Consumi

Cronache dalla quarantena. Il frigorifero vuoto

11 Aprile 2020

Stamattina il frigo è vuoto come un urlo. La spesa ha resistito due settimane. E se all’inizio fai lo chef, e costruisci una scena culinaria sontuosa, negli ultimi giorni devi imbastire lo sgagno con quello che c’è. E diventi creativo.

Mi guardano una carota ingrigita, due gambe di sedano ancora turgide, e nella sua urna di plastica resiste una mezza cipolla. La piantina di salvia sul terrazzo ha lanciato le prime foglie più grandi di un unghia e ho subito pensato al sacchetto di lenticchie che giace da dicembre nel mobile della dispensa, nascosto dietro lo squadrone di paste corte. In fondo stiamo aspettando tutti di festeggiare una specie di capodanno, e le lenti godono di una fama invidiabile per questo periodo di incassi svaniti. Cucinarle equivale a richiedere il bonus di 600 euro. Domanda all’Inps che ha fatto anche il 12% delle escort, notizia che mi ha girato un amico, accompagnata da sganascianti faccine. Sulle professioni di prima necessità nessuno scagli la prima pietra. Puttosto morda la prima mela.

Al dunque. Le lenti un paio d’ore a galleggiare, e ingrassare. Un trito di carota/sedano/cipolla che somigli alla ghiaia di Paleochori a Milos, spiaggia che tengo tra le celesti nostalgie. Deve appassire a fuoco minimal, che nessun granello bruci. Intanto un dado vegetale che scioglie in mezzo litro d’acqua al microoonde. Mai più Star, da quando passai davanti allo stabilimento sull’autostrada ad Agrate Brianza, nella giornata sbagliata, e quella scritta stellare lanciò strali di carcassa. Oggi uso i Rapunzel. Non ricordo dove li ho scoperti, ma ho vissuto il furore bambino di salvare la bionda rinchiusa in una torre e il nome non l’ho dimenticato. Li prendo da NaturaSì. Compro solo quelli, però. Ogni volta entro, faccio scorta di Rapunzel original e in venti secondi arrivo alla cassa. Un po’ ladro, un po’ peccatore, di passaggio in corridoi di aspiranti santoni.

La fiamma si alza con vigore, le lenticchie versate tintinnano aggrovigliandosi alla sabbia tricolore, rovistate con vigore da un cucchiaio di legno. Le foglie di salvia intere, che quando poi le ritrovi sulla lingua è un momento balsamico, e subito dopo il nostro brodo col dado da puzzoni. Monitorare un bollire sottile sotto coperchio, mezz’ora e si assaggia. Devono risultare farinose dentro, ma orgogliose in corteccia. Mangiarne senza pudore.

Ora che il frigo ha toccato il fondo è tempo dello spesone che ci avvicinerà a questo 3 maggio, nuova frontiera del condannato. Il signor Conte ha rilanciato. E menato pesante. Il Grande Meschino e la Pupazzetta Cattiva hanno detto bugie e lui conosce i tempi della vendetta. Miserie della politica che aizzano miserie social, e che ormai mi fanno il solletico. Mi aggrappo all’unico Conte possibile per un romantico in quarantena. Paolo. Dammi un sandwich e un po’ d’indecenza/ e una musica turca anche lei/ metti forte che riempia la stanza/ d’incantesimi e spari e petardi…/che si senta anche il pullman perduto/ una volta lontana da qui/ e l’odore di spezie che ha il buio/ con noi due dentro al buio abbracciati/eh come mi vuoi?

Cosa si può dire e chiedere di più grande?

La lista lasciata sulla credenza è un foglio dove ognuno di noi family segnala ciò che manca, quando si accorge che manca. A guardarlo è però un rompicapo. Quattro grafie diverse, stampatelli e corsivi che si mordono, parole che vagano in tutte le direzioni. La devo riscrivere.

Divido il nuovo foglio in scompartimenti che seguono la sequenza corsie dell’Esselunga. E man mano cancello il soggetto che inserisco nel posto giusto della lista vergine. I surgelati li scrivo nella parte dietro, da soli. Gli ultimi. In lotta contro il tempo e la temperatura.

Per sapere se dovessi pensare anche a loro, per la spesa, ieri sono passato dai miei. Ma il vero motivo era poterli guardare in faccia. Ne hanno bisogno. Ne ho bisogno. Non li avevo avvisati, e quando al citofono ho ripetuto l’ingenuo e onnipotente “Sono io”, mia madre ha schiacciato l’apertura cancello come se dovesse sfondarlo. C’era dentro un’esultanza.

La porta è già socchiusa. Mia madre in corridoio, in piedi, ad accogliermi. Mio padre sulla sua sdraio, il suo trono povero: senza dentiera sembra Stanlio. Non hanno la mascherina, li ho presi di sorpresa. Sono a posto per più di una settimana, non mi serve niente, dice mia madre, che mi parla stando a due metri, tenendo una mano a coppa sulle labbra a simulare una buffa mascherina, ma sembra stia cercando di confidarmi un segreto. Ci si scambia qualche info su figli, mogli, fratelli e nipoti, ma tutto l’importante viaggia già tutti i giorni, su whatsapp. – Tua madre ha sempre quel cellulare in mano – dice sconsolato mio padre. E mia madre, al posto di ribattere stizzita e accusatrice a sua volta, risponde disarmata – Papà ha ragione: non posso farne a meno, Mauri!

Dopo questa confessione di dipendenza, saluto a distanza: stringo un pugno d’incitamento a mio padre, mando un bacio col palmo a mia madre. E prima che sia fuori dalla porta, la stronzissima allergia da graminacee mi fa starnutire. Una mezza torsione a voltarmi, e alzo il gomito (lo so fare). E lei subito, con la mano aperta, spolvera l’aria davanti alla sua bocca. Come se stesse liberandosi di uno sciame di moscerini.

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