Il volto di un’epoca in mostra all’UniCredit Pavilion di Milano
Dalla sua nascita ai giorni nostri, la fotografia è il mezzo espressivo più fedele alla realtà, una sorta di specchio che riflette e testimonia i cambiamenti di ogni epoca e un potente strumento di indagine storica, culturale, antropologica, ma prima di tutto: identitaria.
Dai primi ritratti fotografici realizzati a Parigi intorno alla metà dell’Ottocento da Adolphe Disdéri, simili a fototessere applicate su cartoncino, si è rivelato a tutti il carattere democratico della fotografia, che se da un lato a quel tempo affermava ancora il ruolo sociale della persona ritratta attraverso fattori come l’abbigliamento e la postura, dall’altro annunciava la possibilità per chiunque di entrare in possesso della propria immagine o quella di una persona cara. Una via per l’affermazione personale unica e singolare, che metteva alla portata di tutti quello che un tempo era il ritratto pittorico commissionato da un potente, per essere brevi.
Da quelle fototessere al selfie della rivoluzione digitale di oggi il passo è breve. Dalla semplice affermazione della coscienza del sé ci si è ribaltati nell’universo della narrazione dell’individuo attraverso una costruzione identitaria che non vuole semplicemente mostrare un’esistenza isolata, ma una relazione con il contesto, con il mondo circostante, con l’altro.
“Look at me! Da Nadar a Gursky: i ritratti nella collezione d’arte Unicredit”, ultimo – solo cronologicamente – progetto espositivo promosso da UniCredit e ospitato fino al 29 gennaio 2017 all’interno di Unicredit Pavilion di piazza Gae Aulenti a Milano, tratta proprio di questo: il ruolo di affermazione identitaria, di documentazione storica, testimonianza di relazioni e territori che la fotografia ha rivestito dall’Ottocento a oggi.
Ecco allora una selezione di 170 opere fotografiche di respiro internazionale, grazie ai prestiti provenienti dalle collezioni d’Arte UniCredit di Austria, Germania e Italia, che indagano il rapporto tra individuo e società attraverso il filo conduttore del ritratto. Una successione di volti e sguardi che nella visione del curatore Walter Guadagnini racconta il cambiamento della società.
Nella prima delle tre sezioni tematiche in cui si articola l’esposizione, il ritratto diventa mezzo di indagine e denuncia della trasformazione culturale e sociale del tempo. Fotografi come Hine, Curtis, Strand e Sander realizzano dei veri e propri ritratti socio-antropologici, e allo stesso modo Weegee (Arthur Felling) immortala la povertà, la disoccupazione e le disillusioni del sogno americano e fotografi come Barbara Klemm, Berengo Gardin e Fontana si fanno portavoci della semplicità e dell’umiltà del vivere quotidiano. Una ricerca ancora più antropologica è quella dei contemporanei Shirin Neshat e Paolo Woods, quest’ultimo rivolto ad esempio all’indagine della penetrazione della Cina in Africa.
Dall’individuo colto nella sua quotidianità si passa poi all’individuo appartenente a una massa dalla quale non riesce più a differenziarsi: è il caso ad esempio di Thomas Ruff che ritrae i propri compagni di corso all’università di Dusseldorf con un senso di estraniazione e distacco che li priva di ogni connotazione affettiva e identitaria.
Tema della seconda parte della mostra sono invece i volti noti: intellettuali, letterati e artisti stessi diventano ora l’oggetto dello sguardo artistico. Troviamo ad esempio Charles Baudelaire, Alexandre Dumas, Emile Zola e Victor Hugo, ma anche personaggi contemporanei come Alfred Hitchcock e Madonna ritratti da Barbara Klemm. Tra gli artisti, in un curioso gioco di specchi tra soggetto e oggetto dello scatto fotografico, Aurelio Amendola ci mostra un Alberto Burri intento a lavorare con una fiamma accesa e Giorgio De Chirico in gondola a Venezia, mentre Claudio Abate ci restituisce immagine surreali di Gino de Dominicis, Pino Pascali e Jannis Kounellis interpretati dall’occhio e dalla fantasia.
Nell’ultima sezione il ritratto diventa un tutt’uno tra volto e corpo e si ha il passaggio dalla messa in posa alla messa in scena: sono immagini costruite, elaborate al computer o realizzate a partire da un collage, assemblate intorno un pensiero o un concetto da esprimere. Troviamo allora le scenografie sospese tra immaginazione e realtà create da Luigi Ghirri, le enigmatiche composizioni di Barbara Probst, le decostruzioni di Herbert Bayer, il surrealismo di Fatma Bucak. Un percorso in cui si fa strada la funzione comunicativa del corpo femminile, che da strumento di denuncia contro i perbenismi della società, come per Ernest James Bellocq, assume anche i connotati erotici che anticipano certa fotografia di moda, come avviene per Olga Solarics von Wlassics. A chiusura della mostra, infine, dieci fotografie di Diane Arbus che riportano l’attenzione sul soggetto in tutta la sua umanità, celata dietro a un volto troppo spesso ridotto a sola “facciata”. E dietro questi innumerevoli volti che guardiamo e richiamano il nostro sguardo, si può infine leggere in trasparenza la storia dell’ottava arte e dei suoi protagonisti.
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