Milano
Milano spazio pubblico
testo scritto con Chiara Quinzii.
El espacio de la vida colectiva no puede ser un espacio residual, sino un espacio significativo, proyectado, minuciosamente diseñado. […] Hay que proyectar el espacio público -es decir, la ciudad- punto por punto, área por área, en términos arquitectónicos.
Oriol Bohigas, Discorso di ringraziamento durante la consegna del premio RIBA, 23 Giugno 1999.
La soddisfazione dell’ordine
Risale al 1947 la vicenda dei Fratelli Collyer, una storia dal profondo fascino: due fratelli si rinchiudono nella propria casa, sbarrano porte e finestre, costruiscono trappole per evitare l’ingresso ad eventuali intrusi, accumulano spazzatura fino al soffocamento fisico, isolandosi totalmente dal mondo fino alla morte (con conseguente ingresso forzato della polizia e la ricerca, durata settimane, del corpo di uno dei due fratelli).
E’ un fascino perverso, ovviamente, tanto più sentito a causa del nostro vivere in una società che tenta continuamente di trasformarci in accumulatori seriali e di diminuire, al contempo, la necessità di lasciare i propri confini domestici.
L’interesse verso questo tipo di vicende corre parallelo al suo opposto, cioè alla necessità di pulizia e di ordine, spesso maniacale, che colpisce molte delle persone che costituiscono la società in cui viviamo.
Non sono stati necessari moltissimi anni, dunque, perchè alcuni programmi televisivi, iniziassero ad investigare le vite di questi due estremi umani: gli accumulatori compulsivi e i malati di pulito.
Com’è naturale, poi, qualcuno ha pensato di far collidere le due malattie, filmando i malati del pulito mentre mettono ordine nelle case degli accumulatori compulsivi.
La lotta epica fra le due patologie si conclude, spesso, con un armistizio: la casa dell’accumulatore trova un ordine e una pulizia decenti e il malato del pulito capisce che forse la sua patologia deve essere messa a freno.
C’è una sorta di compiacimento nel vedere questi programmi: alla fine nessuno di noi riesce ad esimersi dal provare un piccolo, intimo, piacere nel vedere una casa piena di oggetti inutili – se non di rifiuti – sporca e disordinata, trasformarsi nuovamente in un luogo accogliente, pulito, con un giusto, minimo, disordine che ne certifica la vitalità ritrovata.
E’ ovvio, però, che nessuno di noi, senza seguire la vicenda nella sua interezza, si stupirebbe di vedere la casa dell’accumulatore pulita e ordinata: in generale si tratta di case senza particolare interesse, anzi spesso piuttosto tristi e malinconiche (dato che emerge tanto più chiaro quanto più la casa appaia ordinata e pulita).
Mettere in ordine la città
Il 23 Settembre è stata inaugurata la piazza di Rimembranze di Lambrate, dopo un anno di lavoro [che] ha raccolto le suggestioni e i suggerimenti del territorio e delle associazioni attive a Lambrate e li ha tradotti in un progetto di riqualificazione che attrezzerà la piazza con panchine, tavoli da ping pong, campo di petanque e spazi fruibili per usi nuovi e condivisi. Evento facebook Municipio 3 Milano
Il progetto della piazza è uno degli atti che l’amministrazione comunale sta portando avanti per riqualificare gli spazi pubblici della città e risulta essere esemplificativo di un approccio chiaro: evidenziare un problema, attivare un processo di ascolto dei cittadini della zona, proporre un progetto attraverso incontri di condivisione con la cittadinanza, far partire i lavori, inaugurare in tempi rapidi, ponendo l’accento soprattutto su questo lavoro di condivisione.
Un processo, insomma, che non ha vizi, non presenta difetti, risulta, anzi, auspicabile: è come una puntata di accumulatori vs pulitori, il processo funziona, i risultati danno ragione a chi ha lavorato per riportare l’ordine dove regnava l’incuria.
Si tratta, tra l’altro, di un approccio che vuole diventare sistematico: ad oggi il Comune pianifica di intervenire (ed in alcuni casi ha già concluso i lavori) in 9 piazze, dislocate tra zone centrali e zone più esterne, in qualche maniera ricordando i progetti per le 5 Piazze per Milano e Piazze 2001, che trattarono una piazza in meno rispetto a quelle in previsione attualmente.
Se, insomma, nulla pare rivelarsi negativamente in questo processo, qualcosa di stonato si annida nei risultati visti finora, qualcosa che è difficilmente identificabile in maniera “scientifica”, ma che, in ultima analisi, fa ritenere che il percorso generale dovrebbe aggiustare (anche radicalmente) la propria rotta: possiamo definire questo qualcosa come la qualità dello spazio pubblico della città.
Le piazze realizzate e i progetti svelati fino ad ora, infatti, evitano sistematicamente un tema di qualità del progetto: puntano su una sorta di ordinarietà da buon padre di famiglia, che deve spendere oculatamente, che deve ascoltare tutte le campane e che, per scelta comunicativa, vuole volare basso, mantenendo un profilo di presunta umiltà, come in opposizione alle più sbandierate trasformazioni urbane a grande scala, costruite per lo più da privati.
E’ un approccio nato con la precedente giunta Pisapia, che lega la propria narrativa al racconto dell’accorto amministratore, che sbriga le proprie necessità con risorse interne, favorendo, al più, procedure di “bottom up”, tanto che lo stesso Maran dichiara: Siamo in fase di aggiornamento del Piano di Governo del Territorio e sostanzialmente l’unico vero investimento in risorse esterne per redigerlo abbiamo deciso di farlo su un tema spesso trascurato: quello idrogeologico e sismico. (Facebook, 9 ottobre 2017).
Risulta chiara, insomma, l’intenzione di affidarsi ad un gruppo tecnico inserito nel meccanismo politico, che, badando al sodo, mette ordine nello spazio pubblico e ne migliora le condizioni di partenza, ma che non può sbilanciarsi verso una reale innovazione del progetto -che è sempre una sfida verso un risultato incognito- anche perchè non si rapporta con una comunità di progettisti internazionale (difficile immaginare una qualsiasi di queste piazze pubblicate su una rivista di settore).
La piazza di Rimembranze di Lambrate sconta, allora, questa contraddizione: voler fare, ma senza esagerare; mettere in ordine, ma senza innovare; costruire, ma senza cambiare le spazialità esistenti.
Si creano così dei luoghi irrisolti, progettati con modalità in realtà non funzionali (come il grande spiazzo centrale, vuoto e senza alcuna funzione), con poca attenzione ai materiali (le pavimentazioni sono di almeno cinque tipologie differenti, disposte a caso, quasi tutte di qualità discutibile), senza studio dell’arredo urbano (convivono, ancora casualmente, cestini, panchine e pali della luce da catalogo del Comune, con sedute, tavoli e recinzioni completamente differenti tra di loro).
Sono spazi che necessiteranno a breve di una nuova ri-progettazione, perchè portano in sé gli stessi difetti che notiamo negli spazi urbani non ancora riqualificati: strade, piazze, giardini e parchi sono esito di un rattoppo continuo, non oggetto di un progetto unitario, qualitativo e radicale; una volta persa la patina di pulito, che il nuovo progetto ha portato temporaneamente, tornano ad essere dei luoghi che offrono una immagine di poca cura nei confronti dell’ambiente urbano e purtroppo anche di quei cittadini che quelli spazi vogliono usare.
Eppure lo spazio pubblico, ovvero lo spazio di tutti, è il luogo dove la città è tale.
Lo spazio pubblico a Milano
Milano è forse uno degli esempi più evidenti di quanto le individualità, i privati “illuminati”, possano costruire per sè edifici che definiscono la città stessa, attraverso palazzi, università, spazi di lavoro, musei (Feltrinelli, Prada, Pirelli, Hines, Bocconi, Dolce&Gabbana). La qualità urbana si regge su questi avamposti, in mezzo quasi nulla, che non sia anch’esso affidato al privato (Porta nuova, City Life).
La collettività fa fatica a disegnare e costruire gli spazi per sè come pluralità (si veda il parco progettato da Petra Blaisse per Porta Nuova, che sta vedendo ora la luce dopo 14 anni dal concorso!): a parte le piazze prima citate, basta osservare le sezioni stradali per accorgersi come l’elemento “uomo” sia secondario rispetto, per esempio, all’elemento “auto”.
Eppure la qualità dello spazio pubblico -non solo nelle grandi trasformazioni urbane ma anche nella sua scala più minuta- è (dovrebbe essere) uno dei vanti della cultura italiana della città.
In Europa e nel mondo, soprattutto attraverso concorsi internazionali, si ridisegnano piazze, strade, parchi, ma anche ferrovie abbandonate, sotto viadotti, giardini di quartiere, per favorire la fruizione dei cittadini: questi luoghi non solo aiutano la riqualificazione degli spazi urbani, ma diventano dei veri e propri dispositivi sociali, centri nei quali la cittadinanza si riconosce e si incontra, manifestazione più alta della civiltà dei suoi abitanti, che sentono questi spazi come propri.
Molte delle ultime Biennali di Venezia sono state affidate alla curatela di architetti e molti di loro hanno incentrato il tema sul ruolo civile dell’architettura, sul suo essere capace di essere dispositivo sociale (People meet in architecture di Sejima, Common ground di Chipperfield, fino al Free space di Grafton, che di fatto suggerisce che l’architettura, anche quando si occupa di spazi privati, in realtà progetta per la città, per l’incontro, per il benessere di tutti).
Siamo in un mondo dove la democrazia, anche attraverso i nuovi mezzi di comunicazione ed interazione, si sta ulteriormente allargando; forse sente nuovamente il bisogno dell’incontro fisico e i cittadini stessi chiedono spazi da fruire. Gli esempi della nuova Darsena, di piazza Gae Aulenti, del parco di City Life mostrano questo bisogno, la volontà di stare nella città, nei suoi spazi collettivi, estensioni dello spazio domestico: non bastano più le case per vivere, si vuole poter partecipare al progetto dello spazio pubblico, come elemento da fruire quotidianamente ma anche per ritrovare una piena e completa riconoscibilità, personale e collettiva.
La partecipazione è, infatti, un elemento ormai imprescindibile nella procedura di progettazione dello spazio pubblico ed in effetti il processo narrativo che l’amministrazione pubblica porta avanti si fonda su questo continuo stimolo alla partecipazione.
Il bilancio partecipativo, in tal senso, è una sperimentazione interessante: ogni cittadino può segnalare al Comune i luoghi che considera più bisognosi di riqualificazione e poi votare tra questi quello che riceverà i fondi previsti dal bilancio comunale.
Manca però un passaggio fondamentale, in questo percorso virtuoso: il progetto dello spazio, la qualità architettonica. Anche i piccoli luoghi, forse soprattutto questi piccoli luoghi -che spesso si trovano in quei quartieri che il Comune definisce periferici– hanno bisogno di essere progettati con una visione ampia, con una sensibilità allenata, meritano di chiamare a raccolta i progettisti per selezionare il progetto migliore.
Non è possibile lasciare al solo rapporto cittadino-Amministrazione la modifica dello spazio collettivo, mancando generalmente, in entrambe le parti, un anelito alla sperimentazione architettonica e quindi alla qualità finale dell’opera: anche quando fosse presente una certa sapienza tecnica, risulta difficile trovare un riferimento al dibattito contemporaneo, alla radicalità delle sperimentazioni urbane, alla volontà di presentarsi come portatori di innovazione spaziale (non di funzioni, non di processo, non di economie: stiamo parlando di pura qualità dello spazio – che poi si porta dietro molte altre questioni, ovviamente). Questi spazi infatti sono spesso problematici, non si possono risolvere con la manutenzione straordinaria, vanno ripensati radicalmente, è necessario trovare nuove strade, sperimentare e, per sperimentare, servono nuove idee da parte di chi è allenato a ripensare lo spazio.
Pensiamo per esempio alla aspettativa creata dalla Biblioteca degli Alberi, finalmente in via di conclusione: un progetto che non si può dire, forse, portatore di una sperimentazione radicale, ma che presenta una coerenza interna notevole, una approfondita ricerca di temi urbani contemporanei, un disegno di dettaglio stimolante che pare ripensare ironicamente alcune aree tipiche dei parchi italiani, come quelle per i cani e per il fittness, ma anche il verde come elemento culturale e contemplativo.
Esito, non a caso, di un concorso internazionale di progettazione, riuscirà, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, a costruire un immaginario urbano di sicuro interesse e quindi a mostrare una alternativa nuova, contemporanea, di risposta alle necessità dei cittadini.
Barcellona 1980-84: dice Bohigas
Se comunque provassimo a seguire la direzione dell’amministrazione nel voler disegnare la città all’interno del proprio ufficio tecnico, ci potremmo riferire alla città di Barcellona degli anni 80 e 90, durante i quali Oriol Bohigas era direttore della Pianificazione della città. Barcellona gettò le basi allora per divenire una delle città più visitate e apprezzate al mondo, per una serie di fattori tra cui, soprattutto, una qualità superba degli spazi pubblici, a grande e piccola scala (divenendo, tra l’altro, un punto di riferimento proprio per molti giovani italiani che si trasferiscono là per studio o lavoro).
Diceva Bohigas: […] lo Spazio publico è la città! La città è concepita come il luogo proprio della civilizzazione contemporanea, la città è l’insieme dei suoi spazi pubblici […] ogni frammento dello spazio urbano ha la sua identità. Lo spazio della vita collettiva non può essere uno spazio residuale ma deve essere uno spazio significativo, progettato, minuziosamente disegnato. […] da un lato l’architettura è obbligata a essere al servizio del cittadino, ma come arte deve essere considerata come innovazione. La buona architettura non può essere che una profezia in lotta con l’attualità. Servizio attuale e profezia contestataria sono il difficile compito che deve risolvere la buona architettura.
Oriol Bohigas, Discorso di ringraziamento durante la consegna del premio RIBA, 23 Giugno 1999.
Oriol Bohigas pensava a Barcellona come ad un insieme di quartieri, ognuno con la propria identità e riconoscibilità, da svelare e rafforzare attraverso l’architettura: l’architettura, e non l’urbanistica, appunto, proprio perchè solo un disegno minuzioso e attento, anche del dettaglio, poteva restituire qualità ai luoghi.
Un disegno, però, innovativo, in lotta contro lo stato delle cose, non in continuità: non un quasi nulla, quindi, che equivarrebbe a riconoscere che quei luoghi così vanno bene e non hanno necessità di riqualificazione.
Serve dunque una strategia dello spazio pubblico che punti all’innovazione e alla qualità, serve ragionare collettivamente sui luoghi, definirne i problemi e le necessità con gli abitanti, ma poi farli disegnare minuziosamente da chi è in grado di aggiungere qualità, grazie alla sua sensibilità ed esperienza di progettista dello spazio.
Questi spazi meritano il meglio, è qui dove noi, in quanto cittadini, viviamo e ci riconosciamo, è qui dove passiamo il nostro tempo libero e ci ricreiamo: vogliamo il progetto migliore e il progetto migliore si fa attraverso una competizione tra i migliori, attraverso un concorso di architettura.
Certo, anche la Darsena e la futura sistemazione di piazza Castello sono frutti di concorsi, ma non riescono a costruire spazi di reale innovazione spaziale. Possiamo, però, definire delle condizioni di logica: un concorso di architettura non è sufficiente, per costruire qualità, ma è sicuramente necessario.
Su cosa, quindi, si dovrebbe lavorare, per aumentare le chance che i progetti urbani raggiungano vera qualità?
L’attuazione di concorsi, a tutte le scale -sia delle grandi trasformazioni, che delle piccolissime modifiche urbane- internazionali o nazionali, a curriculum o aperti, è un elemento imprescindibile, ma la sua organizzazione e, soprattutto, la sua valutazione (ossia la giuria) devono essere una parte integrante del processo.
Chi può valutare il progetto migliore?
Può aiutare in questo, oltre ai cittadini, al Comune e all’Ordine degli architetti, la partecipazione di un’altra istituzione che lavora sulla ricerca in questo campo (le riviste di settore? la Triennale? le associazioni legate al mondo del design?) per garantire un apporto imparziale e teso alla qualità del progetto, a trasformare in spazio finalmente urbano le istanze della cittadinanza e della politica.
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