Bioetica

La disconnessione emotiva e i discorsi sbagliati delle donne

3 Marzo 2016

La realtà non è difficile da capire: l’utero in affitto è reificazione, un processo in cui esseri umani – in primis la donna e il nascituro – sono trattati come cose, diventano merce. Il concetto è ben sintetizzato nella Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata (http://abolition-gpa.org/charte/italiano/): “Lungi dall’essere un gesto individuale, questa pratica sociale (la maternità surrogata, ndr) è realizzata da imprese che si occupano di riproduzione umana, in un sistema organizzato di produzione, che comprende cliniche, medici, avvocati, agenzie… Questo sistema ha bisogno di donne come mezzi di produzione in modo che la gravidanza e il parto diventino delle procedure funzionali, dotate di un valore d’uso e di un valore di scambio, e si iscrivano nella cornice della globalizzazione dei mercati che hanno per oggetto il corpo umano”.

Ma le cose non sono così semplici. E non solo perché sopra questo “sistema di produzione” si costruiscono zuccherose favole di buoni sentimenti miste a velenosi eccessi di omofobia, il tutto amplificato e involgarito dal tam tam ossessivo dei social network. Da donna sento discorsi di donne che mi fanno rabbrividire. Shannon Herman, psicologa del centro Extraordinary Conceptions, un’agenzia di surrogazione della California, ha affermato papale papale ad Anno Uno (http://www.announo.tv/2015/06/extraordinary-conceptions-dove-nascono-i-figli-delle-nostre-coppie-gay/?cat_id=archivio_puntata): “Le mamme devono capire che il Dna non è loro e mantenere una disconnessione emotiva con i genitori programmati”. La mia amica Alice con una tranquillità sconcertante mi ha detto: “Ma se io un giorno volessi portare avanti una gravidanza per qualcun altro, voglio avere la possibilità di farlo”. Barbara, invece, ha affermato sicura: “io non lo farei mai, ma non capisco perché dovei vietarlo alle altre, non mi sembra giusto”.

Shannon inventa teorie psicologiche per aiutare la costruzione di una donna-robot fattrice di bimbi conto terzi, perfettamente inserita nella catena di montaggio delle fabbriche della riproduzione e senza ‘paturnie’ emotive. E questo è davvero inquietante. Va a collocarsi in quell’inconcepibile che la mia mente non riesce e non vuole decifrare, perché qualcosa come un macigno si ferma prima, a livello emotivo – appunto – e non permette alla ragione di intervenire. Qualcosa si ferma prima. Crea tormento, riflessione, voglia di trovarsi a discuterne seriamente perché forse insieme si riesce a capire dove stiamo andando. La società siamo noi del resto. E allora come mai tutto ciò mi lascia una grande amarezza ed un senso di violenza inaudito?

La maternità è un grande desiderio femminile. E visto che c’è la possibilità tecnica, perché non provare quella surrogata? Questo è il ‘ragionamento’ di molte, troppe, ragazze e non solo delle mie amiche. La straordinaria capacità biologica di dare luce alla vita sembra diventata uno ‘sfizio’ tra i tanti (parlo delle donne occidentali, ovviamente, non delle ragazze del terzo mondo che vendono il loro corpo per vivere). Vuoi andare alle Seychelles? Comprare l’ultima borsa di Prada? O passare una settimana in beauty farm? Ok, io voglio mettere al mondo un bambino per un’altra coppia, così tanto per vedere l’effetto che fa. Allucinante. Ma la società in cui viviamo, iper-consumista, globalizzata, continua a creare bisogni fittizi per mantenere alti produzione e profitti in ogni settore, anche quello biologico. E questo ci deve spaventare.

L’accettazione passiva dello stato attuale delle cose ha intaccato e sta corrompendo il nostro stesso essere umani. In nome della tecnologia come ‘Bene assoluto’, ogni innovazione sembra normale, scontata e da provare. Dobbiamo, invece, resistere, resistere e ancora resistere. Mettere dei paletti, fissare confini invalicabili. Ragionare e far riflettere sulla natura dell’uomo e sui perché della nostra breve vita in questo mondo. Un compito filosofico, poco di moda, adesso. Ma assolutamente necessario, se non vogliamo che la situazione ci sfugga di mano, che superi il punto di non ritorno. Non vorrei proprio ritrovarmi intrappolata in un universo alla Truman Show, dove il regista della mia vita è un altro.

Intanto dissento, senza se e senza ogni immaginabile ma, dall’utero in affitto con tutto il mio cuore. Perché, grazie al cielo, non mi sono dimenticata di averlo, un cuore, e scelleratamente, visti i tempi, continuerò a considerare che la mia realizzazione di donna non coincida con il portare in grembo una creatura che non chiede di venire al mondo per il mio egoismo né per quello altrui.

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