Un Castello (finto) senza Expo Gate
L’Expo Gate di Milano in Piazza Castello preso a colpi di braccio meccanico, che fa contorcere i bei profili bianchi, non è certo una bella immagine, di questi tempi. Tuttavia, per una volta, quel che si è detto si è fatto. Il progetto fin dall’inizio ha scatenato polemiche innumerevoli, per lo più sterili e noiose, molte tendenziose, come ancora si può leggere nel post di Diego Terna su questo giornale e dai commenti a seguire, senza che ci ritorniamo qui.
Expo Gate sarebbe quel che in gergo architettonico si dice un’architettura effimera, ossia destinata a non durare oltre il tempo previsto dell’evento per cui è stata concepita, nel nostro caso Expo 2015. Poi la sua vita s’è allungata ben oltre la data di scadenza, fino a pochi giorni fa, per una serie di circostanze, rivelandosi un “pronto subito” contenitore di altre necessità, finché non son circolate voci che da li i due padiglioni avrebbero potuto non andarsene più. Pur vero che nella storia ci sono pochi casi illustri in cui certe strutture si son trasformate in monumenti, ma direi che non è questo il caso. L’architetto ci perdonerà se siamo più sollevati così, pur essendo fra quelli a cui il Expo Gate è piaciuto, per il tempo in cui era destinato fin dall’inizio.
Si può dire che con questa scusa del temporaneo gli spazi urbani delle nostre città si riempiono spesso di tanta robaccia – quanti brutti dehor! – assai meno “nobile” di questa, anzi ci son ormai addirittura specialisti architetti che si vantano d’esser maestri in questa architettura leggera, allestendo baracchini e baracconi col pretesto di un design che non deve durare nel tempo. La Nuova Darsena docet, ma su questo mi son già espresso.
Poi ci son gli amici armati sempre di buone intenzioni che vorrebbero spostare queste costruzioni come fossero gonfiabili, magari in altri luoghi utili per destinazioni giustamente nobili – un rifugio per l’inverno? -, come se smantellamento, trasporto e ricostruzione fossero dettagli, e non solo dal punto di vista economico. Pur vero che la carenza di idee è sempre in agguato, e che le soluzioni più scontate, e di più immediata realizzazione, sono quelle che sollevano il minor numero di discussioni: forse ragionandoci per tempo, e con un certo investimento, si sarebbe potuto fare diversamente. Io comunque mi sono sforzato di viaggiare con la mente immaginando un ex – Expo Gate da qualche parte a Milano, magari in periferia come suggerisce qualcuno, ma questo semplice esercizio mi ha convinto che perfino un progetto effimero può essere giusto solo per un certo luogo, e come l’Architettura tout court non possa funzionare altrove.
Chiudo questo piccolo ragionamento per rimandare ad altri spunti ben più intriganti di quelli sollevati da queste polemiche, per richiamare storie di altre ricostruzioni che più di questa hanno forse qualcosa da suggerire per il futuro, a Milano ma non solo.
The Hive, il padiglione UK già vincitore come miglior padiglione a Expo 2015, è stato ricostruito ai Kew Gardens di Londra, aperto al pubblico nel giugno 2016. C’è da chiedersi se non stia meglio lì che sul sito di Rho-Pero, tanto che si potrebbe pensare che sin dall’inizio l’artista che lo ha concepito abbia subito pensato alla sua seconda vita, se non addirittura alla sua destinazione finale in questo posto meraviglioso. Se volate a Londra, dovete andarci subito.
Ad Origgio invece ecco ricostruito l’ex- Padiglione Uruguay, dove si è insediato El Primero, il primo ristorante Uruguaiano in Italia. Il padiglione è stato acquisito da Neologistica e ricostruito accanto alla sede dell’azienda, non lontano dal luogo in cui si è svolto Expo 2015, per salvare “un edificio storico legato ad un evento mondiale che rimarrà nella storia del nostro Paese e non solo”. Fedeli all’originale anche nel contenuto, ecco un pezzo di Sud America a disposizione di chi viaggia nell’area metropolitana tra le provincia di Varese e Como. Non avete assaggiato la cucina di questo paese ad Expo 2015? Qui giurano che è la stessa, e noi abbiamo prenotato un tavolo per il ponte.
L’ultimo è forse il nostro preferito, il padiglione Save The Children progettato dallo studio milanese AOUMM, diventato una scuola in Libano in un campo di rifugiati siriani. I lavori iniziati a luglio sono quasi finiti, e la scuola ha già aperto, mancano solo gli ultimi ritocchi. Un processo virtuoso, quanto faticoso, ma sopratutto coerente dall’inizio alla fine. Sarà forse un caso? Ovviamente no. Da approfondire, seguire e soprattutto sostenere qui.
Oggi ogni architettura andrebbe concepita come parte di un processo che contempla una possibile rigenerazione, in toto o in parte, fin dall’inizio, sicché coi dovuti tempi, una seconda vita sia un’ipotesi davvero praticabile, a meno che l’ambizione di certi progetti non sia sin dall’inizio un’altra, nascondendo cioè un doppio gioco. Sia mai ci sia chi – non necessariamente l’architetto – pensi di tenerla per lasciare un segno tangibile in memoria di se stesso o di qualcos’altro.
Un commento
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Mi dispiace ma non sono d’accordo. L’architettura è “buona architettura” quando ne sottende un’etica che non riguarda solo un’economia in termini di materiali, riutilizzo e impatto (che certamente sono fondamentali). Penso si possa parlare di “buona architettura” quando questa è a servizio sia delle funzioni per essa prevista sia al contesto in cui si trova. So che ExpoGate è stato molto criticato, specie da chi a Milano ci vive, più che dalla intellighenzia del settore, ma io trovo che la situazione tra questo caso e quelli citati sia notevolmente differente. Expo Gate secondo me è stato un intervento preciso e studiato, rispettoso del luogo in cui si trovava e non un’architettura inutilmente moderna solo per dare nell’occhio (la definizione più populista che si può trovare in giro). Chi ha progettato ExpoGate dubito fortemente avesse come primo pensiero di lasciar segno di sé (o di un committente), ma anzi che abbia a fondo studiato la storia e l’urbanistica di Milano: lo spazio tra le due strutture evidenziava l’asse antica di Milano che dal Duomo porta al Castello sulle vie principali della città, senza contare la maniera in cui valorizza il castello; anche formalmente si inchina rendendo omaggio alle guglie del Duomo, leggere e simbolo verticale di Milano per eccellenza. Di certo chi si è lamentato nel 2014 di Expo Gate aveva la memoria corta per aver rimosso l’immagine orrida di quel parcheggio disordinato di motorini su asfalto sciolto e malconcio, con la strada ancora aperta al traffico tra Cairoli e la piazza del Castello.
Ecco perché non tutte le architetture possiamo prenderle spostarle ricostruirle riabitarle: l’architettura non “si usa perché c’è”, lo spazio non “si occupa perché è vuoto”. L’architettura talvolta può stare solo dove sta perché si inchina e omaggia nella maniera più umile possibile la memoria storica del luogo che occupa. E l’identità di uno spazio, ciò che lo rende luogo, sono la memoria storica e il rispetto che le persone che lo vivono nutrono a renderlo tale. Lo stesso spazio, smetterà di essere luogo se deprivato delle ragioni per cui ha quella forma e si trova lì. Uno spazio che non è un luogo, non serve a nessuno, neppure in periferia.
Concludo dicendo che questa non è una sviolinata saccente da chi ne sa di più per esperienza, ma da una venticinquenne che cerca di capire i luoghi del contemporaneo con amore e passione. A presto.