Musei

Un piccolo museo che cambia la storia (G.O.O. #1)

27 Gennaio 2015

Brevi lettere da nessun luogo

Cari SG,

tra il 1982 e il 1996 Jacques Gubler manda periodicamente alla segretaria della rivista Casabella, Myriam Tosoni, una cartolina con un breve scritto che racconta l’architettura attraverso punti di vista inediti e laterali, costruendo un catalogo spaziale di sorprendente ironia, tanto più pensando al fatto che sia accolto nella seriosa rivista diretta da Vittorio Gregotti.
Il lavoro di Gubler è significativo perchè presenta un approccio innovativo rispetto al medium Casabella: Myriam Tosoni è, sotto un certo punto di vista, la platea non professionale a cui impartire una brevissima lezione di architettura, scritta, quindi, con un linguaggio svelto, divertente, alle volte provocatorio.
Quello che Gubler mostra, durante i 14 anni di permanenza sull’ultima pagina della rivista, è che l’architettura possa essere trattata con estrema ricercatezza e con una competenza incontestabile, ma aprendo al dialogo con chi architetto non è, evidenziando, così, il ruolo dello spazio architettonico nel vasto mondo della cultura.

Quando gli Stati Generali sono nati, ho dunque pensato che potesse essere interessante che una piattaforma di approfondimento sugli eventi quotidiani proponesse una apertura su un mondo, quello della costruzione, che ha definito la nostra cultura per millenni e che ora si vede distratto, e distrutto, da una crisi che pare non avere fine e, soprattutto, da una generale indifferenza e incapacità di valutazione di chi non ruota (ma spesso anche di chi ruota) attorno a questa professione.
Per questa ragione credo sia di qualche interesse raccontare dello spazio, attraverso architetture a-temporali, una sorta di ritorno al passato attraverso media contemporanei.

G.O.O., o dei Grandi Antichi

H.P. Lovecraft costruisce, lungo i vent’anni della propria carriera letteraria – nei primi decenni del 1900 – un universo parallelo fatto di antiche divinità mostruose, le cui vicende occasionalmente intersecano quelle dell’universo umano. Non si tratta di divinità benevole, che stendono la propria pietà sugli abitanti di questo mondo, ma, al contrario, paiono uscite dagli incubi più malati degli scrittori di fantascienza. Lovecraft, in effetti, fa parte di questa categoria.
L’universo dello scrittore statunitense è popolato da questi personaggi mostruosi, che vengono definiti Grandi Antichi: in questa definizione possiamo leggere l’aura di divinità che aleggia intorno ad essi (Grandi) e la temporalità (Antichi), che li porta indietro nel passato, in un periodo difficilmente descrivibile, ma facilmente immaginabile, grazie alle parole di Lovecraft.
In un certo senso i Grandi Antichi si pongono al di sopra della storia e le loro caratteristiche prescindono da quelle del proprio intorno: le fattezze, le specifiche fisiche, gli scopi della propria vita, non trovano riscontro nelle attività umane con le quali, a volte, si confrontano e ciò li rende, nonostante le loro possibili caratteristiche negative, estremamente affascinanti.

Ogni tanto ciò accade anche in architettura: viaggiando a ritroso lungo il decorso dei tempi, ci si può imbattere in Grandi Antichi, opere a-temporali, che dal passato riverberano la propria essenza fino ai nostri giorni. Si tratta di architetture che possono essere raccontate, analizzate, spiegate e la cui origine può, a volte, essere facilmente colta; eppure riescono ad emanare attorno a sé una sorta di atmosfera capace di colpire in maniera quasi feroce lo spettatore che le visita.

Vorrei dunque parlarvi, cari SG, di un Grande Antico, periodicamente, provando a stabilire un contatto tra le architetture contemporanee e l’opera passata, ma ormai slegata dal suo tempo, capace ancora di influenzare con forza l’architettura di oggi.
Il suo essere slegata dal tempo ci permetterà di parlare anche di opere abbastanza recenti, come quella che vedremo di seguito: la condizione di Antico riguarda soprattutto l’influenza che l’edificio ha sulla storia, recente o meno, dell’architettura.

Il primo Grande Antico di cui vorrei parlarvi, dunque, è un piccolo edificio di Rotterdam, la Kunsthal, il cui progettista è stato il curatore dell’ultima Biennale di Architettura di Venezia: l’architetto olandese Rem Koolhaas.

G.O.O. #1, finalmente

Tre colonne accolgono il visitatore che entra nella Kunsthal, inaugurata nel 1992: un pilastro di cemento, una trave alveolare, un profilo ad H di acciaio. Come contrappunto agli elementi verticali, l’ingresso è delimitato da un lungo tronco di albero, usato come parapetto orizzontale.

Memore dei progetti per la Strada Novissima alla Biennale di Venezia del 1980, Rem Koolhaas, fornisce una dichiarazione di intenti, che modificherà le sorti dell’architettura nelle decadi successive.
A Venezia la Strada Novissima è il ludico manifesto di un atteggiamento postmoderno, che considera la storia dell’architettura come un terreno di raccolta di elementi iconici, da assemblare in un collage progettuale.
A Rotterdam la Kunsthal è un raffinato sistema di citazioni, focalizzato sul Movimento Moderno e su correnti artistiche come l’Arte Povera: qui Koolhaas assembla Mies van der Rohe e Le Corbusier, Penone e Beyus.

L’architetto riporta il solco del Postmoderno sulla scia degli esperimenti degli architetti romani della fine degli anni ’30, che cercavano di mediare fra la rottura del Movimento Moderno e l’aspirazione classica romana (come nel Palazzo dei Congressi di Libera).
A questo aggiunge la lezione americana, il Learning from Las Vegas di Venturi, l’uso di icone architettoniche che dialogano con un ampio intorno urbano, fatto di movimenti veicolari veloci (la torre dell’ascensore che regge un enorme isotype e la statua del cammello).

Il progetto di Koolhaas costituisce, contemporaneamente, uno degli ultimi atti progettuali del Postmoderno e uno dei primi progetti della scuola olandese, che influenzerà l’architettura fino al primo decennio del 2000.

Il progetto dell’architetto olandese è il programma di un manifesto di una architettura nuova, dove l’edificio costruito diventa un database diagrammatico di funzioni, materiali, strutture e citazioni, mixati assieme senza una evidente gerarchia, ma bensì attraverso delle giustapposizioni quasi accidentali, tanto più feconde quanto più, apparentemente, casuali.
E’ quindi plausibile osservare il museo come un catalogo, il più ricco possibile, che metta in fila tutti gli elementi che normalmente compongono un edificio e poi li ricomponga in una fase di post produzione sagace e, spesso, ironica.

E’ il catalogo non unitario degli spazi -caratterizzati da materiali inediti, dal feltro ai pannelli di policarbonato, o dalla cacofonica struttura, per la quale pare si voglia semplicemente raccogliere ogni possibile forma esistente di travi e pilastri- a rendere l’idea di un approccio post moderno, ma così attuale che la Biennale del 2014 non farà altro che ribadire questa modalità progettuale.

Questa frammentarietà di elementi, però, non impedisce al museo di presentare spazi di assoluta poesia: nell’ingresso, per esempio, dove un taglio asimmetrico nella copertura definisce un patio disequilibrato, che attrae il visitatore e lo trascina nell’interno; nel corridoio espositivo che affaccia a est, dove la parete di policarbonato crea un effetto straniante di assoluta luminosità, impedendo al contempo una chiara visione dell’esterno; nel punto ristoro, dove il pavimento inclinato del sovrastante auditorium riesce a schiacciare lo spazio verso la strada e ad aprirlo prepotentemente verso il parco retrostante.

Il piccolo museo di Rotterdam pare, in alcuni punti, librarsi leggero in un difficile luogo di passaggio fra la strada e il verde, una sorta di metafora del suo avviarsi per primo lungo uno dei percorsi progettuali che l’architettura contemporanea prenderà per arrivare ad oggi: nulla lascia pensare che l’architettura stessa, dopo più di vent’anni, sia ancora cambiata.
Con affetto,
Diego Terna
ps
Dopo aver pubblicato il loro disco più importante, Daydream Nation, nel 1990 i Sonic Youth firmano un contratto con una major, la Geffen Records, dando alla luce un disco intitolato Goo, che li catapulta nella cultura mainstream, facendo conoscere il proprio lavoro ad un pubblico amplissimo.
Goo, o G.O.O., è, insieme, titolo e auspicio per questa nuova rubrica.

Foto di Diego Terna

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