Arte

Storia dell’arte, arte della storia

8 Giugno 2018

Si risveglia ogni tanto il dibattito sulla presenza della Storia dell’arte negli insegnamenti della scuola superiore: in essere nei licei (anche se in forma ridotta rispetto al periodo delle sperimentazioni), assente nei tecnici (tranne il turistico, dove è comunque limitata), è stata cancellata dalla riforma Gelmini dagli istituti professionali (e mai più ripristinata) anche per i percorsi in cui avrebbe una  importante significatività (moda, turismo, grafica).

Io credo, sostanzialmente, che ciò si debba all’idea diffusa che si ha di questa disciplina: una materia «ornamentale» (secondo l’idea gentiliana, in fondo mai tramontata, della educazione alla bellezza), che può arricchire la formazione di chi è già avviato a studi «colti », di prevalente stampo umanistico. Infatti, nel liceo scientifico è accomunata all’insegnamento del disegno, che finisce per avere, non raramente, una parte preponderante.

Bisognerà perciò rifarsi al senso originario della parola arte, per capire ciò di cui veramente si tratti. Il nostro attuale concetto di arte è infatti figlio del romanticismo, in cui si affermò l’idea di Belle Arti (pittura e scultura soprattutto, ma anche architettura, nei suoi aspetti stilistici): frutto della libera creazione del genio che in esse si esprime , in una tensione verso l’assoluto, il sublime. Fine in sè, libero da ogni condizionamento e diretta utilità.

“Les beaux-arts sont enfants du génie; ils ont la nature pour modèle, le goût pour maître, le plaisir pour but.” È la definizione enunciata nel 1752 da Lacombe, in apertura al suo Dictionnaire portatif de Beaux Arts, in cui alle arti figurative e all’architettura associa anche la poesia e la musica. Questa idea si è talmente radicata, da far perdere di vista il significato primo della parola: “capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, e quindi anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati.” (Treccani)

La parola arte, così come noi oggi la usiamo, era totalmente sconosciuta nel mondo antico. La technegreca, così come la ars romana esigevano una specificazione (un aggettivo in greco, un gerundio  o un aggettivo in latino): ars pugnandi, ars oratoria. Era semplicemente la capacità di fare qualcosa con abilità. L’artista (artifex) era relegato al ruolo di esecutore materiale, uno che lavora con le mani, classificato appena sopra i manovali, agli ultimi gradini della scala sociale. In quanto “imitatori” Platone relega i pittori all’ultimo rango dell’artigianato, Aristotele, non distinguendoli dagli altri artigiani, li escluderebbe dal diritto alla cittadinanza, Plutarco afferma che nessun giovane di buona famiglia aspirerebbe a diventare scultore, pur dopo aver ammirato le statue di Fidia, Cicerone distingue le bonae artes (quelle legate alla parola) dalle sordidiores (tra cui quelle indirizzate alla produzione di immagini). E ciò sarà valido per molti secoli a venire, anche se la considerazione sociale dell’artista andrà via via migliorando. Tuttavia, ancora in pieno Rinascimento, Leonardo si lamenterà della esclusione delle arti figurative dal novero delle Arti liberali e i pittori potranno iscriversi solo alla corporazione di S. Luca (quella di farmacisti e alchimisti, in virtù della loro attitudine a lavorare polveri di materiali diversi per la formazione di colori).

Nessun riconoscimento alla creatività e, men che meno, all’originalità. Questa anzi, era apertamente avversata, visto che lo stesso Leonardo si vide rifiutare dalla Confraternita dell’Immacolata la prima versione della Vergine delle rocce, in sospetto di tendenze eretiche per alcuni elementi presenti nel dipinto, e, più tardi, a Caravaggio verrà respinta la rappresentazione “troppo umana” di S.Matteo che scrive il Vangelo, considerata priva della dignità che si dovrebbe attribuire a un santo.

Per secoli resta valido quanto ribadito nel VII concilio ecumenico: “Non sono affatto i pittori che inventano le immagini, ma la Chiesa cattolica che le ha istituite e trasmesse; al pittore appartiene solo l’arte, la disposizione è visibilmente l’opera dei Santi Padri”.

Questo era, peraltro, già il criterio vigente nell’antico Egitto, dove le immagini dovevano essere realizzate seguendo canoni precisi, regole rigide stabilite dai sacerdoti, e immutabili nel tempo. E Platone ne auspica il ritorno, considerando le sculture naturalistiche del suo tempo, in quanto copie della copia, una falsità rispetto alla verità dell’Idea.

Arte, quindi, come know how, con finalità precise indirizzate a precisi risultati: è la committenza che indica i soggetti e i criteri che devono presiedere alla rappresentazione, l’artista ci mette la sua padronanza tecnica e la sua capacità di interpretare in modo soddisfacente il compito assegnato.

Nonostante la scarsa considerazione per gli artisti, il loro lavoro è tuttavia stato indispensabile. Per millenni le loro opere sono state, di fatto, il più universale e fondamentale strumento di comunicazione a disposizione del potere civile e religioso. In società dove prevalevano gli analfabeti, la scrittura (e la lettura) erano riservate a gruppi privilegiati e non esistevano mezzi di comunicazione di massa, solo le immagini potevano raggiungere i più larghi stati della popolazione.
E ad esse venivano affidati messaggi di ogni tipo: dalla affermazione del potere del re (imperatore, faraone), che, attraverso monumentali effigi, rendeva attuale la sua presenza in plaghe lontane dai luoghi centrali, alla diffusione e conferma di visioni teologiche, sociologiche, filosofiche.

Da questo punto di vista, per noi che le guardiamo oggi, le opere d’arte si presentano dunque come documenti di inestimabile valore, che vanno interrogati, letti e interpretati, sotto il profilo formale, iconografico e iconologico, per aprirci alla visione di mondi a noi lontani nel tempo e consentirci di penetrarli. All’epoca della loro realizzazione ,infatti, il loro criterio di valutazione non era tanto quello estetico (criterio comunque sempre labile, sfuggente, relativo), ma quello della loro efficacia comunicativa.

Le immagini, in quanto  veicolo di messaggi, erano un po’ come il dito che indica la luna: attraverso l’occhio, dovevano condurre a ciò che veniva additato, alla realtà superiore cui esse alludevano, attraverso forme, colori, apparato simbolico.

Aristotele affermava il primato dell’occhio nella conoscenza. Nella Metafisica troviamo scritto: “Noi preferiamo la vista a tutte le altre sensazioni, non solo quando miriamo a uno scopo pratico, ma anche quando non intendiamo compiere nessuna azione. E il motivo sta nel fatto che questa sensazione, più di ogni altra, ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una molteplicità di differenze”.

È questa immediatezza che, anche alla luce di altri strumenti storici, ci apre a una presa di coscienza diretta delle logiche e delle dinamiche che presiedevano a società a noi lontane nel tempo e nelle modalità di pensiero (e solo rispetto alle quali le immagini avevano senso).

Sotto questo aspetto dunque, la Storia dell’arte non è un mero percorso nella bellezza, ma un punto di vista da cui leggere la Storia. Un punto di vista, come ho cercato di indicare, fondamentale. Se lo studio della storia non deve limitarsi a enunciazioni nozionistiche, ma deve fondarsi sul diretto rapporto con i documenti, quelli visivi non possono essere ignorati. Analizzando una pittura tombale, si capisce e si ricorda di più del sistema gerarchico della società egizia che non leggendo qualche paragrafo del libro di testo, e una accurata disamina di una immagine vistosamente antinaturalistica del Pantocrator ci lascerà una impronta permanete, plastica, della visione religiosa medievale.

Una mia antica allieva scrisse, come intestazione alla sua tesina di maturità: “Davanti a un quadro non devo decidere se è bello o non è bello, se mi piace o non mi piace, ma chiedermi perché”.

Aveva capito.

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