Cibo
Perché il pane costa al chilo quasi il doppio di un dolce industriale?
Anche quest’anno, a Pasqua come a Natale, sono rimasto colpito dal prezzo imbarazzante al quale vengono venduti panettoni e colombe. Onestamente non riesco a spiegarmi come si possa vendere un prodotto da forno, che contiene ingredienti pregiati, a 2.5 euro al Kg. Parliamo infatti, nel caso della colomba (non fate caso al marchio che compare nella foto perché la stessa cosa si ripete per altri marchi e per tutte le catene della grande distribuzione) di un eccellente dolce tradizionale, preparato con farina, zucchero, burro e uova, con tanto di glassa di zucchero, mandorle e contenuto in un sacchetto di plastica, a sua volta contenuto in una bella scatola di cartone. Come è possibile questo quando 1 kg di pane, fatto solo di farina, acqua e lievito, viene venduto a 4,5 euro?
Il problema, l’anomalia a mio avviso non sta nel prezzo del pane, quanto nel prezzo della colomba (o centinaia di altri prodotti alimentari).
Non voglio dare un giudizio snobistico o elitario, soprattutto in periodi come questo in cui la pandemia e la correlata crisi economica sta mettendo in difficoltà milioni di italiani, ma i prezzi dei generi alimentari tirati all’osso sono un altro modo di impiccare l’economia e di creare iniquità sociale.
Consideriamo i produttori di alimenti, pensiamo anche solo a quei prodotti agricoli che finiscono direttamente alla distribuzione e ai consumatori, come l’ortofrutta. Nei supermercati si trovano, a titolo di esempio, arance a 0.89 euro/Kg. Arance che naturalmente devono essere coltivate, raccolte, selezionate, confezionate e trasportate. Un prezzo simile al consumatore finale significa un prezzo notevolmente inferiore pagato al produttore, che in molti casi, sotto il ricatto della grande distribuzione cercherà di ridurre al minimo i costi di produzione, risparmiando anche sulla manodopera. Di qui allo sfruttamento dei lavoratori, al ricorso al lavoro nero e al caporalato il passo può essere breve.
Il problema a mio avviso è che abbiamo sminuito la sacralità del cibo, abbiamo fatto perdere di valore (tranne rare eccezioni), a ciò che mettiamo in tavola. Cerchiamo di ridurre al massimo la quota di reddito destinata alla spesa alimentare, mentre non esitiamo a destinare parti consistenti del nostro reddito ad odiose e inutili paccottiglie, importate da chissà dove, con costi ambientali enormi e che ben presto diventerà rifiuto. Prendiamo ad esempio il cliente medio degli hard discount, attratto dai prezzi stracciati dei generi alimentari. Molto spesso chi si trova in questa situazione viene inevitabilmente attratto da oggetti di importazione a prezzi altrettanto stracciati, di spesso inutili. In definitiva quindi anche il consumatore con un reddito medio-basso, entra al supermercato con la convinzione di risparmiare, ma esce con il carrello pieno di avvitatori a batterie, set di chiavi a brugola, coperte termiche, profumatori per ambienti e mille altre cose di basso costo e basso valore, avendo speso più di quanto avesse preventivato.
La quota di reddito destinato all’acquisto di alimenti e bevande è passata dal 45% circa dell’inizio anni ’60 a circa il 20% attuale. Questo ha indubbiamente comportato benefici, ma ritengo che si sia andati troppo oltre. Ridurre il valore del cibo lo espone maggiormente al rischio di divenire rifiuto. Il problema dei rifiuti alimentari è una piaga che affligge soprattutto i paesi “ricchi”, che ha raggiunto il 20% circa negli ultimi anni in Europa ed ha subito una battuta d’arresto solamene nell’ultimo anno a causa del Covid. Solo considerando i paesi dell’Unione Europea, sono quasi 90 milioni tonnellate di alimenti che finiscono nell’immondizia, con una perdita economica di 140 miliardi di euro l’anno.
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