Urbanistica
L’Archistar non c’è più, i turisti sì: il Fondaco delle polemiche è quasi pronto
Il 31 marzo 1977 il movimento di rivolta più radicale che le città italiane abbiano visto cominciava da Venezia a bruciare i negozi. Gli autoriduttori che volevano entrare a un concerto al Malibran, si accanirono sui grandi magazzini Standa e Coin, mentre a Rialto la boutique di Luisa Spagnoli fu distrutta dalle fiamme. Quel giorno apparve come un punto di non ritorno, la lotta ideologica non aveva rispetto per nulla, i conflitti politici colpivano anche un centro storico così delicato. In realtà è proprio in quel giorno, in quegli episodi, che si conclude simbolicamente la storia urbana di Venezia, non nel concerto dei Pink Floyd al Redentore 1989, che avvenne quasi un decennio dopo il riflusso e l’avvento dell’effimero. In seguito la città sarà attraversata da altri scontri politici, perfino da tentativi di occupazione militare di piazza San Marco e dall’incendio di Coin, ma il suo lo spazio commerciale non sarà mai più messo così radicalmente al centro della vita cittadina.
Si chiamerà T (come Travel) – Fondaco dei Tedeschi, il nuovo grande magazzino di lusso accanto al ponte di Rialto. Aprirà a inizio ottobre e renderà finalmente visibile a tutti l’esito della vicenda edilizia più famosa nelle pagine culturali di questi anni. La questione della trasformazione della vecchia sede delle poste centrali di Venezia, acquistata dai Benetton nel 2008 e ristrutturata dallo studio OMA di Rem Koolhaas, è l’icona del dibattito conservazione/rinnovamento. Il luogo in cui si è giocato al più alto livello quel tema cruciale che plasma l’identità politica e sociale nazionale dalla fine dell’antichità. Senza retorica, una vicenda chiave nella storia materiale delle nostre città per le capacità di sintetizzare: “l’intreccio e la sovrapposizione di ruoli e di competenze, il concorrere di saperi e opinioni diverse”, coinvolti dai processi di cambiamento.
Queste parole si devono a Ennio Concina, e non sono riferite ai tempi presenti, ma alla “rifabbrica” del fondaco nelle forme attuali, dopo l’incendio del 1506. In un libro di qualche anno fa l’esperto dell’architettura veneziana, ne ricostruiva la storia e avanzava l’ipotesi che l’apparato pittorico di Giorgione e Tiziano, che decorava anticamente l’esterno, fosse dedicato ad affermare la necessità di ribadire l’efficienza mercantilistica di Venezia dopo la distruzione di un edificio cruciale per l’immagine di centro di scambio tra paesi del Nord e l’Oriente, anche alla luce delle notizie dell’apertura di nuove rotte mercantili portoghesi tra Calcutta e la penisola iberica. In altre parole, rifare il fondaco sotto la pressione di fenomeni di mutazione mondiali, è una questione di lungo periodo e non degli ultimi decenni.
Se siamo a scrivere del fondaco, è perché da qualche giorno lo studio dell’architetto che ha progettato la trasformazione dell’edificio non ha più accesso all’opera, avendo concluso il suo contributo ed essendo stato sostituito, per l’interior design, da qualcun altro. Per i molti veneziani che si sono opposti al progetto si tratta di una tenera vendetta, per lo studio olandese è invece il segno di quanto l’imprenditore abbia rinunciato a una visione alta del commercio.
Nell’idea di OMA il proprio “schema di restauro” era composto “tanto di architettura quanto di programmazione”. Sapientemente annunciato alla fine dell’agosto 2010 – nei giorni in cui Rem Koolhaas riceveva il leone alla carriera alla dodicesima Biennale di Architettura, alla quale partecipava con Cronocaos, una mostra sui principi di conservazione dei patrimoni storici finanziata da Benetton – il Fondaco poteva giocare una funzione di “booster” del turismo culturale a Venezia, grazie alla strategia elaborata con Vittorio Radice (il guru dei grandi magazzini, capo del consiglio di amministrazione di La Rinascente, ora di proprietà di Thai “Central Group”, e che all’epoca era la concessionaria alla quale Benetton aveva affidato la trasformazione). Attratti da ragioni commerciali, i turisti (secondo OMA dimenticati dal calendario delle attività culturali veneziane, rivolte solo al pubblico degli intellettuali) si sarebbero trovati coinvolti nella programmazione culturale del grande magazzino, per il quale lo studio olandese aveva preparato dei cultural masterplan. Basati sul lavoro di curatori stagionali, questi programmi avrebbero dovuto sincronizzarsi con gli eventi della Biennale – che lo studio OMA aveva nel frattempo ricevuto l’incarico di curare per l’edizione 2014 – e avrebbero spinto a moltiplicare per quattro i visitatori dell’esposizione internazionale!
A dire il vero anche se si è persa la presenza illuminante dello studio olandese questo programma, per il quale non sembra mai essere stato definito un budget, potrebbe essere ripreso dal nuovo concessionario. Oppure rilanciato nella ristrutturazione del KaDeWe, il più grande magazzino di Berlino, dove finalmente Ippolito Pestellini – partner di OMA e vero artefice del progetto del Fondaco – torna a lavorare al programma con Radice.
Per coloro che si sono opposti al progetto più che di una vendetta verso OMA il presente dell’edificio sembra invece la logica conseguenza di aver dato carta bianca ai Benetton. Un gruppo imprenditoriale con sensibilità da terraferma, che considererebbe Venezia come una miniera da sfruttare e dove non avrebbe fatto che disastri: “dalla grande operazione del Monaco e del Ridotto, con la ristrutturazione di tutto il complesso acquistato a suo tempo dal Comune, con il riuso degli spazi della ex libreria Mondadori, poi mandata via, e ora affittati a Louis Vuitton, e nel restyling della stazione di Santa Lucia, attraverso Grandi Stazioni, la società in cui Benetton è uno dei soci privati di maggioranza” (secondo le parole di Paola Somma che ha scritto un libro intitolato “Benettontown”). Con l’acquisto del fondaco da Poste Italiane per 53 milioni, il gruppo sarebbe stato interessato solo all’affare immobiliare, pronto a lasciare La Rinascente non appena si sarebbe presentato un concessionario più redditizio. Ciò è quanto è avvenuto con l’avvento di DFS (Duty Free Shop), “un’acquisita” dal gruppo Lvmh, già specializzata in negozi di duty free nei mercati Asiatici, disposta a pagare circa un milione di euro al mese, per la sua prima operazione di prestigio in Europa. Ovvio che il guadagno mostruoso che dovrà fare questo edificio per mantenersi è cruciale per capire cosa dovrà ruotare intorno ad esso al fine sostenere economicamente l’operazione, in termini di qualità, carattere e numero dei visitatori.
Vendetta, o logica conseguenza, a noi non rimane che valutare l’edificio per il suo aspetto concreto e alla luce di quelle che erano state le contestazioni del progetto che ha tanto sconvolto i veneziani. Forse più che elencarle, va rilevato che nel frattempo, il più prestigioso degli oppositori, Salvatore Settis, è passato a collaborare con lo studio olandese, curando la mostra di apertura della Fondazione Prada a Milano (la cui sede veneziana è un altro cantiere di OMA) e dopo aver scritto una recensione più che ottimista della Biennale di Koolhaas/Pestellini.
Visitando l’edificio, l’impressione è che, dopo la reazione della città, gli OMA si siano piegati a scoprire via via la realtà materiale dell’edificio, assorbendo progressivamente, come un nuovo Sansovino, la venezianità. Dalle reazioni alle prime proposte (il brevetto di scale mobili retrattili nella corte, la ristrutturazione del lucernaio con un nuovo piano sospeso, un vasto pontile sul Canal Grande e soprattutto la famigerata terrazza sul tetto) gli OMA sembrano aver appreso quella che Pistellini chiama la “segreta brutalità” dell’architettura veneziana: una città la cui edilizia è stata radicalmente modificata dagli interventi di consolidamento e di adattamento al modernismo meccanico ottocento-novecentesco. In cui palazzi interi, come il Fondaco, sono stati sollevati su martinetti per ricostruirne in cemento le fondazioni corrose e molte delle parti originali sono sostenute e intrecciate da un apparato di strutture e sostruzioni moderne, pur se quasi nulla si percepisce all’esterno.
Il progetto che OMA consegna in questi giorni è diventato essenzialmente una riflessione sul significato della materialità, frutto anche della discussione con consulenti dell’ambiente veneziano, come lo storico Antonio Foscari, la cui figlia ha curato una guida alla comprensione degli elementi “fondamentali” della città presentata alla Biennale 2014.
L’intervento si presenta allora, di fatto, come una sorta di rovesciamento del principio del restauro. Se gli interventi tradizionali – compiuti a scopo ricostruttivo-culturale – sono destinati a porre in evidenza i resti degli elementi antichi, la realizzazione qui compiuta è rivolta invece a evidenziare la preminenza degli elementi edilizi novecenteschi: le strutture in cemento che sostengono l’edificio, le tamponature in mattoni pieni e forati, le tracce per far passare gli impianti tecnici, i dettagli lapidei e lignei dell’ufficio postale che per ultimo occupò lo stabile.
La nuova identità spaziale dell’edificio è definita dall’inserto d’interventi architettonici che trasfigurano ricerche artistiche ispirate alla hard edge painting e al grafismi del primo minimalismo: un grande taglio sul muro a forma di scudo ispirato a Ellsworth Kelly, il pavimento a strisce che rimanda a Frank Stella. La rivelazione degli elementi edilizi e delle tecniche di costruzione impiegate per adattare l’edificio nel tempo, è afifdata invece degli elementi tecnici e di circolazione (i cavedi degli ascensori, le scale di servizio, ecc.). Questo sarà immediatamente comprensibile per chi accederà all’edificio da Campo San Bortolo (futuro e alquanto ambiguo accesso principale al complesso: questo sì un certo non sense del progetto, anche se approvato concettualmente anche da più fini consiglieri e sovrintendenti al progetto). Qui, tra piano terra e sottotetto, le nuove scale mobili sezionano verticalmente l’edificio mettendo in luce il telaio in calcestruzzo che lo sostiene, con un esito che evoca il Garage Museum ristrutturato da OMA a Mosca, e concludendosi nella vecchia sala telegrafi, dove, con una soluzione ingegnosa quanto volutamente sgraziata, le scale sono agganciate a una delle travi in cemento realizzate durante le ristrutturazioni degli anni Trenta.
Giudicata in questi termini l’operazione OMA appare limpida. Resta ora da vedere quanto lo sarà l’arredo commerciale dell’edificio. Affidato da DFS a Jamie Forbert, interior design legato a David Chipperfield – curatore della Biennale 2012 – e abile negli interventi in edifici esistenti, il quale ha già dichiarato di non voler fare un “pastiche in stile veneziano” e di cercare di “ricreare lo spirito di Carlo Scarpa”.
A cosa stiamo dunque rinunciando e che cosa avremo in cambio in questa restituzione dell’edificio alla città? La grande sorpresa sarà la scoperta delle molteplici viste verso l’esterno dell’edificio, rimasto sempre introverso e sconosciuto ai veneziani. Una passeggiata “interna” sullo spazio urbano, alla quale OMA ha contribuito forse con la richiesta più rilevante lasciata al concessionario finale dell’edificio: lasciare libera la vista delle finestre, in modo da assicurare non solo lo sguardo verso fuori, ma anche la scoperta dell’attraversabilità visuale dell’edificio. Attraversabilità che il grande taglio a forma di scudo nel muro orientale costruisce ed esalta. Per chi è architetto la sensazione complessiva sarà un po’ come quella di trovarsi in una Exeter Library di Louis Kahn incagliata sul Canal Grande.
La novità sta certo nell’esibizione degli aspetti moderni in un edificio con questa storia, anche se non si può dire che non sia diffusa negli edifici a destinazione commerciale, se è vero che i muri decorticati sono di moda nelle boutique di Firenze, quanto di Siracusa o Conegliano. La nuova terrazza e il suo uso pubblico? Eppure Marc Fumaroli coniò già qualche decennio fa il termine “effetto Torre Eiffel”, per spiegare come molti musei ricorrano a quel dispositivo per ottenere un grande successo di pubblico, anche se poi questo si disinteressa alle collezioni. Qui però non siamo in un edificio a funzione culturale e quindi la terrazza gioca un ruolo diverso, simile a quanto avviene nei grandi magazzini parigini o berlinesi, ma forse si può rilevare che Venezia non è una città che ha tradizione d’esser vista dall’alto e dove non esistano belvedere pubblici salvo il Campanile e la Torre dell’Orologio, che non erano certo nati con quell’intento.
Se il pubblico locale utilizzerà il Fondaco seguendo lo spirito dei vincoli che l’amministrazione comunale ha imposto al committente (l’accesso pubblico e continuo agli spazi a terra della corte, ai ballatoi, alla terrazza, ai bagni – che saranno pubblici e quindi accessibili a tutti in una città con pochi servizi – oltre a un utilizzo per eventi pubblici dello spazio centrale e della nuova sala sotto il tetto/lucernaio per dieci giorni all’anno) forse si creeranno forme di resistenza e di contestazione innovative. Probabile però che i veneziani reagiranno, come sono usi fare tutti i cittadini del mondo, disertando un luogo in cui son così massicciamente presenti i turisti. Vedremo…
In sostanza abbiamo assistito a un dialogo complesso e una modificazione degli assunti “internazionalistici” che la proposta del programma commerciale e la cultura del progettista avevano inizialmente portato sull’edificio. Difficile che la moltitudine sarà capace di cogliere la sottile differenza tra il kitch come decorazione e il lento assorbimento alla vischiosità del locale, eppure tutti possono preoccuparsi di capire dove sono stati depositati e se possono essere riutilizzati, nella migliore tradizione edilizia di questa città, tutti quei materiali rimossi dall’edificio esistente (la pavimentazione della corte, i pezzi di muro tagliati e dagli infissi, ecc.). Questo consentirebbe un’idea di re-impiego e spolio efficace, ecologica e decisamente avanzata, oltre che di restituire così l’intera materialità dell’edificio alle trasformazioni delle future generazioni, attendendo il passaggio del tempo seduti sulle rive del Canal Grande.
In fondo già a metà Settecento una celebre “veduta d’invenzione” di Canaletto presentava un insieme di edifici palladiani collocati intorno alla volta di canale di Rialto. L’immagine di una “città analoga”, nella quale il progetto presentato dall’architetto vicentino al concorso per il ponte sostituiva quello realizzato, e altri suoi edifici rimpiazzano il fondaco. Commissionato dall’illuminista Algarotti, il dipinto intendeva esprimere gli intenti di riforma della struttura urbana medievale della città, aprendone gli spazi, rendendoli più “razionali” e “moderni”. La vicenda del Fondaco ci dice che, gli edifici che oggi occupano originariamente la scena urbana del dipinto non necessitano più di venir sostituiti nemmeno nella loro apparenza esteriore. Quasi tutti riformati nelle loro strutture interne sussistono già nella condizione di analogie di sé stessi, a noi farli vivere nella maniera che riteniamo più giusta.
(Fotografie di Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti)
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