Resistere in Birmania
Quanti mondi sono stati sul palcoscenico del Teatro Rasi di Ravenna? Sedendoci in platea di questa chiesa sconsacrata, abbiamo vissuto una Ravenna della provincia e dell’aspro dialetto romagnolo; una Ravenna africana con un memorabile Arlecchino nero o con neri Griot che dialogavano con i cantastorie locali, i Fuler. E ancora una Ravenna polacca, nulle part per un Ubu con il volto e il sorriso dolce di un attore stupendo come Mandiaye N’Diaye. Poi un’improvvisa Ravenna rinascimentale e barocca, sospesa tra Shakespeare e Teofilo Folengo, ma anche aristofanesca e molieriana. Non basta: c’è stata e c’è la Ravenna asinina, adolescenziale, di una Non-scuola capace di invadere di ragazzi e ragazzini pinocchieschi la sala teatrale e le vie della città. Ogni volta che torniamo al Teatro Rasi, Marco Martinelli e Ermanna Montanari, con i loro storici compagni di cammino, svelano un mondo nuovo, una realtà diversa: il Teatro delle Albe, che ha fatto del Rasi la propria casa creativa, ha una lunga storia. L’ho seguita, fortunatamente, da molto presto, quasi dall’inizio. Non ho certo visto tutto della vivace produzione del gruppo, ma tante tappe del viaggio creativo di Marco, Ermanna e della gang di Ravenna ci ha visto partecipi e sodali. Eravamo giovani spettatori stupiti per un Cenci fatto a Santarcangelo tanti anni fa. Eravamo divertiti di fronte al racconto aspro di Incantati, favola sul calcio e la marginalità. Meravigliati per quei Polacchi ubueschi, tra Jarry e Carmelo Bene. Siamo tornati commossi da tanti spettacoli: per citarne solo uno, come non pensare alla struggente Eresia delle Felicità, in cui la voce febbrile di Majakovski tornava a bruciare di vita e libertà? Passando di mondi in mondi, ora il Rasi si è trasformato in Birmania, ha legato la propria realtà a quella di Aung San Suu Kyi. Il nuovo lavoro, potentissimo e di grande nitore, mette al centro dell’indagine la vita del premio Nobel 1991, paladina dei diritti civili dell’attuale Myanmar. Da qualche tempo, il gruppo di Ravenna ha intrecciato percorsi di ricerca differenti, che aveva sviluppato in passato. Da un lato, l’adamantina indagine artistica e umana fatto da Ermanna Montanari nella vita di figure femminili (storiche o immaginarie), che ha avuto in capitoli come Rosvita o Alcina punti nodali. Una pratica scenica che si concretizza in lavori dal taglio netto, in cui l’approccio tecnico interpretativo dell’attrice tocca vertici assoluti: con quella voce unica, con quella “maschera” capace di trasformare il bel volto, con quella sapienza che fa gigantesco il corpo minuto di Ermanna. Prove sceniche perfette, in cui Montanari incarna oggi quella “macchina attorale” cara a Carmelo Bene e dà prova di saperla coniugare ad una attenzione “di genere” certo non trascurabile. L’altro filone è più espressamente sociale, politico, un afflato (neo)brechtiano che ha mostrato con Pantani un’assoluta valenza. Si tratta, in sostanza, di un’epica del contemporaneo, in cui la drammaturgia (e regia) di Martinelli fa tesoro della lezione del maestro di Augusta. Ecco dunque che Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi arriva a sugello della duplice ricerca: una figura femminile straordinaria, e un pezzo di storia recente da affrontare con taglio brechtianamente anti-aristotelico. Martinelli usa una lingua teatrale estremamente “civile”, alta, netta: fa pensare quasi al Pasolini de Le ceneri di Gramsci, ovviamente aggiornato al nostro tempo, senza le pedanterie ideologiche di allora. Senza dubbio è una lingua felice, estremamente adatta a raggiungere il pubblico senza cedimenti o ammiccamenti. E per quanto la Montanari sia eccellente nell’evocare e alludere alla figura della militante birmana, non vi è mai pedissequa imitazione o identificazione: semmai un gioco di rimandi, di efficacissimo “straniamento” che nulla fa perdere – anzi – alla scottante verità del messaggio politico di Aung San Suu Kyi. La lotta per la democrazia della Birmania, consumata in lunghissimi anni di arresti domiciliari, contro generali fantocci assurdi, dai nomi tristemente noti, quali Ne Win, Saw Maung, Than Shwe (ottimamente incarnati da Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu e Fagio), è la morale che vibra ancora per il pubblico attuale. Qui, infatti, vi è il passo ulteriore del Teatro delle Albe rispetto al miglior Brecht. Ravenna diventa Birmania, è vero: sul palco, complici le musiche di Luigi Ceccarelli e le scene firmate dalla stessa Montanari, si evoca con forza quel mondo, usando anche video e documenti d’epoca, maschere tipiche, leggende locali o altre suggestioni. Ma resta lucidamente presente la realtà nostra, italiana. Il nostro tempo è continuamente alluso, implicitamente valutato, citato, per rimandi sottili. La narrazione procede per quadri, per stazioni che evocano tappe successive della pacifica lotta di Aung San Suu Kyi, e usa molti degli strumenti cari a Bertolt Brecht – il quale, evocato, appare anche in effigie: dal coro, chiamato a commentare o presentare, anche cantando, determinate situazioni, alle citate maschere; dai cartelli e le scritte a una smaccata metateatralità, con luci spostate a vista o altri accorgimenti. Come già fu per il notevolissimo Pantani, anche qui il Teatro delle Albe interroga il presente: democrazia, politica, libertà, la corruzione (“la corruzione è così radicata che i corrotti e i corruttori non la vogliono ammettere, neanche dentro di sé. Dicono: oh, che male c’è, lo fanno tutti…”: Birmania o Italia?). E soprattutto parla di resistenza: la bandiera della lotta di Aung San Suu Kyi è stata ed è la “bontà”, è una ferma presa di posizione contro il degenerare violento della politica e di chi governa. Ha senso? È una lezione anche per la cosiddetta “opposizione” del nostro Belpaese? Fino a che punto possiamo accettare il malgoverno? Fino a quando saremo silenti e dunque complici? Rispetto all’Anima buona di Sezuan o a Madre Coraggio, la Suu Kyi delle Albe non subisce ignara la grande ruota della Storia: anzi, la piccola, intima, privata storia della donna si fa battaglia capace di cambiare i meccanismi della grande Storia, quella dei Generali. Ecco dunque la “morale” possibile, laica e lucida, di questa vita esemplare: si può, ancora si può fare qualcosa. Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, prodotto dal Teatro delle Albe in collaborazione con Ert-Emilia Romagna teatro, è un grande modello di teatro d’arte, civile e sociale. È una pagina di impegno poetico-politico attraverso la pratica scenica. È una domanda ferocemente in attesa di risposte.
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