Musica

Di architetture di vetro e funerali Jazz (G.O.O. #5)

16 Ottobre 2015

Cari SG,

Ottobre 2015 è un buon momento per rompere alcune regole arbitrariamente imposte in G.O.O.: scrivere di architettura costruita e rimanere fedeli al suggerimento di Nanni Moretti di non parlare di cose che non si conoscono.
Ottobre 2015 è un buon momento per rompere queste regole perchè sono passati esattamente quindici anni dall’uscita di Kid A, quarto album dei Radiohead, pubblicato, appunto, nel mese di Ottobre del 2000.

Una frase tratta dalla recensione apparsa su Pitchfork (accusato spesso di essere fin troppo positivo con il gruppo britannico) recitava: Comparing this to other albums is like comparing an aquarium to blue construction paper.

In effetti riassumeva brillantemente la meraviglia dell’apparizione di questo album, capace finalmente di far svoltare interamente la storia della musica Pop, con una profondità e una radicalità tali che quanto apparso contemporaneamente pareva, appunto, una superficie piatta, senza uno spessore, senza un racconto a sorreggerla.

Non si può parlare, forse, di innovazione pura: basta scorrere una qualsiasi recensione per leggere di influenze che spaziano da Aphex Twin a Brian Eno e David Bowie. Ma è la capacità, propria di ogni caposaldo artistico, di rendere leggibile al grande pubblico la rottura col passato e il primo passo verso il futuro, a rendere questa opera un capolavoro.
Nel 2000, la meraviglia di questo disco ci apparve esattamente come un evento destinato a sconvolgere una intera epoca musicale.

Eppure fu una rivoluzione lenta, che necessitava di un completamento, il quale, ancora, fece la sua comparsa distruggendo quel residuo di normalità canora che ancora rimaneva nell’udito degli ascoltatori: otto mesi dopo l’uscita di Kid A i Radiohead pubblicarono Amnesiac, fratello gemello (eppure diversissimo) del precedente album, erigendo definitivamente l’accoppiata simbolo capace di traghettare la musica delle più giovani generazioni dalla protesta furiosa degli anni 90 (Nevermind è del 1991) alla complessità irrisolta del nuovo millennio.

E non è un caso, forse, che la chiusura di questa sconvolgente doppietta sia affidata ad un piccolo gioiello di architettura, una breve storia che potrebbe essere stata scritta da Paul Scheerbart, a completamento del suo trittico sull’architettura di vetro (Flora Mohr, Das graue Tuch e Glasarchitektur, scritti fra il 1912 e il 1914).
Si tratta di Life in a Glasshouse, una delicata traccia arrangiata dal musicista Humphrey Lyttelton nello stile di un funerale Jazz, della quale è assai difficile trovare una versione dal vivo, vista la difficoltà di riprodurre il suono originale, che viene direttamente dalla Humphrey Lyttelton Band (questa pare sia l’unica volta che sia stata suonata dal vivo, in effetti).

Con una incredibile capacità di leggere lo spazio, i Radiohead riescono a descrivere una situazione di rottura del fragile equilibrio definito in una architettura di vetro, tra l’incanto dato dalla trasparenza e la necessità di un riparo intimo: la protagonista del racconto cerca infatti di rendere nuovamente opaco il vetro della sua casa ricoprendolo con della carta, aggiungendo leggerezza alla leggerezza, con una semplice addizione sottile, che forse non può ottenere quanto ricercato.
Pare però che proprio l’incedere così dolente dei fiati riesca a ricostruire l’ampiezza del vuoto, aprendo lo spazio alla possibilità che questa ricerca di intimità nella trasparenza si ottenga ingrandendo le dimensioni, trascinando lo spazio, allontanando la vista dalle pareti di vetro.
Con una presenza del suono così compatta, seppur ben discernibile, i Radiohead riescono a costruire una installazione sonora che fa da spartiacque di un’epoca, definendo l’architettura di una musica nuova che rimarrà in attesa della prossima innovazione.

Se la prima traccia di Kid A prevedeva di descrivere un nuovo ordine (Everything in its right place), l’ultima canzone edifica una situazione di estrema ambiguità, mettendo le basi della ricca complessità degli anni a venire.

Con affetto
Diego Terna

G.O.O. #1

G.O.O. #2

G.O.O. #3

G.O.O. #4

 

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