Via del Governo Vecchio non ha più fiato
In memoria di un’amica, di una sorella, di una madre
Grazie per quel giorno, il primo, in cui hai risposto al telefono gioiosa e leggera. Mi sono presentato, balbettando il nome di una produttrice, mi hai risposto invitandomi quella stessa sera, a cena.
Grazie per l’umiltà, la semplicità con cui mi hai accolto. I veri grandi non conoscono la vanità, deridono il sussiego. Due poltrone e un tavolino. Io che presentavo il mio progetto, tremando, tu che ascoltavi, calma, con un sorriso infantile e scherzoso. Dopo poco tempo mi hai proposto una follia: dovevo “correggerti” – così ti sei espressa – l’inglese di una scena che avresti portato a un provino. Volevi conquistare Sorrentino. Volevi la parte di Suor Mary in “Young Pope”.
Della lingua inglese, però, tu non sapevi nulla. Non sapevi neppure come dire “grazie”. Ho tentato di illustrarti il significato di quelle battute: straordinariamente, non ti interessava conoscere il significato, volevi sono imparare a riprodurre i suoni, perfettamente. Abbiamo passato insieme tutte le notti, per due settimane. Venivo da te, dopo cena. Cercavo goffamente di corrispondere a quello che ti aspettavi da me: un precettore bilingue. Tu ripetevi, accanitamente, la successione di note, scritta sul copione. Le ripetevi, dando ai suoni di cui ignoravi il senso, un’espressività straordinaria. Certamente il tuo genio ti ha sempre consentito di raggiungere le vette, scoprendo, percorrendo sentieri prima di te inimmaginabili. Io ti “correggevo”, esitando, timoroso, e tu, divertita, mi descrivevi, ricorrendo ad attributi solenni: “Guarda, guarda, lui! Severo! Un coso molto severo! Guarda, guarda… Terribile, pericoloso coso, lui!” Non si finiva mai, prima dell’alba. Poi, fuori, per strada, restavano solo i barboni e i giovani turisti ubriachi. Raggiungevo il primo bar aperto, mi sedevo e, puntuale arrivava un tuo saluto con una richiesta: dei versi poetici per il mattino. Imparare l’inglese in quindici giorni: la prima delle sfide che ho condiviso con te. Hai commentato la vittoria della Keaton con queste parole: “Chi l’ha detto che per sapere l’inglese bisogna essere inglesi? Ognuno ha il suo inglese e la Keaton il mio inglese se lo sogna!”
Grazie per le telefonate di notte: telefonate folli, scalpitanti, galoppanti, in preda alla furia di vivere. Sei stata il mio nord, per anni e anni. Quando mi smarrivo, mi rispondevi con il tuo senso dell’arte: sfida, ferocia, vittoria. E un solo nemico: la pigra mediocrità. Nessun ragazzo ha oggi la dedizione che tu avevi a 75 anni. Eri una regina, ma lottavi con la disperazione di chi non dà nulla per scontato. Sì: mi hai insegnato, come nessun altro, la necessità del rischio.
“L’artista deve essere fermo, immobile. Non può distrarsi. Deve tornare e tornare sulla sua opera ogni giorno, come uno scultore: deve colpire la pietra per settimane, per mesi! Se necessario, per anni! Le distrazioni non sono possibili. L’amore è l’unico respiro che l’artista può permettersi. E può permettersi l’amore, solo per respirare. Ogni giorno deve corrispondere a un nuovo passo. Mai tornare indietro: potrebbe essere fatale”
Grazie per avermi dedicato forme del tempo incantate: il tempo insieme è sempre stato un tempo di attenzione e memoria. Mai insieme ad altri: sempre soli. Ogni tuo amico aveva il suo angolo particolare. Non volevi gruppi. Non volevi che si facesse confusione. Ogni rapporto, nella cerchia stretta dei tuoi amici, era esclusivo. Ogni rapporto aveva una propria identità e un proprio linguaggio. Ogni cosa veniva preparata con cura, ogni cosa accadeva con cura. Ogni volta, alle otto di sera. Ogni volta, dovevo presentarmi con una bottiglia di Falanghina. Il campanello e l’ascensore. “Chiudi bene la porta e aspetta: ti tiro su io: con la chiave!” Un giorno mi sono presentato sovrappeso ed è accaduto il tuo umorismo. Mi sono incastrato all’uscita della cabina, per un “uso” eccessivo di cioccolato. Mi hai guardato sprezzante e hai commentato: “Cosa vuoi fare, adesso? La mongolfiera?”
Ci si sedeva sempre al “Corallo”, dietro casa tua, nella viuzza dove resta incisa una dedica alla Rosselli. Ci si sedeva sempre allo stesso tavolo, ci accoglieva sempre lo stesso cameriere, ordinavamo sempre lo stesso piatto. Le nostre parole scivolavano tutte in una piega della tua anima e lì rimanevano, immutate, nel tempo.
Come i veri maestri insegnavi soprattutto con il tuo esempio. E la vaghezza, la scompostezza, la distrazione, le respingevi, severamente. La grazia data e ricevuta era, per te, un imperativo.
Grazie per avermi insegnato a vedere il cinema, veramente: a interrogare il cinema, a domandare il perché di ogni inquadratura. Assistere a una proiezione, insieme a te, era magnifico. Riuscivi a riconoscere le intenzioni nascoste dei registi. Riuscivi a dare loro un nome. Riuscivi a leggere la successione di tutti i fotogrammi come una diretta emanazione di quel nome. Una notte, tornando a casa, hai dedicato mezz’ora alla chiusura di un film di Woody Allen: il protagonista si gira, dando la schiena al pubblico, contemplando, insieme al pubblico, la realizzazione del suo sogno. “Tu non capisci, non capisci la potenza di quella nuca! La potenza e la sfrontatezza!” Chi mai avrebbe potuto soffermarsi con tanta enfasi su un particolare così – apparentemente – ininfluente?
Adoravi, del cinema, soprattutto i registi. Eri grata ai registi. Amavi gli autori che avevano saputo renderti luminosa. E tra tutti i maestri di adesso, adoravi Bellocchio. Ogni volta che lo sentivi al telefono, i tuoi occhi lampeggiavano. Bellocchio lo definivi “il mago”. Quando ti chiamò per “Fai bei sogni”, mi hai detto: “Non ho capito cosa vuole che faccia, forse non l’ha capito neanche lui, ma mi ha detto che devo essere nel suo film… Lui è… un mago”
Siamo andati a vedere il film insieme, quando è uscito in sala: ti erano stati dedicati pochi secondi. Ma la sequenza era stata montata in modo tale da fare di te il significato ultimo, l’apice. Siamo tornati a casa tua, piano: in silenzio. “Cosa ne pensi?” A mio avviso il cameo che ti era stato dedicato era magnifico: una grande dimostrazione di stima. Hai annuito: “Nessuno conosce gli attori come lui: sa come pensano, sa di cosa hanno bisogno. Non ti dice mai come fare, ti dice cosa fare. A volte quello che ti dice di fare sta fuori dall’inquadratura. Ti consegna azioni che rendono più liberi i tuoi occhi. Ad esempio qui, in questo film, mi ha detto di spezzettare un foglio, di fare tante palline e di ordinarle sul tavolo. Poi: hai visto? Nel film, di me, sono rimasti solo la nuca e i gli occhi”.
Il tuo pensiero procedeva per strade segrete, invisibili. Costruiva associazioni tra cose apparentemente inconciliabili. Adoravi la leggerezza, adoravi la potenza: epigona di Nietzsche, ultima incarnazione del futurismo. Sognavi di scrivere storie nere, sognavi trame di terrore e di morte. Sognavi di interpretare un assassino. E mi spiegavi, inducendomi a pensare l’arte al di là del bene e del male: “L’assassino è l’alleato della morte, capisci? Nessuno al mondo ha il suo potere. Io voglio conoscere da vicino lo sguardo dell’assassino, la sua febbre, il suo capriccio” Accanto al fascino dell’ombra stava la nostalgia delle corse sulla sabbia di Riccione e la fame di sorrisi. Soprattutto la fame della gentile ironia inglese. Le montagne di libri di Wodehouse, sul tuo comodino! Io che correvo alla Feltrinelli per comprarti nuove edizioni. E tu che la notte, prima del profondo, sorridevi beatamente delle sue battute. Me le recitavi, urlando di gioia: “Mi ammazzo! Mi ammazzo!” Come sapevi improvvisare! Mai naturalistica: sempre artefatta, evidentemente artefatta, concretamente artefatta. “C’è un solo attore che mi sta dietro” – dicevi. “E sai benissimo di chi sto parlando…” Ti riferivi a Carlo Cecchi: uno dei tuoi idoli. Volevi vederlo imitato da tutti gli amici che avevano condiviso con lui il palcoscenico.
Il tuo appartamento era una sintesi della tua persona: a destra un salotto bianco con un soffitto alto. A sinistra, in fondo a un corridoio, una stanza da pranzo con un lungo tavolo e un soffitto basso. Tutto era mantenuto con una gentilezza unica. Spesso sui tavoli c’erano fiori di ammiratori: soprattutto rose e peonie. La tua stanza da letto con la radiolina sempre accesa, aveva una porta finestra affacciata sui tetti della capitale. Ma il vero cuore stava sopra, stava nascosto in fondo a una scala rivestita di specchi. In fondo, c’era una terrazza magnifica, un luogo sospeso come il giardino de Il carteggio Aspern di James. Circondata da pareti di verde selvaggio che impedivano lo sguardo, che invitavano l’immaginazione. Una notte, in questo eden, mi hai svelato la grammatica del tuo respiro. Mi hai detto: “C’è una foto di una scogliera, all’ingresso di casa mia, l’hai vista?” Ho mentito: “Certo!” Si trattava di una fotografia della scogliera di Vertigo. Amavi Vertigo, come me, ma senza di te non sarei mai riuscito a capire veramente perché ne sono e ne sarò sempre prigioniero: “C’è una differenza sostanziale tra desiderio del reale e desiderio dell’immaginario. Il desiderio del reale ha un oggetto chiaro e prima o poi viene a noia. Il desiderio dell’immaginario non ha un oggetto chiaro e cambia ininterrottamente. Tutti gli artisti amano, inseguono l’immaginario.”
Grazie, dolce Piera, per la passione di vivere che hai saputo incidere nell’anima mia, nell’anima di tutti i fortunati testimoni del tuo genio.
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