Bioetica
Il Paziente Inglese
Ho visto il Paziente Inglese qualche mese dopo avere visitato l’Egitto, e ancora risentivo del clima di eccitazione da avventura africana che mi aveva accompagnato. Perciò mi piacque moltissimo, e sono andato a vederlo al cinema almeno un paio di volte. Ma credo che sia un bel film indipendentemente dal mio stato d’animo d’allora. Il bravissimo Ralph Fiennes nel film è il conte ungherese Laszlo Almasy, avventuriero ed esploratore aggregato ad una spedizione geografica inglese in Nord Africa durante la Seconda Guerra Mondiale. Almasy è perdutamente innamorato, ricambiato, di Katharine (Kristin Scott Thomas), moglie di un altro membro della spedizione, Geoffrey Clifton. Quando Clifton viene a sapere della relazione, architetta un piano per uccidere i due amanti e se stesso con un incidente aereo. Almasy si salva, Clifton muore e Katharine rimane gravemente ferita. Almasy la lascia in una caverna e va a cercare aiuto, ma la Guerra gli impedisce di tornare in tempo alla caverna per salvare il suo grande amore. Prova a portare via il cadavere con un piccolo aereo ma viene abbattuto in volo e finisce –terribilmente sfigurato dalle fiamme e totalmente infermo- paziente prigioniero dell’esercito inglese di stanza in Italia, senza nome e senza patria. Qui viene accudito amorevolmente dall’infermiera dell’esercito Hana (Juliette Binoche). Hana lentamente disvela la storia dell’avventuriero ungherese, anche grazie al diario di Katharine che Almasy porta sempre con se’. Un giorno, sopraffatto dalla sofferenza del ricordo e da quella che non sente essere più vita, Almasy chiede all’infermiera di dargli una dose molto più alta di morfina rispetto al solito; muore mentre l’infermiera gli legge le ultime parole di amore scritte da Katharine sul diario.
Mi sono dilungato a raccontare questo film perché mi piace, certo; ma anche perché contiene una serie di simboli –l’amore, la scelta propria o altrui di fronte alla morte- che mi sono venuti in mente spesso in questi giorni a proposito di un altro Paziente Inglese, il piccolo Alfie. Un bambino di nemmeno due anni, affetto da una malattia sconosciuta che, con rapidità orribile, ha pressochè distrutto il suo sistema nervoso attraverso fenomeni convulsivi.
Il piccolo Alfie Evans è diventato noto al grande pubblico per la sentenza con cui un tribunale inglese, sulla base di approfondite analisi diagnostiche, ha decretato inutile e dannoso (per il bambino) il mantenimento di cure palliative compreso il respiratore artificiale. Contro la sentenza si sono appellati i due genitori, chiedendo di fermare il processo di interruzione delle cure palliative o, alternativamente, di poter trasportare Alfie in un altro Paese dove la scelta dei genitori non può essere sovvertita da un iter giudiziario. L’Italia si è generosamente offerta, ed ha pure riconosciuto la cittadinanza al bambino. Molta opinione pubblica in Europa si è mobilitata, ed anche Papa Francesco ha fatto sentire la sua voce. In Italia si sono sentiti parecchio anche coloro che per abitudine prostituiscono tragedie per fini politici, ma non voglio parlarne in nessun modo.
Non sono un giurista, non ho idea di quali siano le basi legali della sentenza del tribunale inglese. Da persona il cui lavoro ricerca le basi della vita, e quindi anche le ragioni della morte, riconosco l’irreversibilità della malattia di Alfie. Nessuna cura, nessuna terapia sperimentale, è in grado oggigiorno di ricostruire il sistema nervoso. Non sappiamo bene quale sia la malattia di questo piccolino, ma sappiamo bene quale è il suo esito.
E tuttavia, la richiesta dei genitori, e l’offerta dei medici italiani o di altri Stati pronti ad accoglierlo, non si contrapponeva a questa evidenza. Si chiedeva solo di lasciare alla malattia il suo decorso, mantenendo le cure palliative. Un giorno, un mese, un anno ancora; un tempo forse corto o forse lungo; un tempo da lasciare ad un esserino assai minuto in un letto, incapace di vedere o sentire, forse incapace di percepire del tutto; un tempo che cento, o forse cinquanta anni fa non sarebbe esistito, ma che adesso è garantito dalla nostra scienza e conoscenza tecnica, quella che ha permesso di inventare appunto i respiratori e le cure palliative.
Non so se come padre avrei voluto uno strazio del genere. E sono da sempre per l’autodeterminazione di fronte alla morte, per un individuo cosciente o che sia in grado di lasciare una volontà. Ma per Alfie credo che la scelta debba essere solo dei suoi genitori. I giudici inglesi si sono arrogati il diritto di pensare che nello stato fisico di Alfie la prosecuzione delle cure palliative sia analoga a farlo soffrire. Nessuno –scientificamente- può dirlo con certezza; quello che è certo è che Alfie, come tutti i figli, non è completamente scindibile dai suoi genitori. E’ parte dei loro sogni e dei loro pensieri, anche da ben prima che nascesse. Di fronte all’incertezza della condizione fisica nel decorso spontaneo della malattia, la decisione spetta solo a loro. Diverso sarebbe il caso se i genitori cercassero impossibili cure alternative, vittime di qualche atroce illusione. Ma non è così.
Qualcuno ha detto, non ricordo chi, che la specie umana si differenzia da tutte le altre perché è in grado di fare promesse, ovvero di immaginare un futuro condiviso con qualcun altro cui si vuol bene o a cui siamo legati. Sono d’accordo, ma aggiungo che la scienza moderna e la tecnica medica ci aprono strade per mantenere promesse che sembravano impossibili, pagando prezzi anche molto cari. Adesso Alfie è morto, dopo quattro giorni di distacco dal respiratore a seguito della sentenza inglese, dopo uno strazio aggiuntivo cui sono stati sottoposti i suoi genitori, che certo non possono essere giudicati colpevoli di averlo amato in maniera sconfinata.
E da uomini, la sola cosa che possiamo promettere ad Alfie è quella di lottare perché in tutto il mondo civile vi sia una maniera uniforme di guardare, laicamente, sensatamente, senza arroganza, al confine labile che caratterizza la vita, al significato profondo che la nostra vita ha per chi ci vuole bene, ed alle scelte che da questo ne conseguono.
Perché, come scrive nel diario Katharine prima di morire nel Paziente Inglese, siamo noi i veri Paesi, non le frontiere tracciate sulle mappe.
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