Arte

La Fila: un romanzo sull’anima schiacciata fra autoritarismo e sopravvivenza

17 Ottobre 2018

In un’epoca di post-verità e fake news, La Fila è un romanzo sulla verità. E sulle menzogne che in certe situazioni (situazioni di oppressione, dittatura, terrore) gli esseri umani arrivano ad accettare, per stare meglio. Appena uscito in Italia per i tipi di Produzioni Nero, questo romanzo a tinte fosche, sospeso tra suggestioni orwelliane ed echi kafkiani, sconvolge. Perché dimostra come non sia poi così difficile instaurare e mantenere al potere un regime capace di far accettare alle persone l’inaccettabile.

Attraverso le vite dei suoi personaggi, la psichiatra e attivista egiziana per i diritti umani Basma Abdel Aziz riflette sulle strategie, spesso inconsapevoli, a cui ricorrono gli esseri umani di fronte al moloch dell’autoritarismo. Incertezza costante, difficoltà economiche, povertà… unite a un controllo ferreo, alle sparizioni di chi dissente, alla repressione armata delle sporadiche rivolte. Ecco gli ingredienti dell’efficace ricatto con cui il governo autoritario di La Fila – ambientato in un paese di cui non si dice mai il nome, ma che potrebbe trovarsi ormai in ogni angolo del mondo – sottomette la collettività giorno dopo giorno.

Nel romanzo, il potere è identificato con un sistema burocratico che esige una serie inesauribile di autorizzazioni per compiere ogni cosa. Persino per farsi estrarre un proiettile sparato dalla polizia. Perché in questo paese senza nome, dove il surreale è tragicamente reale, la cura della vittima di uno sparo non è autorizzata. Non quando le autorità negano che la polizia abbia mai premuto il grilletto contro i cittadini. E così, davanti alla Porta dell’unico edificio amministrativo che può rilasciare i permessi, si forma un’interminabile fila di cittadini che ne attendono l’apertura per ore, giorni, settimane… finché pare che in fila ci sia l’intera nazione, paralizzata nell’attesa dei permessi e dei certificati di cui ognuno ha bisogno per portare avanti la sua vita.

Ma alla fine, dice Abdel Aziz a questo giornale, La Fila è anche un romanzo sulla speranza di un nuovo inizio. Sull’immenso valore che può assumere il sacrificio di una persona se chi la circonda decide di non chiudere gli occhi. E di credere a ciò che si vede, anziché a una versione alternativa (e manipolata) della verità.

 

Com’è nato questo romanzo, dottoressa Abdel Aziz?

Un giorno, camminando in centro qui in città, ho visto delle persone in fila davanti alla porta chiusa di un edificio governativo. Tre ore dopo, quando ormai ero di ritorno, ho visto le stesse persone in fila davanti alla porta ancora chiusa! E mi sono chiesta perché restassero lì, perché non gridassero di aprire le porte o non se ne andassero… perché nessuno bussasse alla porta. Arrivata a casa ho cominciato a scrivere quello che avevo immaginato come un racconto. Ma dopo tre giorni di scrittura praticamente inarrestabile, ho capito che sarebbe stato qualcosa di più! E così è nato La Fila. So che può sembrare strano ma l’ho scritto in soli due mesi, fra il settembre e il novembre 2012. Il gennaio seguente era già in libreria in Egitto. Certo, scrivevo dieci ore al giorno, talvolta anche di più. All’epoca c’erano i Fratelli Musulmani al governo, e io ero in procinto di partire per frequentare un master in psicologia sociale in Francia. Ma quando ho capito che quello sarebbe stato il mio primo romanzo ho deciso di restare e terminarlo.

La Fila è ambientato in un paese dove ognuno reagisce a una situazione molto difficile, talvolta persino surreale, cercando di vivere meglio che può, concentrandosi sullo sforzo di risolvere i suoi problemi, molto spesso legati alla mera sopravvivenza. Pensa che il mal governo abbia questo effetto? Che indebolisca la solidarietà fra le persone, e il loro senso di appartenenza?

Assolutamente sì. Scrivendo La Fila ho posto molti interrogativi più che dare risposte o soluzioni. E tutte le domande riguardano questa minacciosa autorità che cerca di azzerare la coscienza della gente, e i modi in cui le persone reagiscono. Alcuni si adattano, altri arrivano a identificarsi con l’autorità e ad appoggiarla, altri conservano la speranza e si limitano ad aspettare che un giorno la soluzione arrivi da chissà dove. Le domande girano anche intorno all’attesa infinita che descrivo, al forte vincolo che lega le persone all’autorità. Mentre scrivevo mi chiedevo: hanno paura? Forse si sono sforzati così tanto per adattarsi a questa routine di attesa che ora non vogliono abbandonarla? Non sanno quali conseguenze potrebbe avere una ribellione e quindi preferiscono che tutto rimanga com’è?

Vede, scrivendo mi sono anche chiesta se talvolta la speranza non diventi un concetto negativo. Insomma, cosa tiene così tante persone in fila davanti a una porta per così tanto tempo, in attesa che un giorno si apra? Se fossero disperate magari si ribellerebbero. Invece continuano a sperare. E intanto il regime autoritario è sempre lì, e gli basta davvero poco per riuscire a controllare tutto. Ma poi, è davvero così? Quest’autorità è davvero così intelligente, così forte, così furba da avere il controllo su tutti? O forse è la gente che la immagina molto più potente di quanto non sia, e quindi crede che non potrebbe mai sconfiggerla?

Lei cosa ne pensa?

Io credo che siano le paure delle persone ad accrescere l’immagine di potere di quest’autorità minacciosa. Se ci si sforzasse di affrontare le proprie paure, e di superarle, sarebbe facile combatterla.

In effetti il suo libro esprime molto bene l’idea che non sia così difficile per un sistema costringere un intero paese ad accettare una situazione inaccettabile. Insomma, che in certe condizioni sia sufficiente una buona organizzazione per instaurare una condizione di ricatto permanente e generalizzato.

Sì, soprattutto quando così tante persone sono povere, e spesso perlopiù impegnate a sopravvivere. È un ricatto che funziona alla perfezione. Se dici qualcosa di sbagliato perderai il lavoro e ogni possibilità di trovarne un altro; se dici la verità a chiunque non otterrai mai ciò che vuoi; se continui ad opporti farai una brutta fine. In questo modo le persone si concentrano inevitabilmente sui dettagli, su ciò che devono fare per sopravvivere, per far funzionare la loro vita. E si isolano le une dalle altre. Ma se la solidarietà prevalesse, e le persone in fila facessero un solo passo in avanti, io credo che riuscirebbero ad aprire la porta.

Come psichiatra, cosa pensa dei personaggi di La Fila? Ad esempio: quali sono le conseguenze di un’incertezza costante sullo stato mentale delle persone?

Noi specialisti impariamo che una delle condizioni mentali più dolorose per una persona consiste nel trovarsi in uno stato prolungato di precarietà, impotenza e imprevedibilità. In cui non può prevedere il proprio destino, né avere certezze su nulla, né intervenire su ciò che le accade. È esattamente questa la condizione in cui sono posti i personaggi del libro, e ovviamente ha conseguenze molto pesanti sulla loro salute mentale. Peraltro, questa è anche la condizione che rende la tortura un tipo molto specifico di trauma: se c’è un terremoto, puoi immaginarne le conseguenze, talvolta anche minimizzarne i danni, affrontarlo. Ma sotto tortura l’essere completamente isolati dall’esterno, sottoposti a danni fisici incontrollabili e a una condizione in cui non si può in alcun modo prevedere cosa accadrà a brevissimo, ha effetti devastanti su un essere umano. Si cade in uno stato mentale davvero distruttivo. Che fa molto più male delle percosse, delle bruciature, persino delle scosse elettriche. E ha conseguenze molto gravi sulla salute mentale di chi lo subisce.

Quindi in La Fila voleva dire che questa è la condizione a cui sono sottoposte, in maniera generalizzata, i cittadini di questo paese non identificato?

Esattamente. Volevo anche parlare di come, in una situazione simile, si può arrivare al punto di allinearsi alla versione della realtà più facile da credere, quella che fa stare meglio. Uno dei personaggi femminili, Amani, è un esempio molto evidente di persona soggetta a tortura psicologica. Il suo compagno ha urgente bisogno che un chirurgo gli estragga il proiettile sparato dalla polizia: e lei passa dal lottare strenuamente per lui al credere alla versione dell’autorità. Che non solo non gli concede il permesso di essere operato, ma nega persino che ci sia un proiettile nel suo corpo. Questo mostra come lo stato mentale di cui parlavo pocanzi possa influire sulle persone, facendole passare da una posizione a quella opposta, direttamente.

D’altra parte lei di questi temi si è occupata a lungo, avendo lavorato in un centro di riabilitazione delle vittime di tortura.

Sì. Ho anche scritto un saggio a riguardo, che per puro caso fu pubblicato proprio tre giorni dopo lo scoppio della rivoluzione del 2011, si figuri. Era una ricerca sulla sistematicità della tortura in Egitto. Decisi di scriverlo dopo aver notato che a subirla non erano solo gli oppositori o i dissidenti, come si potrebbe credere, ma anche moltissimi cittadini comuni. Persone assolutamente estranee a qualsivoglia attività politica, di opposizione o dissidenza.

Crede che la scrittura abbia un effetto terapeutico su chi scrive?

Assolutamente sì. Insomma… Di solito uno scrittore rimane colpito da ciò che accade nel mondo, e immagazzina ogni cosa dentro di sé. Poi arriva il momento in cui deve buttare fuori tutto, e scrive. Forse, più che una terapia, è un modo per guardare il mondo e provare a renderlo almeno un po’ migliore.

 

In copertina:

Richard Mosse
Incoming, 2017
Courtesy Richard Mosse

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