese e paese identico all’altro? Dove si trova il confine tra tradizione e omologazione, tra sostenibilità e mercato?
Sostenibilità, in fondo, non è solo una questione ambientale. È anche culturale. Un allevamento integrato in un progetto energetico non è una contraddizione, è un paradigma. L’idea che l’innovazione non debba distruggere ciò che ha valore, ma custodirlo. Nutrire il futuro senza smettere di onorare la memoria. Anche nel gusto.
Il gusto come radice. E come assenza.
C’è stato un tempo in cui il gusto era un racconto. Un piatto sapeva di domenica, di nonne che cucinavano in silenzio, di mani che conoscevano la misura del sale meglio delle ricette. Il cibo era un sapere incarnato, un gesto trasmesso, una storia che si ripeteva con lievi variazioni, come un canto popolare. Ogni sapore portava con sé un luogo, un volto, una stagione. Il gusto era radice.
Oggi il gusto si è fatto periferia. Si mangia per funzione, non per emozione. Si scelgono i cibi in base ai valori nutrizionali, si contano le proteine, si escludono i grassi, si calcolano le calorie. Il palato non decide più. Obbedisce. La lingua non ricorda. Misura. Il lessico alimentare è diventato clinico. Il piacere è sospetto.
Il gusto, così, è stato estromesso dalla scena. Non più veicolo di memoria, ma orpello superfluo. Non più compagno della convivialità, ma distrazione dal risultato. In una società che ha smarrito la lentezza, il cibo ha perso il suo tempo. E senza tempo, non c’è gusto che resti.
La nuova dieta dell’efficienza
La nuova religione alimentare si chiama efficienza. Si mangia per performare, per ottimizzare, per mantenere il controllo. Il corpo diventa macchina, e il cibo è carburante. La domanda non è più: “Cosa mi piace?”, ma “Cosa mi fa bene?”. E il bene, oggi, è misurabile. Riduzione del colesterolo, indice glicemico, apporto proteico. Il gusto è bandito come un ingombro inutile.
Le nuove generazioni crescono dentro questa grammatica. Latticini, glutine, carne rossa: tutto è sotto accusa. Si mangia per sottrazione. Non si tratta solo di esigenze cliniche, ma spesso di scelte simboliche, identitarie. Mangiare diventa un atto politico, morale, performativo. Ma raramente un atto felice.
Si è persa l’ambiguità del piacere, la sua capacità di mettere in crisi le regole. Il cibo buono era, per definizione, imperfetto. Troppo unto, troppo saporito, troppo grasso. Ma anche troppo vero. E oggi questa verità fa paura. Meglio il controllo. Meglio la neutralità del tofu che l’imprevedibilità di un formaggio stagionato.
Le nicchie del gusto
Eppure, esistono resistenze. Piccole, ostinate, spesso silenziose. Sono i caseifici che non omologano, le botteghe che non rincorrono il mercato, gli allevatori che difendono la complessità di un sapore. Sono comunità di senso, prima ancora che di prodotto.
Le stesse nicchie che resistono nel mondo dei libri: editori che non inseguono algoritmi, lettori che non si accontentano della superficie. In un mondo che divora tutto in fretta, le nicchie coltivano profondità. E il gusto, come la lettura, ha bisogno di lentezza, di preparazione, di cura.
Forse è lì che si può riaccendere una speranza. Non in una restaurazione impossibile del passato, ma in una nuova alleanza tra consapevolezza e piacere. Un’educazione lenta, che restituisca al gusto la sua dignità culturale. Un nuovo lessico del cibo, che non rinneghi la salute, ma nemmeno la memoria. Che non separi il bene dal bello, il nutrimento dal sapore, il corpo dall’anima.
Mangiare, in fondo, è ancora uno degli atti più intimi e politici che si compiono. Ridargli senso significa rimettere al centro la domanda più antica: Che cosa ci nutre davvero?
Tre scenari possibili
Scenario 1 – Standardizzazione completa. La funzione vince sul gusto. Il cibo si fa neutro, replicabile, senza differenze. L’alimentazione diventa un protocollo. Solo le élite culturali ed economiche mantengono il diritto al sapore. Il gusto sopravvive nei salotti, ma muore nelle mense.
Scenario 2 – Resilienza delle nicchie. Le comunità che resistono trovano nuovi strumenti per raccontarsi. Il gusto torna a essere identità. Non per tutti, ma per chi sceglie. Si crea una frattura tra chi mangia per sopravvivere e chi mangia per raccontarsi.
Scenario 3 – Rinascita consapevole. Educazione, filiera corta, narrazione. Il gusto diventa linguaggio condiviso. Le nuove generazioni riscoprono la bellezza della lentezza, della preparazione, della differenza. Non si torna indietro, ma si sceglie un’altra direzione.
Contro il cibo neutro
Perché ciò che si mangia racconta chi si è. Perché la perdita del gusto è una perdita di cultura, di memoria, di relazione. Perché un piatto anonimo è come una lingua che smette di essere parlata. E ogni volta che si sceglie il cibo solo per funzione, si dimentica un pezzo della propria umanità.
Ma le nicchie esistono. E parlano. Sono i panifici che tornano a impastare con grani antichi, senza cedere alla fretta. I piccoli allevatori che non inseguono volumi, ma qualità. I formaggi prodotti in malga, che non finiranno mai nei supermercati ma che sanno di vento, di fieno, di vita vera. Le mense scolastiche che sperimentano il gusto prima della didattica. I mercati contadini, le botteghe di prossimità, i laboratori artigianali che rifiutano il compromesso.
Ogni nicchia che resiste è un laboratorio di pensiero. Non produce solo alimenti. Genera visioni. Non sfama soltanto il corpo. Nutre la possibilità di un’alternativa.
E forse è proprio lì, in questi gesti minimi e irriducibili, che si annida il germe di una nuova possibilità. Piccola, consapevole, sobria. Ma profondamente libera. Perché il gusto non è un lusso. È un modo di stare al mondo
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