Bioetica
Cara Beatrice…
Mi scrive un’amica. E mi dice: puoi leggere questa lettera e poi pubblicarla? È di Valeria Giordano. (Sopra, la foto presa dal suo profilo)
Una ragazza di Isernia che vive a Roma. Laureata,due master e un marito. Una donna di 38 anni che, però, non può avere figli. Lei ha avuto un mostro. Il cancro. E ha deciso di scrivere al ministro Beatrice Lorenzin. Scrive cose durissime. Piene di dolore. Dare la sua vita per avere un figlio: si dice pronta anche a questo. Per un uomo, per il sottoscritto, più si leggono le sue parole più viene da pensare a quale archetipo sia una gravidanza per una donna oggi. E più si legge Valeria, più viene da pensare alla politica italiana e al Fertility day del prossimo 22 settembre.
Ve la propongo così come Valeria l’ha scritta sulla sua pagina Facebook. E lascio che le donne, soprattutto le donne, esprimano la loro opinione e facciano le loro riflessioni, su emozioni cosi forti
Cara Beatrice,
saltiamo la parte in cui tu sei il ministro di un governo che non mi piace e io l’elettore che subisce le vostre decisioni. Ci fa perdere tempo prezioso, che sembra la chiave della campagna per la quale la tua scrivania si sta inondando di lettere. Parliamoci tra donne, come si fa con le amiche la sera quando si spengono i riflettori e si infilano le dita nel barattolo di cioccolata spalmabile per mettersi alle spalle una brutta giornata. Hai appena qualche anno più di me. Possiamo darci del tu. Io mi chiamo Valeria. Ho 38 anni. Ho il cancro. E ho tutta l’intenzione di speculare su questo affinchè la mia lettera esca dal mucchio virtuale e tu la legga. Tu Beatrice, non il tuo addetto stampa. Non la persona che ha progettato questa campagna per te e a cui ti sei prestata, prendendoti adesso tutti i calci in bocca come se tu ne fossi l’unica responsabile (e chi ti sostiene ha già detto che caschiamo tutti dal pero e non ne sapeva nulla). Ma che vi aspettavate Beatrice? Questo mi chiedo da quando avete fatto uscire i cartelloni. Che le signorine in età fertile si sentissero informate e accolte e che grazie a te corressero immediatamente a sfornare pargoletti perché è la patria che te lo chiede? Davvero non vi siete resi conto di quanto potevate essere offensivi e fuori luogo? Non ci credo. Sei una donna come me. Ti hanno messa in mezzo. Per forza. Altrimenti non si spiega. Parliamone da amiche. Io sono incavolata a morte per il Fertility Day, ma di certo anche tu hai avuto una pessima giornata. Perché ci hai messo la faccia e davanti alle telecamere sei stata così in difficoltà e ti sei arrampicata così tanto sugli specchi che ho immaginato che tu fossi scoppiata a piangere alla prima occasione di infilare la porta di una toilette ministeriale. Ma mentre ti soffi il naso io mi sono chiesta se per un secondo davvero te lo sei posto il problema di cosa andavi a scomodare quando hai lanciato questa campagna. Da donna che ha procreato per la prima volta da “vecchia” (passami il termine perché per quanto sembri scelto male è sempre meglio di primipara attempata, o madre geriatrica; l’avranno detto certamente anche a te), io mi aspetto che tu lo sappia che razza di vaso di Pandora sei andata a scoperchiare per le giovani donne italiane. Sì, ho detto giovani. Ma non per irridere al pessimo gusto della tua clessidra. Lo dico perché a 38 anni io giovane lo SONO; senza opinabilità. Eppure nel magico regno della fertilità il numero 35 segna una linea spartiacque talmente marcata, che non basterebbe il miglior stormo delle tue cicogne a ricordarci che non c’è più tempo. Sei andata a materializzare una delle nostre paure più ataviche, che coinvolge femminilità, scelte di vita, intimità, amore, malattie. Non c’è bisogno di prendersi il cancro alle ovaie come è successo a me per capire il dolore che hai provocato in un’intera generazione di donne. Io sto solo usando il mio vissuto di sofferenza per parlarti. Sono anni che mi interrogo sul perché io sia sopravvissuta ad un calvario che parte dalle mie gonadi e finisce ai miei dotti lacrimali. Ora lo so, Beatrice. E tu mi hai dato una mano in questo. Io servo ancora in questo mondo per dare voce a chi non ha la forza di urlare. Perché se provochi dolore tutti urlano e lo fanno in maniera generalmente scomposta. Ma non tutti riescono a farlo pubblicamente in modo tale che l’urlo arrivi a risolvere qualcosa. In troppi pensano che il dolore sia una faccenda privata da confinare alla propria intimità. Lo pensavo anche io prima del cancro. Poi ho capito che la mia malattia serviva a dare voce a tutti quelli che non ce la fanno a parlare e a tutti quelli a cui le grida si rompono in gola e si disperdono prima di arrivare in quel posto magico che le fa uscire liberamente. Io l’ho superata quella fase. Il cancro me l’ha insegnato e io ho solo ubbidito. Da allora le mie urla rompono anche i vetri delle finestre all’occorrenza. Ma in quest’occasione mi sto sforzando di essere pacata. Ti ho offerto un cucchiaino di gelato e sto mantenendo la calma. Altrimenti poi tu te ne vai e non capisci che questa cosa la potevi fare meglio, partendo da altre basi e da altri presupposti. Visto che si tratta di me possiamo cominciare dalle malattie: l’endometriosi, la pcos, i disordini endocrini, l’ovaio multifollicolare, le cisti, le patologie autoimmuni, l’anoressia e tutti i dca, le terapie farmacologiche di vario genere, io sono il festival delle patologie che minano la fertilità delle donne in “età da marito”. Pensane una e io ce l’ho. Nessuna di queste è colpa mia. Eppure non c’è una notte che non sogno di correre da mio marito con uno stick in mano e dirgli che aspettiamo un bambino. Non sogno altro da anni. È il pensiero che mi tiene ancora in vita e che mi dà la forza di superare ogni giorno le prove con cui la malattia mi chiede di misurarmi. È il mio motore del coraggio quando non ce la faccio più e penso di mollare tutto e farmi mutilare definitivamente per dare un taglio netto alla speranza, che però è l’unica cosa che mi fa sentire ancora viva mentre i medici mi torturano per salvarmi. Quando mi hanno detto che a causa del mio tumore dovevo scegliere di rinunciare definitivamente a questo sogno, perché se non lo avessi fatto avrei peggiorato la mia percentuale di sopravvivenza con un tasso variabile che era abbastanza difficile da calcolare, io e mio marito ci siamo seduti a tavolino ci siamo guardati in faccia e non abbiamo avuto esitazioni. Tra la mia vita e la vita della creatura che non abbiamo ancora concepito non c’è stato alcun dubbio. Abbiamo scelto lui/lei. Pensa che una mia ex amica, una di quelle sul cui affetto avrei messo la mano sul fuoco, non mi parla più per questo. Da una volta che, in preda ad una crisi di pianto, ha sentito la mia voce dire “meglio morta che non mamma”. Io e le mie lacrime avremmo sacrificato la mia vita, ma non la mia fertilità. Meglio morta che sterile. Credo di averlo ripetuto, più volte, piangendo a dirotto. Già… il pianto. La questione fertilità è il motivo per cui piango tutti i giorni da anni. Non un giorno sì e uno no, Beatrice. Tutti i giorni. Anche più volte al giorno. Io sono una persona che ascolta tanto e che ama il silenzio. Quando ascolto cose sull’argomento vedo che nell’immaginario collettivo la donna sterile è tutto l’opposto di quello che sono io (o che ero prima che le malattie compromettessero anche la mia immagine). Io ero una donna bionda con i riccioli, la pelle di porcellana e le forme giunoniche. Con il ventre accogliente, il sorriso gentile e i fiori tra i capelli. Non faccio peccato di superbia se ti dico che Botticelli mi avrebbe scelta per dipingere la dea della fertilità. Il mondo è abituato a pensare alle donne sterili in altro modo. Le vede come mascoline. Rigide. In bianco e nero. Invece a me la maternità sta proprio bene addosso. E quando per mesi ho portato in giro un addome gravido di cancro nessuno ha avuto il benchè minimo sospetto che nella mia pancia ci fossero i regali della morte al posto dei doni e delle messi della vita. Mi chiedevano: signora quando nasce, mi chiedevano se era un maschietto o una femminuccia e io non avevo il coraggio di dire che stavo covando un mostro che mi stava divorando dall’interno. Anche adesso che il mio aspetto è sensibilmente cambiato rispetto a questa esteriore bellezza mi dicono che sono troppo colorata per avere il cancro. Ma io non piango solo per questo. Piango perché non posso più tornare indietro. Piango per i rimpianti. Piango per le scelte che ho fatto e che non posso più cambiare. E questo mi rende straordinariamente simile a tantissime altre donne, non solo a quelle che hanno avuto il tumore dell’ovaio. Quelle che ti sto portando qui, tra una cucchiaiata e l’altra di dolce, non sono solo lacrime mie. Le mie fanno più scalpore perché c’è il cancro di mezzo. Io dico tumore e tu DEVI ascoltarmi. E io subdolamente me ne approfitto. Ci dovrà essere pure un cavolo di vantaggio ad aver preso una malattia così altisonante no? Il cancro fa un sacco di rumore quando lo metti in mezzo. Ma io voglio usare tutto questo rumore assordante per educarti le orecchie ad ascoltare anche il pianto sommesso di chi non ha la forza di urlare. Voglio che tu ci senta tutte. Perché prima sono venute le mie amiche a pregarmi di scriverti e poi sono venute anche tante sconosciute che mi seguono sui social e con cui potrei fondare il club delle ovaie sanguinanti, il club del dolore per un bimbo che non arriva, un bimbo che è arrivato e poi le ha lasciate, un bimbo che non arriverà mai (e io devo ancora capire dove collocarmi), il club del rimpianto, il club delle scarpine all’uncinetto che i tuoi pubblicitari hanno usato per la tua scellerata e indelicata campagna per ricordarci di procreare in maniera cosciente e responsabile e conforme alla nostra Costituzione. Sì se devo scegliere tra le immagini che mi hanno fatto più male quella delle scarpine è quella che decisamente vince. Scarpine batte cicogna e clessidra. Ce l’hai ancora un pochino di tempo così ti spiego il perché? Sai, io posso andare con le mie amiche a fare spese per i loro cuccioli, destreggiarmi tra vestitini, sonaglini, giochini e tutte le cose che in genere si designano usando diminutivi e vezzeggiativi. Cose da bimbi. Da zia amorevole lo faccio spesso. Uno di loro l’ho visto persino nascere. Ma quando andiamo a fare il baby shopping c’è un articolo che devo evitare tassativamente se non voglio scoppiare a piangere in mezzo alla strada anziché nell’intimità del salotto di casa mia: le scarpine all’uncinetto. Vederle mi provoca un dolore talmente grande che a volte mi sembra che il mio cuore possa scoppiare da un momento all’altro perché non riesco a sopportarlo. E cavolo io sono abituata al dolore. Faccio il donatore di organi marci in sala operatoria a scadenza regolare. So cos’è, ma quello delle scarpine è come essere trafitti da mille lame acuminate nella parte del corpo più sensibile, nel nervo scoperto, nel posto che ti fa più male. C’è persino un microracconto che si attribuisce ad Hemingway. Un racconto di appena sei parole, ma che ti schiaffeggia come un romanzo di mille: FOR SALE. BABY SHOES. NEVER WORN. Sono certa che saprai assumere un buon traduttore e qualcuno che ti spieghi che non servono più di sei parole per comporre un microaffresco narrativo così carico di dolore. Tutte le donne che non riescono ad avere bambini e ne vorrebbero o che li hanno avuti e persi nella pancia e fuori da essa, piangono di notte su scarpine come queste. Persino quelle che non lo sanno, perché non tutte riescono a dare al dolore una forma materica su cui versare lacrime. La rabbia sul tuo cartellone deriva esattamente da quelle lacrime lì. Eppure l’anno scorso sono stata alla mostra dell’artista Chiharu Shiota all’istituto giapponese di cultura qui a Roma, per intenderci quella che ha incantato la Biennale di Venezia con le sue istallazioni dense di emozioni. Tra loro ce n’era una che si chiama “State of Being (Children’s Shoes)” in cui un paio di scarpe da bambino sono intrappolate in un intreccio di filamenti neri, talmente fitti che non si riesce a più a distinguere il colore della calzatura. Non capisci se è bianca, se è rosa, se è azzurra. Capisci solo che di fronte ad essa devi piangere. E così ho fatto. Talmente forte che non riuscivo a smettere. Ecco cosa fa la visione di un paio di scarpine per bimbi ad una mamma che piange ogni notte per la sua fertilità che diventa ogni giorno lontana come un pallido ricordo. Tu che avresti fatto se quel giorno fossi stata con me al posto di mio marito? Tu che lo sai, perché chi fa il primo figlio dopo i 40 anni lo sa per forza. Mi avresti consolata? Oppure saresti stata lì a farmi la paternale per il fatto che a 30 non ho procreato, ma ho vinto un dottorato (pessima rima baciata, me ne rendo conto) e che di lì a poco il cancro e la chemio sarebbero arrivati a rubarmi le uova e a distruggere i miei sogni. Mi avresti fatta sentire in colpa con ansiogene cicogne o odiosi ticchettii di orologi o clessidre perché ho fatto la scelta di voler programmare per i miei figli un futuro decente e ho scelto di non farli quando non avevo ancora una stabilità lavorativa? Non voglio che la mia lettera sia uguale alle centinaia che hai ricevuto, cariche di proteste più che legittime in cui fioccano i nostri stipendi ridicoli, i contratti a progetto, le penalizzazioni professionali soltanto per il fatto di essere una donna nel pieno dell’età fertile. Quanta gente ti avrà scritto che tanti reclutatori escludono i CV a priori appena leggono che hai un’età compresa tra i 30 e i 40 anni e sei una donna. Leggile quelle lettere Beatrice. Ci vuole tempo, ma leggile tutte. Perché se una persona a 28 anni ha già una laurea (io avevo anche due master e frequentavo la mia terza specializzazione biennale), ma non ha un lavoro né precario né stabile è da lì che dovete ripartire. Non dal farci venire l’ansia per il tempo che passa e gli ovociti che finiscono. Nelle interviste che hai rilasciato io non ho sentito una sola parola di scuse verso tutte noi. Se tutto il mondo ti sta denigrando per il Fertility day non basta fare un passo indietro e dire che rivedrai i toni della campagna. Sono i presupposti. Avete provato a dare la colpa a noi per il calo di natalità e ci avete costruito una campagna ad hoc. Ma non è colpa nostra Beatrice. Siete stati voi. Non tu personalmente. Tu hai la tua buona fetta di responsabilità come ministro della sanità e quando ci hai tolto gli esami di prevenzione per la spending review te ne ho dette di parolacce silenti dentro di me. Tutti l’abbiamo fatto. Non solo noi pazienti oncologici. Siete di fronte ad un’Italia in ginocchio che pensa che la spesa più grande che abbiamo, non volermene, siete voi. Ma non vi abbiamo ancora visto metter mano ai vostri portafogli per il bene del paese. I sacrifici, come sempre, li chiedete solo a noi. A questa causa avete sacrificato anche la nostra fertilità che ora ci chiedete di preservare e coccolare. Ma voi che ora ci rimproverate per aver sprecato preziosi ovociti, cosa avete fatto per aiutarci quando saremmo stati ben felici di sfornare i bimbi per i quali adesso siamo troppo vecchi? Che avete fatto per la lotta alle malattie che minano la fertilità e portano alla sterilità molto più della birra che hai bevuto il sabato sera, della sigaretta che hai fumato o delle mutande strette? Se queste sono le nostre “manchevolezze”, voi dal canto vostro che avete fatto? Avete davvero bisogno di stipendi così alti per voi e fino all’ultimo dei vostri portaborse? Avete davvero così bisogno delle pensioni d’oro e vitalizi per aver lavorato così poco e così male? Avete così bisogno di gente mediocre che a stento si esprime in italiano e che però si è buttata in politica perché diversamente non avrebbe mai trovato un lavoro vero e onesto per giustificare la sua nullafacenza? Avete così bisogno di non pagare tutti i servizi che invece a noi addebitate? Quando i tuoi figli avranno bisogno dell’apparecchio per i denti saranno le mie tasse a pagarlo. Perché non tu con il tuo stipendio? Io le cure odontoiariche le pago di tasca mia pur avendo un’esenzione totale. Però pago l’apparecchio ai tuoi figli. Perché? Perché dobbiamo pagarvi pranzi e cene, parrucchiere, vacanze, abbonamenti allo stadio. Il mio stipendio sarebbe il triplo se non dovessi pagare tutte le tasse all’origine, ma i soldi che prendete dal mio lavoro non mi vengono restituiti in termini di beni e servizi efficienti. Spesso paghiamo solo i vostri benefit, ma dove sono i servizi per noi. Quando ho avuto bisogno della mia prima tac per confermare la diagnosi neoplastica sono stata costretta a pagarmela di tasca mia. Perché diversamente avrei trovato posto dopo un anno e mezzo e se non avessi sottratto quelle 500 euro alla mia borsa di studio dottorale, che mi serviva per studiare e non per pagarmi le spese mediche, sarei morta almeno un paio d’anni fa. E la cosa è successa tante di quelle volte da quando sto male che non le contiamo nemmeno più. La mia banca però conta benissimo. Senza la generosità della mia famiglia e dei miei amici non sarei nemmeno qui a parlarti. Nessuno ti cura il cancro se non hai una diagnosi. Quando si complicano le cose gli specialisti fioccano, ognuno col suo tariffario dai 200 euro in su. Le commissioni di valutazione mi hanno negato l’accompagno persino durante la chemio. Pago un piccolo obolo persino sui farmaci che mi prescrivono. Del mio stipendio una bella fetta se ne va in tasse e la stragrande maggioranza in spese mediche quando io dovrei avere tutto gratis avendo esenzione totale. Se queste cose non le raccontiamo a te che sei il ministro della sanità a chi vuoi che le raccontiamo. Perché è colpa nostra quando con le nostre tasse dobbiamo mantenere noi e voi? Perché non ammettere che avete esagerato e fare un passo indietro? Perché per una volta non stai dalla nostra parte invece di arroccarti dietro la casta? Ti hanno messo in una pessima posizione. I pezzi grossi lo fanno sempre con le ministre giovani e aggredibili. Sta a voi sottrarvi. Io non ti giudico per aver fatto il primo figlio dopo i 40 anni. Sono scelte tue, Beatrice. Avrai avuto le tue motivazioni. Non te le chiedo. Non mi interessa nemmeno se per diventare mamma hai avuto bisogno di quell’aiuto medico che a noi aspiranti mamme normali è precluso dai costi elevatissimi. La tua fertilità non è un bene comune. E’ tua e solo tua. Invece tu vai in tv a dire che la mia è anche tua. Perché me la vuoi rubare? E mi rimproveri pure. Sbandieri cicogne, affermi che ho sbagliato e mi dici datti una mossa come se fossi una ragazzina lenta e pigra che non vuole fare i compiti per casa. Ma il paradosso ulteriore è che la ramanzina non me la prendo da una che ha fatto figli a 20 anni dopo aver organizzato una brillante carriera per sé e per il compagno (dei mariti non si parla proprio se non nella foto coi piedi all’ingiù). Me la prendo da una come me che i figli li ha fatti da vecchia e che però non ha nemmeno la giustificazione che ha dovuto studiare fino a 30 anni inoltrati come la maggior parte di noi. Una che fa i figli da vecchia più vecchia di me e che però mi dice che i genitori giovani sono creativi. Tu non lo sei con i tuoi bimbi? Si annoiano perché sei troppo vecchia? Capisci Beatrice da dove viene l’offesa? Sei entrata a gamba tesa nella nostra intimità, nelle nostre scelte di vita e senza nemmeno dare il buon esempio. Noi con te non ci saremmo mai permesse. Scegliere te come portavoce è stata proprio la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ci hai detto che se avessimo fatto figli quando non avevamo assolutamente idea di come crescerli saremmo stati genitori creativi, consapevoli e responsabili. Mentre il fatto di aver SCELTO di differire la maternità e la paternità (siamo sempre in due eh… anche se voi non ve ne siete accorti) ad un momento quasi irragiungibile in cui avremmo avuto autonomia e sicurezza economica ci rende automaticamente potenziali genitori irresponsabili, inconsapevoli e senza creatività. Ma lo pensi davvero? E se lo pensi come giustifichi le tue scelte diverse in questo senso? No ti prego non venirmi a dire che sei stata fortunata. Hai scelto. Assumiti la responsabilità di quello che hai scelto soprattutto adesso che metti in discussione le scelte nostre, ma non la tua. Io a 28 anni ero prontissima a sfornare pargoli. A 30 ho incontrato l’uomo che poi sarebbe diventato mio marito. Siamo colpevoli per non esserci dati immediatamente alla procreazione selvaggia sottovalutando che il mio AMH diminuisse di mese in mese. Tu Beatrice quando hai incontrato il tuo uomo ti sei contata la riserva ovarica? Quando i 35 si avvicinano sono discorsi che iniziano a sfiorarti. Non tutte le mie amiche sono riuscite ad affrontarli col partner. Troppa paura di sembrare zitelle contaovuli con le clessidre in mano… sì quelle che hai immortalato tu sono la classica immagine che fa fuggire i nostri maschietti con la sindrome di Peter Pan a gambe levate. E fa venire l’ansia anche a quelli che non ce l’hanno. Ma secondo il vostro irresponsabile esempio noi avremmo dovuto farci fecondare comunque, anche se i nostri partner non si sentivano ancora in grado di diventare genitori, solo perché l’orologio biologico ticchettava impazzito e ora lo fa anche dai cartelloni in mezzo alla strada? Non hai mai avuto paura che il tuo uomo se ne andasse con una più giovane e più bella di te? Una sana ventenne con le tette sode e la gravità al punto giusto e piena di ovociti freschi freschi? Io ho un sacco di amiche che l’hanno avuto questo terrore. Tu no? È così umano. Ogni tanto adesso capita anche a me da quando sono praticamente sterile. Credo che sia la paura di sentirsi inadeguate o indegne, che per molte di noi si sposa benissimo al senso di colpa per essere pessime fattrici. Il terrore di non essere più in grado di portare avanti la famiglia e che per questo possiamo essere mollate per un paio di seni sodi attaccati al busto di una con i valori di inibina B da paura. La paura di non saper assolvere ad un compito atavico che è sopito dentro tutte noi, persino nelle donne che non hanno mai desiderato di diventare mamme e che in genere trasformano questa paura atavica in quella di invecchiare, di non essere più desiderabili. La stessa che tu hai messo sui cartelloni anche se hai tentato di rassicurarci dicendo una bugia: eh sì perché la bellezza ce l’ha un’età quanto la nostra fertilità. E se non impariamo a capire questo e a coltivarci a tutto tondo avremo sempre più generazioni di donne schiave del botox, che rinunciano persino alle espressioni facciali e a sorridere pur di non ammettere che la menopausa è arrivata e che non potranno mai più avere l’avvenenza fisica dei vent’anni. Specie se poi la tua fisicità è cambiata perché sei diventata mamma. Non tutti gli uomini ti perdonano un girovita allargato, le smagliature e la cellulite o l’addome lasso che ti viene dopo aver sfornato la prole. Anche quello è un rischio che dobbiamo correre perché la vita di una donna è costellata di sensi di colpa un po’ su tutto. E non ci voleva il contributo del governo a questo già nutrito elenco delle cose che potremmo fare e non abbiamo fatto. Tornando a noi e al nostro discorso, da giovani eravamo pronte a figliare, ma non avevamo la possibilità economica o non avevamo un uomo che ci piacesse abbastanza da passare dalla cena al letto, figuriamoci dal farci un bambino. L’alternativa? Farci sposare da uno che ha 15 anni più di noi e aspirare a fare la doppia emme: Mamme&Mantenute. Ho amiche che hanno fatto questa scelta. Hanno messo da parte ogni velleità di carriera anche minima e hanno fatto le mamme a tempo pieno. E ora che i loro adorati pargoli sono in piena tempesta ormonale da adolescenza e le mandano a quel paese anche quando gli dicono solo Buongiorno, loro stanno a casa a guardare le repliche dei telefilm e consumarsi nei rimpianti piangendo sul latte versato (in genere con un’alta gradazione alcolica perché tanto i loro ovociti hanno già dato e possono rilassarsi). Perché nel 2016 è inconcepibile ricattare una donna costringendola a scegliere tra la maternità e la professionalità. Eppure succede. Con percentuali che mettono i brividi. Ce l’hai le amiche normali come noi o frequenti solo ministre dedite a succinti balletti per danarosi signori attempati? Spero di no. Anche se dalla campagna sembra proprio che viviamo su due pianeti differenti. Perché io a 38 anni ho la maggior parte delle amiche con bimbi appena nati (quelle che sono riuscite ad acchiappare la cicogna, uccello sfuggente) o piccolissimi e io li vedo i sacrifici che fanno tutti i giorni. E le ammiro perché a volte mi chiedo proprio come diavolo facciano e non mi so rispondere. Essere mamme nel nostro paese è il mestiere che ti relega in assoluto nella più sorda delle solitudini. Non hai aiuto da nessuno. Ma tu questo lo sai. Quante mamme ti hanno scritto in questi giorni. E quanti papà ho visto arrabbiati. Sì perché il loro ruolo di meri fecondatori che se la cavano schizzandoti qualcosa nel ventre sta stretto anche a loro. Se sopravvivo all’inferno io e mio marito saremo genitori insieme. Alla pari. Anche se il governo del mio paese questa parità non la vede affatto, non la contempla e non gli piace. Perché se gli piacesse inserirebbe anche i papà nelle politiche di welfare, invece di sprecare i nostri soldi in campagne ansiogene che gli dicono che hanno sposato donnette irresponsabili che adesso hanno poche uova. Hai avuto davvero la capacità di far incavolare tutti indistintamente. Vorrei che tu chiedessi scusa. Ma non semplicemente ritirando la campagna. Vorrei che quel 22 settembre che hai ribattezzato Fertility Day, con questa ridicola predilezione per la perfida lingua di Albione, diventasse il giorno della Fertilità, in cui spariscono clessidre, cicogne e scarpine, ci si mette seduti tutti a tavolino e si cerca di trovare una soluzione concreta al problema delle nascite. Che non sta di certo nel numero limitato di ovuli che abbiamo a disposizione, ma nelle politiche fallimentari in cui la donna e la famiglia e la procreazione sono veramente tutelate. Non devo dirti io come. Quello è il vostro mestiere. Io sono qui per offrire gelato e farti riflettere. Ti ho rubato parecchio tempo e lo so. Ma nella nostra chiacchierata vorrei raccontarti ancora qualche storia. Mi piacerebbe raccontarti la storia di M., che nella pancia aveva il tumore e il bimbo che le crescevano insieme e li ha dovuti sacrificare entrambi per salvarsi la vita. Nei nostri reparti di oncologia ginecologica ne trovi tante di donne come noi. Vieni a vedere Beatrice. Troverai il dolore di M. che ha atteso a lungo il ritorno delle mestruazioni dopo le terapie e queste non sono più tornate. Ogni mese si guarda gli slip vuoti e piange. Ma i nostri reparti non sono solo luoghi di dolore. Da noi abbiamo anche tanta gioia e tanta speranza. Guarda il sorriso di quelle mamme senza capelli che spingono i passeggini e capirai che quando parli di fertilità nelle giovani donne, malate e non, tieni in mano un qualcosa di prezioso e di fragile come cristallo. Tienilo a mente quando progetterai la prossima clessidra. Ma usciamo dai reparti oncologici. Andiamo altrove. Vuoi che ti parli di F.? Lei non ha nessun tumore, ma la sua creatura stava crescendo con una malformazione terribile. Ha dovuto separarsi da lei. E’ passato del tempo, ma di notte ancora piange. Parliamo di S. che ha portato avanti una gravidanza gemellare e poi il giorno del parto una delle sue piccole non è nata e lei ancora non sa perché e piange. Parliamo di G. operata sei volte per endometriosi e all’ennesimo tentativo fallito ha perso anche il compagno che si è stufato di avere una donna che per far funzionare il suo corpo deve andare una continuazione in ospedale. Parliamo di V. che lotta tutti i giorni con una depressione patologica per la quale prende dei farmaci che dovrebbe sospendere per avere un bambino, e quando ci ha provato ha rischiato di farsi del male seriamente. Parliamo di A. che ha lottato per una vita con l’anoressia e adesso che è guarita il suo corpo e il suo apparato riproduttore le stanno presentando il salatissimo conto. Parliamo di C. e L. che sono una coppia e hanno un bimbo appena nato e una bimba di tre anni e ora il vostro governo del cavolo pretende che lui molli tutto e vada a lavorare in un’altra regione che un crudele algoritmo ha calcolato. Eppure di sacrifici ne avevano già fatti tanti. Perché quando C. aveva nel pancione la figlia più grande aveva lavorato fino a pochissimi giorni prima del parto perché il suo contratto a progetto non le consentiva di assentarsi a fare la mamma in attesa. Parliamo di G. che ha due maschietti e ha dovuto rinunciare a godersi tutti i primi anni di vita dei suoi cuccioli perché non aveva abbastanza soldi per portare con sé tutta la famiglia nella città i cui aveva trovato lavoro. Parliamo di A., a cui avete imposto due anni di specializzazione a frequenza obbligatoria per diventare insegnante e che si faceva 200 km quasi tutte le sere pur di dare la buonanotte al suo bimbo che andava in prima elementare. Parliamo di E. che negli intervalli tra una lezione e l’altra arrivava la nonna con la sua bimba e lei allattava durante il quarto d’ora accademico. Parliamo di A. che ha fatto la scelta di fare un figlio da sola perché la sua storia d’amore è finita, ma non il suo desiderio di diventare mamma. Parliamo di T. che è rimasta incinta per caso dopo la scuola e che con un diploma in mano non aveva praticamente nulla e quel pancione ha azzerato per sempre la sua spendibilità professionale. Parliamo di C. che era obesa e ha dovuto fare un intervento per dimagrire e quando è arrivato il suo piccolo tutti i medici le dicevano di interrompere la gravidanza perché il cucciolo sarebbe nato pieno di menomazioni a causa delle carenze nutrizionali materne. E lei ha lottato per il suo piccino che ora è uno de bimbi più belli della terra. E chiudo parlandoti ancora di me un’ultima volta. Perché nel giorno della mia prima emorragia pelvica io non sono corsa in ospedale come avrei dovuto. Sono rimasta a studiare e ho rimandato l’ecografia di due giorni perché avevo la prima prova di un concorso trappola che col senno di poi mai ripeterei. L’ho superata quella prima prova quasi con il massimo punteggio. Ma quello che ho lasciato sul piatto quel giorno valeva la pena? Avrei potuto salvare qualcosa? Anche questi sono rimpianti che mi tormentano quando non riesco a dormire. Tienili a mente quando parlerai ancora di noi. Di storie così ne avrei centinaia. Ma il gelato è finito e immagino che tu ne abbia avuto abbastanza. Non potevo salutarti senza parlarti di loro. Questi sono solo piccoli esempi. Sono le vite delle persone che amo. Tienile a mente alla prossima campagna di sensibilizzazione. Perché si può promuovere la salute e la fertilità senza far male a chi non è stato tutelato abbastanza e ora deve lottare. La prossima volta cerca di fare qualcosa per noi, INSIEME a noi, a tutela vera della nostra salute; partendo da lontano, ristrutturando la nostra società da zero. Per noi è tardi. Siamo una generazione di mamme nonne, e di uteri vuoti piangenti. Potreste fare molto per noi dandoci accesso gratuito ai reparti di fisiopatologia della riproduzione, abolendo i ticket altissimi, le liste d’attesa lunghissime, sovvenzionando il pubblico e non il privato che ha costi totalmente inaccessibili. Oppure snellendo la burocrazia per le adozioni o contrastando lo squallido giro d’affari che c’è dietro perché ci siamo talmente attardati a parlare di fertilità che ci siamo dimenticati il senso più ampio e vero della genitorialità. Potete fare ancora tanto per noi agevolando l’accesso ai mutui per le case, restituendoci una stabilità lavorativa e tanto altro ancora. Potete sbizzarrirvi e contemporaneamente potete fare campagne per la tutela della fertilità delle giovani coppie senza mettere alla porta una generazione intera come se non vi servissimo più. Restituiscimi il cucchiaio Beatrice. Mi serve per dare il gelato a tutte le persone di cui ti ho parlato e di cui spero non ti dimenticherai. Io le porto sempre con me quando faccio le cose difficili. Fallo anche tu. È per noi che sei lì a fare il ministro. Non te lo dimenticare. Buona fortuna e buon lavoro.
Valeria Giordano
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