Arte
The Last Soviet Artist, i cinque passi di Victoria Lomasko in mostra a Brescia
Saranno Five steps, cinque passi, ad aprire l’11 novembre la mostra di Victoria Lomasko al Museo di Santa Giulia a Brescia, la sua prima retrospettiva in Italia. «Il primo passo è l’isolamento: immaginate di nascere e crescere in un paese isolato e che ora si è accartocciato in sé stesso», ci racconta quando la incontriamo, pennelli in mano e disegni appesi alle pareti e sparsi sul pavimento, in un’ala di questo antico monastero, trasformata in atelier. «Il secondo passo è la fuga: delle mani aiutano una piccola figura ad alzarsi e un angelo coi piedi da diavolo ricaccia quelle persone all’inferno. La terza è l’esilio: sei lontana da casa e tutta la tua vita è rinchiusa in due valigie. Il quarto è la vergogna, una risposta a chi dice che tutti i russi sono colpevoli». Poi si ferma un attimo e indica l’ultima tela: «La quinta è l’umanità, i percorsi dei popoli non sono separabili perché l’umanità è una».
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Victoria Lomasko è in residenza alla Fondazione Brescia Musei nell’ambito dell’ambizioso programma, nato con il Festival per la Pace, che da tre anni accoglie artisti dissidenti. La mostra che sta mettendo in forma (e che comprende anche 90 opere di piccolo formato in arrivo dalla sua galleria inglese), è curata da Elettra Stamboulis e sarà visitabile fino all’8 gennaio prossimo.
The Last Soviet Artist, come si intitola l’esposizione, è proprio lei: nata nel 1978 a Serpukhov, piccola località a 100 km da Mosca, Victoria Lomasko ama ritrarre il suo paese, le storie ai margini, senzatetto e nazionalisti, skinheads e sex-workers, e poi le proteste di strada, le donne del Caucaso. Erede della grande tradizione di arte grafica a sfondo sociale, lei sovverte i canoni e si fa «testimone», come ama definirsi. Colpisce molto il suo stile: ha un tratto pop e molto sovietico assieme. E anche nelle scene più dure, traspare sempre un filo di ironia. «Il mio stile forse ricorda molto la grafica sovietica, ma la uso con un senso completamente diverso. C’è una cosa però che bisogna sempre tener presente: il “sovietico” non è mai qualcosa di monolitico. Esistono tanti periodi del “mondo sovietico” molto diversi tra loro: negli anni ’20 c’era una quantità di arte innovativa e io non ironizzo mai su quell’epoca: la studio e nel caso mi ci ispiro».
A chiederle se si sente in qualche modo erede di quella grande tradizione grafica che ha segnato il Novecento, Victoria Lomasko fa due nomi. «Penso a Vladimir Majakovskij e in particolare alla sua serie di manifesti Okna Rosta: futurista, accoglie la Rivoluzione con entusiasmo, realizza quei manifesti tra fame e guerra civile; lavora come un folle, dorme nel suo laboratorio in condizioni terribili: ecco, mi affascina quella sua passione». Poi ride: «In questi giorni disegnavo e avevo la febbre e mi dicevo: se Majakovskij è riuscito a lavorare in quelle decisioni, ci riesco anch’io». Il secondo riferimento è al “Gruppo dei Tredici” negli anni ‘30: «Quello che li univa era l’arte del reportage: sembrava una cosa innocua, riportavano quello che vedevano, né si può dire che criticassero il potere direttamente. Eppure, tutto il gruppo è stato eliminato, fucilati o mandati all’esilio e i loro lavori distrutti».
Le stessa definisce il suo lavoro «reportage grafico»: non è graphic novel, né fumetto, né manifesto. Cosa significa? «Innanzitutto, il reportage grafico non è separabile dal testo. Lo considero una testimonianza visiva. Ma per testimoniare bisogna trovarsi davvero dentro gli eventi. Non sono nemmeno una reporter: i giornalisti devono rispondere al proprio direttore, alla propria testata, gli viene commissionato un lavoro, hanno una deadline. Io resto all’interno del linguaggio d’arte».
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Comunque la si definisca, i suoi lavori infastidiscono le autorità russe che le riservano una sorta di morte civile. Victoria Lomasko presto scopre di essere di fatto bandita da qualunque istituzione culturale del suo paese, pubblica e privata. Eppure, fioccano i premi: il suo libro Forbidden Art (scritto con Anton Nikolaev) vince il Premio Kandinsky, con il secondo Other Russias strappa il Pushkin House Book Prize nel 2018. Lascia la Russia ed è invitata ovunque, da Basilea a New York, mentre il Reina Sofia acquisisce parte del suo archivio. «Solo il mio primo libro è stato tradotto in russo – ci racconta – Ma è difficile capire quanto dolore si prova a non vedere i tuoi lavori pubblicati nel tuo paese. E ora che il regime ha il volto esplicito di una dittatura, sì ora mi sentirei in pericolo se fossi là».
Victoria Lomasko è così gelosa della sua libertà e dell’autonomia del suo sguardo, che sfugge anche alla definizione di attivista. Anzi, «Non mi piace proprio la parola “attivismo”. Per diversi anni ho lavorato come volontaria in un carcere minorile e ho un grande rispetto per chi lo fa. Ma non mi piacciono gli “attivisti”, perché seguono una sola linea di pensiero che gli altri devono seguire, alla fine hanno una visione ristretta, sanno sempre cosa dire e le lotte che devono fare, ripetono le stesse cose e le stesse parole. In Russia molti attivisti dicono che finché c’è la guerra, l’arte non ha niente da dire. Ho l’impressione che molti attivisti non sappiano capire l’arte né sentirla. Pensano solo a come usarla per qualche loro battaglia».
Anche il padre lavorava come grafico e aveva un rapporto complicato con il regime. «Disegnava manifesti per un’industria, ma ha sempre sognato di essere un artista famoso. Eppure, ha passato la sua vita nella nostra piccola città, senza andare neppure a Mosca. Tutte le volte che gli chiedevo perché non ci abbia provato, mi dava tante giustificazioni. Posso capirlo, certo, ma quando guardo alla sua vita mi dico sempre che io non mi farò fermare da alcun tipo di circostanza». A questo punto le viene in mente un ricordo: «Un giorno ho trovato dentro un suo zaino un pacco di lettere: era un epistolario con gli insegnanti del posto, lui lavorava da casa e mandava i lavori grafici che gli chiedevano per i manuali scolastici. Allora ho letto quelle lettere». Se la ride: «Una volta si era impuntato a voler disegnare una Madonna sovietica, ma il professore lo ha implorato di lasciare perdere e a concentrarsi su un trattore nei campi». Anche il padre, a modo suo, era un dissidente: «Mio padre detestava il regime sovietico, ma non abbastanza per disobbedire. Io sono molto più disobbediente di lui».
Il modo con cui Victoria Lomasko si fa seria e poi sorride divertita ricorda i suoi lavori che riescono sempre a trovare un modo farsi leggeri, costruendo una via di fuga. Per ironia della Storia, anche Vladimir Putin mescola linguaggi, l’iconografia zarista e gli eroi sovietici, ortodossia religiosa e mistica della guerra. Un’estetica truce e grottesca. Lei scuote la testa: «Putin e l’estetica non possono stare nella stessa frase. Non è neanche paragonabile all’era staliniana, almeno a quel tempo Stalin controllava il mondo dell’arte. Putin non può vantare un solo scrittore o un artista. Il suo mondo è quello criminale, degli assassini e dei ladri. Lui mescola così tanti riferimenti, ma forse gli unici a rimanere impressionati sono i suoi coetanei, che hanno visto il loro mondo crollare e hanno eliminato le nuove generazioni dal loro orizzonte»
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Foto di copertina: Victoria Lomasko, Moscow: a Generational Battle (from the book The Last Soviet), 2021
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