Arte
Il primo edificio del Presidente (G.O.O. #2)
E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno.
Scattò il capo e acuì lo sguardo come a vedere più lontano e più profondo, la brama della città e la repugnanza delle colline l’afferrarono insieme e insieme lo squassarono, ma era come radicato per i piedi alle colline. – I’ll go on to the end. I’ll never give up.
Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, prima edizione postuma 1968.
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Cari SG,
sabato 31 Gennaio Sergio Mattarella è stato eletto Presidente della Repubblica Italiana e, come certamente saprete, il suo primo atto dopo l’elezione è stato visitare il Mausoleo delle Fosse Ardeatine, a Roma.
Forse vi può interessare sapere che quest’opera è un capolavoro dell’architettura moderna italiana, nata come risultato di un concorso indetto dall’amministrazione capitolina nel 1944, all’indomani di una terribile rappresaglia dell’esercito tedesco, che ammazzò 335 persone (10 per ogni soldato tedesco morto) e le interrò nelle cave ardeatine.
Fu il primo concorso di progettazione indetto nell’Italia del dopoguerra, a liberazione non ancora conclusa.
Furono premiati due gruppi di architetti, che si unirono per sviluppare il progetto finale, formati da Nello Aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini.
Nel 1944, queste erano le età degli architetti vincitori:
Mario Fiorentino, 26 anni;
Giuseppe Perugini, 30 anni;
Nello Aprile, 30 anni;
Cino Calcaprina, 33 anni.
Il mausoleo è un parallelepipedo perfettamente euclideo, volutamente in contrasto con la topografia mossa del terreno circostante e delle vicine grotte: un segno nel territorio, chiaro, limpido, monito a un avvenimento che non dovrà mai più ripetersi.
Un universo doloroso, quasi schiacciato da un volume di pesantissima materialità, si libra nel luogo del massacro, chiuso verso l’esterno, se non per alcuni spiragli di luce. E’ un canto amaro, che distrugge in un colpo la pesante eredità dell’architettura fascista, ripudiando la dittatura che ha causato questo dramma.
Entrare nel mausoleo, dopo essere passati lungo il percorso straziante fra le grotte di tufo, significa muoversi entro un ventre buio, che non lascia nulla alla manifestazione esteriore del dolore: è un ventre netto, pulito, scandito da linee prospettiche chiare, che media il suo rapporto con l’intorno attraverso quella sottile lama di luce tra volume e terreno.
E’ in questo luminoso luogo di transizione, la linea fra natura ed artificio, che esplode tutta la poesia dell’architettura; è da qui che proviene l’esatta quantità di luce che permette di vedere la distesa di tombe, un catalogo di morte che pare infinito, che si ripete come un mantra religioso, a perenne ricordo.
L’architettura, nel suo manifestarsi così simbolico, quasi senza funzione, si comporta come una grande macchina/scultura, cha fa dello sforzo strutturale la tensione massima del suo essere.
Ed è proprio osservandola dall’alto, in un giardino mediterraneo, fra palme e pini marittimi, che emerge sorprendentemente l’opposizione fra il verde rigoglioso e il taglio nitido della scatola architettonica: possiamo allora capire che questo assurdo sforzo strutturale non sia altro che una sorta di messaggio, il necessario impegno ad espiare le colpe di una intera comunità di persone.
Non so se Beppe Fenoglio avesse visitato il Mausoleo, durante la stesura de Il partigiano Johnny, ma l’immagine del protagonista, ritto sulla collina, con i piedi radicati nella terra, pare la personificazione di questo edificio: una figura eretta su una altura, che emerge con forza, eppure in simbiosi, dal terreno, che porta dunque un messaggio nella sua stessa forma.
In questa maniera ne resterà, come auspicato da Fenoglio, sempre uno.
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Foto di Diego Terna
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