EMA e Città metropolitana: alleati, non sostituti
“Pur fra tante amnesie”. Sembra essere questo il motivo ricorrente della narrazione di Milano nel dibattito pubblico nazionale: così Dario Di Vico sulla prima pagina di lunedì scorso del “Corriere della Sera”. Pur fra tante amnesie, Milano cambia, si rinnova, cresce: è quanto contribuiscono a raccontare anche il richiamo di domenica in prima pagina e il commento di giovedì scorso, a firma di Giangiacomo Schiavi, sul possibile arrivo nel capoluogo lombardo di EMA – l’agenzia europea del farmaco in uscita da Londra causa Brexit.
Ciò che trapela da questi frammenti di narrazione è una certa forma di “cecità sistemica”, che affligge il dibattito pubblico italiano in relazione alle città e metropoli. Alle élites urbane piace pensare alla propria città come a una specie di “città-stato”, capace di affrontare il futuro da sé. I milanesi ne avrebbero qualche buona ragione: la costruzione del metrò con fondi municipali a cavallo di anni ’50 e ’60, la riqualificazione di aree e quartieri degradati nei Comuni dell’hinterland in tempi più recenti. Ma la realtà non è così semplice, e ciò emerge anche nell’intraprendente tentativo di portare a Milano l’EMA.
Intanto, se Milano può competere ad armi pari con città del rango di Vienna, Copenaghen o Amsterdam, lo deve anche agli emigranti che, venendo a lavorare all’interno della sua area metropolitana da altre regioni italiane – dal Friuli alla Puglia – hanno contribuito ad accumulare nel tempo quell’energia di cui la città capoluogo può disporre oggi. Ma soprattutto, se Milano riuscirà – come è auspicabile – ad aggiudicarsi la rilocalizzazione dell’agenzia basata nel Regno Unito, lo dovrà anche alla capacità di negoziazione politica del Governo nazionale che, come nota Schiavi, avrà l’ultima e decisiva parola – quando si tratterà di convincere i partner europei. È quindi degno di nota il sostegno che il Presidente del consiglio sta garantendo al Sindaco (e al Governatore) su questo dossier. Tuttavia, non di sole occasioni eccezionali è fatto lo sviluppo di città e metropoli.
Proprio in relazione a questa sfida, il Governo stesso ha dotato 10 aree urbane delle regioni a statuto ordinario (le cosiddette “Città metropolitane”) di alcuni utili strumenti: il Piano strategico e le Zone omogenee. Dal punto di vista logico, non c’è alcun impedimento ad accompagnare progetti ambiziosi (e quindi rischiosi) a forme più stabili nel tempo di programmazione dello sviluppo sul territorio. Questo vale in particolare per le città e metropoli meno attrattive – dove ci sono già esempi positivi: con l’idea di fare dell’Aquila una città della conoscenza, si è arrivati quest’anno a 1500 domande, di cui la maggior parte dall’estero, per 40 posti di dottorato – ma non è inopportuno neanche per Milano. Occorre cioè “governare” gli effetti dell’indispensabile rincorsa agli investimenti internazionali, cominciando ad affrontare, con gli strumenti già disponibili, due ben note amnesie milanesi: la regolazione dell’uso del suolo e le relazioni tra autonomie locali a scala metropolitana.
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