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Renzi, Tsipras e la fenomenologia della cravatta in politica

6 Marzo 2015

Se si dovesse eleggere l’oggetto principe di questo anno 2015, senza ombra di dubbio la scelta cadrebbe sulla cravatta, vera e propria protagonista di questa era politica. In realtà la cravatta è accessorio utilizzato da almeno quattro secoli, tuttavia solo in questi ultimi mesi la discussione sul suo significato simbolico è decollata ben oltre qualsiasi intima domanda senza risposta da noi posta allo specchio, impegnati a curarne il nodo: «perché la cravatta?» è una domanda sicuramente balenata in testa ad ogni uomo in carriera e non, e lasciata spesso lì a macerare senza risposta.

Gran dibattito intorno ai rappresentanti del nuovo governo greco, il premer Tsipras e il ministro dell’economia Varoufakis, e sulla loro scelta di presentarsi senza cravatta nelle maggiori sedi istituzionali d’Europa. Ricordiamo tutti poi il regalo di Matteo Renzi al primo ministro greco in visita in Italia, proprio una cravatta, quasi un passepartout indispensabile verso le alte concertazioni con le massime istituzioni comunitarie. Ora, che il nostro modo di vestire rifletta simboli, costumi e tradizioni della nostra società e del nostro modo di essere è fuor di dubbio, come è fuor di dubbio che l’Italia sia uno dei paesi dove il discorso sull’abbigliamento e sull’aspetto da mostrare in pubblico si va maggiormente ad intrecciare con dettami convenzionali e regole stilistiche taciute. In fondo quel che noi chiamiamo “stile” è parte preponderante della nostra identità, cresciuti e pasciuti come siamo in un paese che della percezione visiva ha sempre fatto uno dei suoi maggiori vessilli di rappresentanza -tricolori, pittori, architetti e scultori di tutte le specie, maschere carnevalesche, passerelle d’alta moda, festival dei fiori, auto rosso fiammanti, casacche blu.

Il 4 marzo accade poi che Renato Accorinti, sindaco di Messina, venga lasciato fuori dall’Assemblea Regionale siciliana perché sprovvisto di cravatta. Sì, sembra uno scherzo ma non lo è: il sindaco della terza città più importante della regione non può partecipare all’Assemblea regionale perché non ha la cravatta. Come negli uffici più importanti, come nelle disco più esclusive. Selezione all’ingresso.

Fermato dalle telecamere di RepTv, Accorinti chiarisce che la sua è una provocazione voluta, inserita in un braccio di ferro che in realtà si consuma da tempo: «Per l’ennesima volta chiedono di indossare la cravatta -spiega- e questa è la prima volta che non mi hanno fatto entrare. Ovviamente non l’ho dimenticata: io non uso la cravatta ed è una mia libertà che mi voglio tenere».

Si può ragionevolmente pensare che al di là di questioni più approfondite e senza dover per forza entrare nello specifico della polemica e dei personaggi coinvolti, la richiesta di Accorinti appaia legittima, soprattutto a fronte di un regolamento che sicuramente non è scritto, o perlomeno non così specifico da rendere obbligatorio un determinato accessorio che, evidentemente, non si limita all’accessorio, ma al necessario.

In effetti la cravatta non serve a nulla, o meglio connota uno stile ma non ha funzione primaria. Istintivamente appare come un simbolo dell’uomo elegante, alcuni la ritengono un tratto distintivo del maschio investendola di significati fallici quasi come fosse un messaggio di virilità. Scrive Gian Luigi Paracchini sul Corriere della Sera nell’ottobre del 2007:

Nel decennio tra il ’ 20 e ’ 30 le cravatte arrivano ai 10 centimetri. In quello successivo hanno superano gli 11. Tra i ’ 50 e i ’ 60, basta dare un’ occhiata al collo dell’ attore James Stewart o di John Kennedy si sintetizzano mediamente nei 5 centimetri, mentre nel ’ 70 si espandono con involontario effetto clown addirittura attorno ai 15. È un po’ come la borsa, le cifre prima o poi ritornano, anche se qualche tempo fa a non mettere la cravatta era soltanto il direttore (in dolcevita bianco) del Mario Negri, Silvio Garattini, mentre oggi non mancano ministri come Alfonso Pecorario Scanio o amministratori delegati (Fiat) come Sergio Marchionne. Se la cravatta è stata messa a dieta è però perché tutto l’ abbigliamento maschile ha perso centimetri. Il cappottone avvolgente oltre il ginocchio ha lasciato spazio a cappottini che non si infilano nelle ruote dello scooter. E i vestiti, i pullover, le polo? Tutto a scalare, destrutturato, impietosamente slim, snello, sottile. Che ci sia sotto qualcosa? «Molto probabile – concorda lo psicologo Paolo Crepet – che dietro il ridimensionamento nei centimetri di tessuto ci sia una correlazione fallica, dunque sessuale. La giacca con i revers molto ampi, le scarpe minacciosamente a punta, le cravattone con quei nodi ingombranti sono una pubblicità esplicita e gladiatoria a qualcosa che non appare. Le cravatte più strette rivelano un un atteggiamento più morbido, meno machista. Di questo nessun uomo dovrebbe dolersi: abbandonare la corazza non è una liberazione?» 

Abbandonare la corazza. Altro concetto da gladiatore, o da mollusco. Dipende dai punti di vista: la corazza protegge in guerra come nella vita, può essere l’armatura del guerriero o il riparo per l’indifeso, sicuramente è qualcosa di distintivo. L’origine della parola cravatta risale ai tempi del Re Sole e alla Guerra dei Trent’anni, in cui i guerrieri croati erano facilmente riconoscibili da sciarpe annodate attorno al collo. Così si passò da “hrvat” a “cravate”, tant’è che Luigi XIV diede a questo reggimento il nome di Royal-Cravate. Già i legionari romani usavano fazzoletti attorno al collo per celebrare trionfi, e anche nel Seicento i foulard al collo erano precisi indicatori di ricchezza.

Nel Settecento ci fu l’esplosione della cravatta, negli Stati Uniti ma soprattutto nella Francia rivoluzionaria, dove le cravatte nere divennero marchio di distinzione per i progressisti rispetto ai conservatori. Fu lì che il colore assunse sempre più importanza, basti pensare alle cravatte rosse indossate di leader della sinistra nostrani, e alle cravatte verdi sfoggiate dai leghisti.

Per carità, molti autorevoli esperti di moda giurano sul fatto che l’accessorio maschile per antonomasia stia perdendo la sua attrattiva e tutto ciò che rappresenta costrizione – anche i lacci delle scarpe, ad esempio-  stia perdendo man mano importanza nel dovere estetico quotidiano. Tuttavia il caso del sindaco messinese ci riporta ad una realtà ben diversa, dove il concetto puramente estetico di moda perde la sua forza, soppiantato da un lato simbolico. Anche in Senato è vietato l’accesso ai colletti slacciati e sprovvisti del proverbiale nodo, il che ci aiuta forse a connotare la trasformazione simbolica del nastro di seta durante i secoli: non più orpello dell’opulenza, non più mero segnale cromatico di scelta politica, ma cavo da traino nel mondo che conta, dunque manifestazione d’appartenenza. D’altronde anche Oscar Wilde nel suo “The Importance of Being Earnest” scriveva che «una cravatta ben annodata è il primo passo serio verso la vita», mentre una recente ricerca condotta da due matematici ha appurato che esistono ben 85 modi diversi per annodare il celebre nastro di seta, anche se alcuni sostengono che ce ne siano addirittura 177 mila. Curioso ad esempio “il metodo Onassis” che spopolò durante gli anni Settanta e che prevede un nodo non visibile e piuttosto allentato.

Nodo allentato, stretto, grosso o piccolo, l’importante è che la cravatta ci sia. «Sono stato convocato dalla quarta commissione per la questione trasporti, per le ferrovie che tagliano i treni da e per la Sicilia» spiega Accorinti, costretto fuori dall’Assemblea, mentre si chiede se sarebbe stato riservato lo stesso trattamento «a uno sceicco o a Tsipras», confidando che «il modo di vestire è un’espressione della cultura e del modo di essere e va rispettato, come io rispetto quelli con la cravatta».

Infatti, a proposito di simboli, diciamo che neanche il primo cittadino messinese pare sottrarsi alla logica. Al posto della cravatta una sciarpa della Pace, vessillo di quella “rivoluzione a tinte arancioni” che ha segnato il suo insediamento durante le Amministrative del 2013. Come possiamo vedere dunque è molto difficile sottrarsi alla fascinazione del vessillo, che sia un cappio stringente o una sciarpa multicolore, quasi fosse davvero impossibile sottrarsi alla logica dell’identificazione e del proprio riconoscimento in una comunità. La mente corre ai sociologi che analizzavano il movimento punk degli anni Settanta, inquadrandolo come una risposta ribelle alla convenzione che però si inseriva a suo modo in una convenzione regolata dagli stessi meccanismi che regolano quella a cui ci si opponeva.

In questa logica dell’appartenenza puoi circolare senza cravatta come i greci o come le delegazioni iraniane, avverse  a quello che a detta loro è il più antipatico simbolo della parte più antipatica dell’Occidente, oppure puoi preferire un foulard sostitutivo atto sempre a demarcare qualcosa che va al di là dei semplici gusti estetici. Basti pensare alla kefiah palestinese -usata anche come copricapo o appunto alla sciarpa arcobaleno indossata da Accorinti. Un rifiuto difficilmente è a sé stante, nasconde sempre un matrimonio. Se sei sprovvisto del riconoscimento, difficilmente sarai riconosciuto, invitato, aiutato, sostenuto. Così fa la Regione Siciliana che non riconosce Accorinti, così fai tu durante la riunione di lavoro, così fa Renzi che dona la cravatta a Tsipras quasi a voler dire “questo è il modo”, o “questo è il nodo”, evidenziando l’accessorio che decide se puoi entrare dentro o se devi restare “chiuso” fuori.

 

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