Bioetica
Mio fratello è figlio unico
Tanti anni fa, Rino Gaetano, cantautore geniale scomparso troppo presto, scrisse una canzone dal titolo “Mio fratello è figlio unico”. La canzone (link) è un apologo ironico sul conformismo imperante in spregio al buonsenso (“..Mio fratello è figlio unico perché non hai mai criticato un film senza prima, prima vederlo..”); ma, come spesso capita anche a canzoni ben peggiori, il concetto riassunto nel titolo o nel refrain ha una valenza universale.
Sì, sul fatto che mio fratello o mia sorella siano figli unici, dal punto di vista naturale e sociale, si può tranquillamente convenire anche dopo la pubblicazione da parte di una prestigiosa rivista scientifica internazionale della clonazione di due scimmiette cinesi dai nomi improponibili (link). E il fatto che mio fratello o mia sorella siano figli unici ha un’implicazione etica interessante. Anche se non è facile spiegarlo in poche parole, voglio provare a scriverlo qui.
Partiamo da un dato di fatto: tutte le evidenze scientifiche degli ultimi centocinquanta anni mostrano che, a livello fisiologico, ogni organismo è una specie di macchina regolata da un programma. Dico subito, per evitare equivoci, che il concetto di “macchina” è assimilabile solo in parte ai congegni meccanici che di solito definiamo con questa parola. Detto questo, parliamo del programma, ovvero del codice genetico, il mitico DNA. Vi sono molti modi in cui gli organismi ricevono il programma all’atto della loro “nascita”. I batteri, che si riproducono dividendosi e replicando il DNA, generano individui identici geneticamente, ovvero cloni. L’uomo (insieme con molti altri organismi) riceve metà del patrimonio genetico dalla madre e metà dal padre. Queste “metà” sono sempre diverse; fanno eccezione i gemelli monozigoti, che sono cloni. Beh, batteri e uomini ci appaiono realmente diversi anche a prima vista. Tutto qui?
L’esperienza ci dice che in una colonia di batteri periodicamente appaiono individui con corredo genico diverso, e dunque differenti nella loro capacità di essere –per esempio- portatori di patologie. E due gemelli monozigoti non sono esattamente identici nell’aspetto, modo di fare, possibilità di ammalarsi e così via; non muoiono lo stesso giorno. La strategia della Natura è chiara: massimizzare le possibilità di sopravvivenza dell’individuo, attraverso sia la variabilità genetica iniziale che la possibilità di mutazioni del corredo genetico durante l’esistenza; si ha perfino la variabilità di come il “programma” viene applicato in seguito agli stimoli ambientali. Dobbiamo ancora capire molti meccanismi di questo processo, ma mio fratello è figlio unico, sempre.
E dunque, come rapportarsi alla tecnica della clonazione adesso possibile per animali prossimi all’uomo come le scimmiette cinesi? Oggi vi sono molti commenti autorevoli sui giornali. Alcuni si focalizzano sul fatto che la scienza non si può fermare ma è nella condivisione dei metodi e degli obiettivi che risiede la capacità di regolarla. Altri si scagliano contro la pretesa faustiana della scienza di manipolare la natura e persino l’uomo. C’è della verità in tutto questo, ma il punto, vero, è che due individui identici non si possono mai avere. La tecnica della clonazione va inquadrata in un contesto diverso, in cui dobbiamo farci una domanda: ma a cosa realmente serve avere due individui con lo stesso corredo genico anche se non saranno mai uguali?
Gli autori dello studio sulle scimmiette sottolineano una questione vera: spesso la variabilità degli individui impedisce di capire alcuni meccanismi biologici che possono, per esempio, aiutare a sviluppare cure. Diminuire al minimo possibile la variabilità degli esperimenti usando cloni è una buona strategia, naturalmente inapplicabile agli esseri umani, che non sono cavie. Perché allora non adottarla? Con molti altri organismi meno complicati si fa già da anni senza problemi. E’ un approccio pragmatico e, pur nel necessario rispetto verso animali capaci di provare sensazioni di dolore, può essere benefico per l’intera società.
Diverso è invece il caso se la clonazione viene pensata come modo per generare –lo dico brutalmente- parti di ricambio. Oltre ad un inaccettabile e sgradevole retrogusto nazista, è un’idea ridicola. Può darsi che un organo del mio clone fatto apposta possa aiutarmi a guarire da una brutta malattia, e magari mi evita solo alcune forme di rigetto, ma siamo entrambi figli unici e barattare l’aspetto etico con la certezza del risultato è non solo improponibile, ma stupido. Esiste una versione di questo approccio più accettabile, secondo cui si potrebbero clonare singole cellule “pluripotenti”, ovvero in grado di generare e riparare organi, e poi trapiantare queste nel corpo della persona malata. Si assume ancora che l’identità genetica sia sufficiente e che la clonazione non modifichi le caratteristiche delle cellule clonate, ma per ora i risultati sono controversi, e forse lo saranno sempre. Difficile rinchiudere la variabilità biologia in un recinto, ma vedremo.
La sostanza di tutto questo discorso è che la Natura ha un intrinseco autocontrollo che si rifà alla variabilità degli individui; che si rifà alla bellezza della loro diversità che li rende tutti speciali e unici, e che –alla fine- rende inutile qualunque tecnica che a questo deroghi, perché non vi è mai certezza che funzioni.
Più che gli studi scientifici sulla clonazione, ho molto più timore degli incantatori di serpenti che vorrebbero il pensiero unico politico sfruttando il malcontento e la percezione delle persone. Quegli urlatori di professione che stabiliscono che uno vale uno ma ci sono uni più uni degli altri. Quelli che additano alla caccia al diverso e allo straniero, trasformando una percezione in una realtà, ma rinunciando allo stesso tempo a regolare la realtà. La Natura si ferma da sè, l’imbecillità e la malafede no. Per quelle ci vuole la politica (buona).
Si, mio fratello è figlio unico, ma lo rispetto a prescindere e so che non cambierà.
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