La memoria non rovina Torino. Perfino il Sovrintendente se ne accorge
Un vecchio marinaio s’imbatte in tre giovani invitati a un banchetto di nozze e ne trattiene uno. Il convitato cerca di liberarsi – lo sposo è un parente stretto, la festa è cominciata, si sente “l’allegro strepito” – ma alla fine è costretto a cedere agli occhi scintillanti del lupo di mare e ad ascoltare il suo racconto: There was a Ship, C’era una nave…
La Ballata del vecchio marinaio (The Rime of the Ancient Mariner) di Samuel Taylor Coleridge viene spesso citata in relazione alla memoria della Shoah, come metafora dell’urgenza del racconto, del ruolo del testimone, dell’importanza del ricordo. E forse a questi versi avranno pensato anche i curatori della mostra I mondi di Primo Levi. Una strenua chiarezza – promossa dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi e allestita a Torino, a Palazzo Madama – quando hanno deciso di collocare nei pressi dell’ingresso della mostra, nella centralissima Piazza Castello, un vagone merci proveniente dal Museo Ferroviario, a simboleggiare i vagoni piombati della deportazione verso i lager nazisti. Fermare l’uomo della strada, spezzare la sua quotidianità, costringerlo a condividere, a riflettere, a ricordare: questo era verosimilmente l’intento dell’installazione.
Sulla loro strada, tuttavia, i curatori non hanno trovato il vecchio marinaio di Coleridge, ma il Sovrintendente dei Beni architettonici del Piemonte, Luca Rinaldi, il quale non ha esitato a criticare duramente l’iniziativa, lamentandone la collocazione ingombrante e l’interferenza con “l’asse prospettico della città storica”.
L’intervento, è noto, ha suscitato un profluvio di critiche. Molti hanno notato come Piazza Castello sia quotidianamente invasa da palchi e manifestazioni di ogni genere, e di gran lunga più prosaici. Altri hanno genericamente invocato il rispetto della Memoria. Nel fuoco delle polemiche è andato tuttavia smarrito il punto forse più interessante della questione, quello su cui varrebbe la pena inaugurare un dibattito pubblico di ampio respiro, al di là di una querelle che rischia di non sopravvivere alla Giornata della Memoria.
Il linguaggio del Sovrintendente – la sua descrizione del vagone come di un “baraccone”, banalmente sostituibile con un semplice totem pubblicitario – rivela infatti non soltanto una scarsa sensibilità, ma anche una certa inconsapevolezza del dibattito internazionale sul rapporto tra spazio pubblico, memoria e intervento artistico.
Basterebbe una breve escursione in Germania per accorgersi di come – in ambito europeo – non solo l’imperialismo della prospettiva sia stato ormai da tempo contestato, ma soprattutto di come ormai si discuta ampiamente – in particolare in rapporto a eventi complessi, e per certi versi “irrapresentabili” secondo canoni tradizionali, come la Shoah – di “anti-monumento”.
Per “anti-monumento” s’intende un’opera esteticamente non “piacevole”, alcune volte persino non permanente, volta a indurre disagio nei visitatori, spingendoli a impegnarsi e a partecipare attivamente attraverso gesti di personale rammemorazione e di ri-comprensione individuale degli eventi del passato. L’arte di Horst Hoheisel e in particolare la sua opera Forma negativa rappresenta, da questo punto di vista, un buon esempio. Nel 1984, infatti, la città di Kassel invitò Hoheisel a ricostruire una fontana (Aschrott Brunnen), voluta nel 1908, su disegno dell’architetto Karl Roth, da Sigmund Aschrott, un imprenditore ebreo, e rasa al suolo dai nazisti nella notte tra l’8 e il 9 aprile del 1939. Quello che Hoheisel intendeva assolutamente evitare era riprodurla esattamente come prima, in una sorta di falso storico e simbolico che avrebbe cancellato sia il passato tragico di quella città in età nazista sia l’episodio della distruzione. Hoheisel decise pertanto di ricostruire sì la fontana, ma realizzandola cava all’interno e infiggendola sotto terra a una profondità di dodici metri, come una ferita ancora aperta. La fontana di Hoheisel monumentalizza così la rottura e l’assenza, ma nello stesso tempo capovolge l’essenza stessa del memoriale. La sua dimensione interrata – una “forma negativa” appunto – è la storia tramutata in piedistallo, un invito ai passanti a camminarci sopra, cercando il memoriale nella propria interiorità, tramutandosi essi stessi in attori della memorializzazione.
In questo contesto, il vagone di Piazza Castello non è certo nulla di così prepotentemente rivoluzionario, ma è al contrario un intervento assai convenzionale, quasi banale, verrebbe da dire. E il fatto che abbia suscitato tanto clamore non è altro che indice di un sostanziale provincialismo culturale, oltre che dell’assenza di una riflessione collettiva seria sul rapporto tra arte, public history e politiche della memoria.
Nel frattempo, travolto dalle critiche, il Sovrintendente è tornato sui suoi passi e ha autorizzato la permanenza del vagone per tutta la durata della mostra e non soltanto per due settimane. Resterà dunque lì, a contrastare visivamente la Torre Littoria, eretta nel 1933-34 e originariamente destinata a ospitare la sede del Partito Nazionale Fascista. Incombente su Piazza Castello, è stata ribattezzata dai torinesi il “dito di Mussolini”. Quella sì che rovina la prospettiva.
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