L’affaire Patrik Schumacher e la faccia destra dell’innovazione sociale urbana
A chiunque si interessi agli eventi della scena architettonica europea, nelle ultime due settimane non sarà sfuggito il caso montato intorno alle dichiarazioni rese da Patrik Schumacher (successore di Zaha Hadid e oggi alla direzione del suo studio di architettura) in occasione del World Architecture Festival di Berlino.
Rimpallata tra Dezeen e il Guardian, e approdata poi alla stampa italiana, sostanzialmente la vicenda vede l’architetto proporre 8 punti programmatici per Londra toccando preoccupanti picchi di spregiudicatezza (come, ad esempio, proponendo di costruire al posto dell’”inutile” Hyde Park o di abolire il social housing) e quindi, all’indomani della kermesse, il mondo dell’architettura levarsi in un grido pressoché unanime di disappunto. Schumacher viene immediatamente soprannominato il Trump dell’architettura, i parenti e gli amici della Hadid si dissociano dalle dichiarazioni incriminate, si crea un picchetto di protesta davanti allo studio, arriva quindi addirittura una presa di distanza ufficiale da parte di Zaha Hadid Architects.
Eppure, di fronte a tutto questo, anche le opinioni più distanti da quelle dell’architetto hanno stentato – quantomeno per il momento – a prodursi in osservazioni critiche di merito sui contenuti del discorso. Al contrario, la levata di scudi generale si è limitata ad attribuire alle argomentazioni di Schumacher il carattere della pochezza e a liquidarle in un corale “lasciamolo perdere”.
Ma allora gli eventi degli ultimi tempi non ci stanno insegnando nulla.
Non ci stanno insegnando, per esempio, che l’emergere di idee capaci di mettere in discussione paradigmi democratici richiede reazioni attive. Che queste idee vanno ascoltate a fondo soprattutto quando necessitano di essere capite per essere adeguatamente fronteggiate.
E quindi, ecco qualche punto su cui riflettere.
1. Quello enunciato da Schumacher ha i tratti di un progetto politico.
L’elemento più notevole della struttura del discorso di Schumacher è che prende le mosse da una serie di contributi recenti che il sindaco di Londra Sadiq Kahn ha richiesto a vari intellettuali “di sinistra” (o così nell’interpretazione dell’architetto), invitati ciascuno ad elencare un set di azioni da mettere in campo se si trovassero a fare il Mayor. Essendo stato evidentemente escluso da tale consesso locale, Schumacher porta quindi in una piazza internazionale la propria vision di refusé.
Ed ecco quindi, espressa in 7 tesi, questa visione, basata su una marked-based urban provision per risolvere la “crisi dell’housing”:
- La densità abitativa del centro dev’essere aumentata, e per realizzare un housing per tutti si deve ricorrere unicamente a logiche di mercato.
- Tutti gli investimenti esteri nel settore immobiliare devono essere benvenuti, anche se destinati a costruire insediamenti per essere abitati una settimana all’anno.
- I developers dovrebbero entrare attivamente nei processi decisionali che sono appannaggio dei planners, polverosi burocrati che decidono su basi incomprensibili e inconoscibili e che producono insediamenti con un’offerta di housing caratterizzata da tipologie e dimensioni sbagliate. Gli insediamenti più virtuosi sono quelli in cui c’è una regia privata che genera l’immagine della città. Le ricadute in termini di utilità sociale corrispondono all’aumento dei valori immobiliari: il profitto è un segnale del fatto che si sta facendo un buon servizio a tutti.
- Ogni tentativo top-down di dare ordine all’ambiente costruito è astratto e destinato a un fallimento di concetto e di fatto. Solo il mercato può scoprire e realizzare sinergie di co-location e inclinare il real estate verso gli usi più produttivi e desiderabili. Tutto il resto è standard banale o pericolosa ingegneria sociale.
- Gli standard abitativi sono calcolati su medie one-fits-all e deprivano i cittadini della scelta dello stile di vita, molto diversamente da ciò che accade per altri beni sul mercato. Anche gli standard di health and safety della coabitazione sono assurde deprivazioni e devono essere messe in discussione.
- Chiunque dovrebbe avere il diritto di abitare in centro per un periodo, soprattutto chi ne ha bisogno per essere produttivo e generare valore, ed è quindi economically more potent. Quindi, gli insediamenti di housing sociale esistenti in centro sono “una tragedia” per l’economia urbana e ogni forma di edilizia sovvenzionata e convenzionata andrebbe abolita.
- La gentrificazione è una forza progressiva. La politica non dovrebbe fermarla. È la vita.
A seguire, Schumacher propone un vero e proprio Urban policy manifesto (che si può leggere per intero qui), sostanzialmente ricalcato sui suddetti punti, con l’aggiunta però anche di una ulteriore, esplosiva proposta finale:
- Privatizzare tutte le strade, le piazze, gli spazi pubblici e i parchi, se possibile interi distretti urbani.
Così contestualizzata, la proposta assume tutta un’altra scala. Molto più – non meno – inquietante. È infatti quantomeno improbabile che il frontman di una macchina globale come ZHA si muova a tentoni, calcando i palchi dello starsystem senza alcun tipo di intenzione per la diffusione del suo manifesto. Al contrario, la rilevanza mediatica dell’evento è proprio ciò che ha portato Schumacher a scegliere quella occasione per proporre il suo intervento in forma di vero e proprio programma, nella speranza di intercettare orecchie sensibili all’argomento. E di certo non si tratta di un appello ai developers internazionali: quanti di loro infatti ancora non conoscono, ad oggi, il brand di Zaha?
No, la prospettiva è un’altra e parla ad amministrazioni in vena di sperimentazione di protocolli di governo del territorio “alternativi”, in cui la pianificazione sia regolata dal mercato, anziché il viceversa. Per com’è costruita la proposta, si direbbe quasi che il frontman di ZHA voglia davvero proporsi come figura di advising di processi decisionali spregiudicati, ma in effetti non è chiaro se egli davvero possa dire con la necessaria consapevolezza di voler disconoscere le esistenti logiche della pianificazione (in UK come altrove), o se piuttosto ne ignori semplicemente la natura e la lunga storia.
2. Emerge tra le righe una faccia destra dell’innovazione sociale urbana.
Tra le cose più sorprendenti della visione iper-liberista delineata da Schumacher c’è poi senz’altro il ruolo ambiguo che in essa gioca il concetto di proprietà privata. Come si è visto, uno degli obiettivi più spesso colpiti da Schumacher è l’housing sociale (il tema dell’intera conferenza era in effetti quello) sia in quanto statuto, sia nel merito dei comparti di edilizia pubblica esistenti nei contesti metropolitani. Per lui è da abolire ogni forma di sovvenzione, convenzione o politica di aiuto all’acquisto della casa, acquisto che deve invece appunto seguire soltanto le cangianti logiche del mercato. E tuttavia, questo che egli delinea è un mercato ibrido, che ha i piedi profondamente piantati in questo preciso momento storico.
Così, tra le “buone pratiche” citate da Schumacher, ecco comparire The Collective, una giovane impresa britannica che propone modelli abitativi a basso costo, basati sulla riduzione al minimo degli spazi domestici di tipo privato (finanche a soli 10 mq), e sulla condivisione di ambienti tra più appartamenti, in un’ottica di co-living parziale che struttura in modo flessibile la composizione degli spazi all’interno dei nuovi edifici residenziali, a discapito della grandezza della parte di appartamento che si può effettivamente “possedere”.
Quindi, ricapitolando: il più disinibito liberismo metropolitano, col cuore nella città che si candida ad essere la più privatizzata al mondo, si interessa a modelli di coabitazione figli della sharing economy e pronipoti, in fondo, dei falansteri socialisti ottocenteschi.
Da un certo punto di vista, la cosa non stupisce, dato che oggi moltissime aziende basate sul peer-to-peer sono anche tra i più grandi esempi venture capitalism su scala globale, e che questo accade anche nel settore dell’abitare (è il caso arcinoto di Airbnb). Dall’altro, però, quella che è in gioco è chiaramente la definizione di quali siano i limiti di invalicabilità dei diritti fondamentali dell’abitare urbano. Ovvero: fino a che punto vogliamo permettere che la ridiscussione dei paradigmi della privacy, imposta ogni giorno di più dalla sharing economy, incida sul diritto all’accesso al bene-casa così come noi lo conosciamo? In altre parole: è davvero l’evoluzione spontanea degli stili di vita a farci scegliere di condividere di più e di “possedere” di meno? E se invece, anziché un paradigma emergente di condivisione e di innovazione sociale, questa fosse una nuova svolta imposta, semplicemente, da un mercato immobiliare sempre più aggressivo?
Certo, il fatto che “il Trump dell’architettura” si interessi a questo modello, almeno qualche indizio in merito ce lo dà.
Identicamente, anche l’idea per cui il diritto ad abitare in centro non dovrebbe essere un privilegio acquisito e concesso a tempo indeterminato potrebbe sembrare un paradigma egualitario. Se però il criterio di prelazione si misura in “potenza economica” o capacità di produrre valore monetario, allora siamo di fronte a una specie di utopismo che ha al suo centro il denaro ben al di sopra dell’uomo.
Che Schumacher abbia le idee sul futuro molto più chiare del previsto, nonché di tutti noi?
3. E tuttavia, la dialettica centro-periferia è invece di assoluta retroguardia.
Se il punto precedente ci dà l’impressione di un personaggio in grado di interpretare il suo tempo in maniera molto precisa (e in una direzione chiarissima), al contempo però il suo racconto parla di una dialettica tra centro-della-città e tutto-il-resto come assolutamente sbilanciata e manichea. Questo atteggiamento, tipico di (almeno) un cinquantennio fa, non solo ignora deliberatamente un dibattito culturale internazionale ormai maturo e volto alla progressiva risoluzione delle sperequazioni in termini di qualità della vita causate dall’approccio modernista e funzionalista all’ampliamento delle città, che ha di fatto causato la nascita del concetto di “periferia”; non solo non sa di trovarsi in una città – Berlino – che è probabilmente tra le capitali europee quella più fortemente caratterizzata dal fatto di non avere per niente un centro e di funzionare comunque benissimo; ma soprattutto, non coglie probabilmente il valore di una sfida – anche semplicemente imprenditoriale – globale che si svolge in un mondo in fase di urbanizzazione incredibilmente veloce e aggressiva. Una fase che, avvicinandosi ormai il superamento del picco della creazione di newtowns orientali, si concentrerà nei prossimi decenni soprattutto nell’espansione dell’esistente, e probabilmente avrà il suo palcoscenico altrove.
Forse è vero che proprio le neo-megalopoli asiatiche, giunta una fase di ripensamento (già iniziata) vorranno darsi nuove identità (posticce?) a partire dai loro nuovi centri geografici, e che ZHA sarà tra i loro interpreti preferenziali.
Ma è vero anche il mondo interconnesso si è avviato verso lo sviluppo di una unica, complessiva condizione metropolitana, fatta di flussi ad entropia crescente, di accessi remoti e di multipolarità. Parlare ancora di privilegio del centro, e partire dall’esempio di Londra, vuol dire inevitabilmente assumere una posizione di infelice retroguardia.
4. La reazione dello studio Hadid, nata per distinguersi da queste affermazioni, è ancora più grottesca.
Infine, la ciliegina sulla torta.
Dopo il polverone montato intorno alla conferenza di Berlino, lo studio ZHA, con una operazione senza precedenti, molla Schumacher sulle sue posizioni e tenta di ricostruirsi una credibilità a prescindere da esse.
Intanto, la cosa è sorprendente in sé. Come può uno studio disconoscere le posizioni del suo principal sulla disciplina di cui entrambi si occupano? O, al contrario: come può un principal guidare il suo studio verso una direzione, se tutto il resto di esso ne ha in mente un’altra?
Non stupirebbe quindi se questo rapporto cessasse nel prossimo futuro, ma stupirebbe molto se invece, come per il momento sembra, continuasse.
Ad ogni modo, la lettura della lettera di ZHA può essere un’esperienza davvero illuminante. Qui sì che si riconoscono la pochezza e la superficialità degli argomenti erroneamente imputate a Schumacher. Anche riuscendo a districarsi tra la nullità delle cifre e le nauseanti frasi a effetto, infatti, se ne conviene che nessun tipo di contenuto è stato opposto alla valanga di contenuti proposti – eccome! – dal controverso principal. L’approccio alla “speriamo che nessuno l’abbia davvero ascoltato” e l’inconsistenza intellettuale di questo statement dimostrano, più ancora della debolezza culturale di ciò che resta dell’eredità della Hadid, la considerazione infima dell’audience di questa vicenda, destinataria di questo messaggio di pace e carità che ha l’obiettivo di silenziarne i commenti.
Ed ecco perché dobbiamo, invece, non smettere affatto di parlarne. Buona lettura.
L’urban policy manifesto di Patrik Schumacher non riflette il passato di Zaha Hadid Architects e non sarà il nostro futuro.
Zaha Hadid non ha scritto manifesti. Lei li ha costruiti.
Zaha Hadid Architects ha consegnato 56 progetti destinati alla collettività in 45 città di tutto il mondo.
Rifiutando di essere confinata da limiti o frontiere, Zaha non ha mai riservato le sue ideologie per i proclami pubblici. Lei le ha vissute.
Ha profondamente creduto nel forte collaborazione internazionale e siamo molto orgogliosi di avere nel nostro ufficio di Londra un team di grandi talenti di 50 nazionalità diverse, compresi quasi tutti i paesi dell’UE. Il 43% degli architetti di ZHA appartengono a una minoranza etnica e il 40% dei nostri architetti sono donne.
Zaha Hadid non solo ha frantumato tutte le barriere, ma ha invitato i frantumi – di qualsiasi razza, sesso, religione o orientamento fossero – a unirsi a lei nel suo viaggio.
Innestando la cultura della ricerca collettiva in ogni aspetto del nostro lavoro, Zaha ha costruito una squadra di talenti e discipline diversificati, e noi continueremo ad innovarci verso un’architettura di inclusività.
Architetti di tutto il mondo stanno lanciando appelli perché la professione diventi più inclusiva. Anche la stampa nazionale e internazionale ha fatto un ottimo lavoro mettendo in evidenza le criticità del tema degli alloggi e le minacce per gli spazi pubblici vitali.
Attraverso la sua determinazione e il duro lavoro, Zaha ha mostrato a tutti noi che l’architettura può essere democratica. Lei ha ispirato nuove generazioni in tutto il mondo a interagire con il loro ambiente, a non smettere mai di mettersi in discussione e di aprirsi all’immaginazione.
Collaborando con committenti e comunità di tutto il mondo che condividono questa visione, tutti i membri di Zaha Hadid Architects sono impegnati ad onorare l’eredità di Zaha, lavorando con passione e impegno per progettare e fornire progetti più progressivi per tutti.
Senza dubbio, per tutti.
Un commento
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Molto interessante e condivisibile, l’articolo di Ferorelli.