Arte

Una piazza, un museo, un inizio di città (G.O.O. #6)

20 Gennaio 2016

Cari SG,

recentemente ho avuto la possibilità di visitare alcuni paesi del Centro America, scoprendo, come è facilmente immaginabile, realtà molto differenti da quanto, quotidianamente, ci circonda in Italia.
All’emozione del viaggio si è associata la curiosità nei paragoni tra i paesi: la natura, così esuberante; il cibo, a volte spartano; la religione, vero motore della vita quotidiana. Sono elementi che, in una certa maniera, risultano attesi, non sorprendenti, forse perché ci raggiungono prima del viaggio attraverso molte forme di narrazione.
È stata, allora, la condizione urbana la sorpresa maggiore in queste visite intercontinentali, una condizione che mostra una grande discrepanza rispetto alle principali caratteristiche dei tessuti urbani europei: l’accrescimento della città attorno ad un nucleo storico, che si allarga ad un indefinito sprawl urbano, per esempio, è difficilmente individuabile nelle città centroamericane. Qui la condizione di normalità è quella di un esteso territorio urbanizzato che non si raggruma intorno a delle centralità, ma mantiene una sorta di carattere suburbano continuo.
Ciò non dipende dalla morfologia degli edifici o dall’età degli stessi: un mix di situazioni – l’auto come pressoché unico mezzo di trasporto; la sensazione di insicurezza nei luoghi pubblici non recintati; la radicale trasposizione degli spazi del commercio entro mall sempre più grandi – ha trasformato i luoghi pubblici che canonicamente definiscono la qualità di una città, come le strade e le piazze, in spazi di solo attraversamento veloce, il più rapido possibile (cosa che spesso avviene anche in Italia, ma in forme meno radicali).

Queste città, dove è pericoloso passeggiare o dove si ha la sensazione (oltre che il suggerimento, da parte dei locali) che sia pericoloso farlo, posseggono una memoria limitata, causata da uno strappo brutale con il passato, che non permette loro di trovare una condizione differente rispetto ai modelli nord americani a cui i cittadini tendono spesso a guardare.

Per questo è stata una sorpresa, nel breve girovagare in questi luoghi, scoprire in una sorta di non-città (nel senso europeo del termine), qual è San Josè, capitale del Costa Rica, uno spazio urbano compiuto, nel quale l’architettura riesce a costituire, con la propria esistenza, un ambiente carico di significati: si tratta della Plaza de la Cultura e del Museo del Oro Precolombino, sottostante ad essa.

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Qui è possibile osservare una stratigrafia di storie che si intrecciano, che svelano finalmente una spiccata complessità architettonica, grazie ad un progetto spaziale che coinvolge la città e i suoi abitanti e considera indispensabile la continua presenza umana che fluisce attraverso essa.
Siamo nel 1983 e gli architetti Jorge Borbón, Edgar Vargas e Jorge Berthau vedono realizzato il loro progetto del nuovo museo che raccoglie una importante collezione di oggetti d’oro dell’età pre Colombiana. Non sarà la sola apertura: a completamento del progetto, si inaugura anche la copertura dell’edificio che diventa la nuova Plaza de la Cultura, dando finalmente un senso urbano ad un vuoto, come luogo dello stare, dell’uso della città da parte dei cittadini e come estensione esterna dello spazio più intimo dell’abitare.
Attraverso una citazione del Centro Pompidou (i grandi tubi dell’areazione che spuntano nella piazza), terminato qualche anno prima, e una serie di lucernari esagonali, gli architetti portano lo spazio interno del museo al di fuori, incuriosendo i passanti che verranno poi attratti da una scalinata che li condurrà all’interno dell’edificio.
Ed è qui che il museo costruisce, nuovamente, una idea di città, concentrando l’esposizione degli oggetti entro un allestimento di dimensioni contenute, rispetto alla superficie presente, liberando il resto degli spazi ad una circolazione fluida, libera, su più piani, dove le persone trovano un proprio equilibrio, senza un indirizzo preciso che non sia il godere degli spazi stessi.

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L’edificio è, in effetti, una sorta di piramide rovesciata incastonata nel terreno che rimarca la sua geometria con una materia possente, il calcestruzzo a vista, con la quale costruisce pareti, pavimenti e soffitto, impreziosita da inserti in metallo lucido e in legno.

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Tutto lo spazio è definito come una scena drammatica dove, a contrastare col grigio massivo del cemento, la luce entra copiosa dalla trama geometrica che organizza la copertura del museo. Una trama vigorosa, che definisce un piano continuo che regola la spazialità dell’edificio: è principalmente un fatto strutturale, ma incorpora in sé l’illuminazione e, grazie al gioco di pieni e vuoti, riesce a rendere lieve il peso della piazza sovrastante.
Non esiste, dunque, funzione precisa, se non quella di provare una sensazione di ariosità, quasi paradossale, che aumenta tanto più ci si addentra nel sottosuolo. Così l’enorme scala pare centrifugare il percorso verso le pareti, solo inframmezzato da slanciate, eppur imponenti, colonne, che ritroveremo, quasi vent’anni più tardi, nella Caja Granada Savings Bank di Campos Baeza.
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È il vuoto, protagonista degli spazi interni, che si riverbera poi nella piazza, la caratteristica importante dell’architettura qui costruita: gli edifici, fuori, e le pareti inclinate, dentro, danno un limite spaziale entro il quale concentrare le complessità cittadine e ritrovare uno spirito quasi teatrale nelle vicende che qui avvengono.
La collezione, allora, pare in realtà uno stratagemma per portare l’urbanità interna verso gli spazi esterni, ricordando che una città non è solo il luogo del transito veloce, della corsa dal punto A al punto B, ma anche un ambiente che ospita lentezza, incontri inaspettati, soste pigre, sguardi incrociati, come avviene, appunto, nel museo costaricense.

Qualche foto in più.

Con affetto
Diego Terna

G.O.O. #5

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