America

Io sono Kamala: l’importanza della vicepresidenza Harris

12 Agosto 2020

Si chiama Kamala Devi Harris la 55enne di Oakland che Joe Biden ha scelto come candidata alla vicepresidenza in caso sia lui, a novembre – COVID permettendo – a diventare il 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. La scelta di Harris, ultimamente la favorita al ruolo, potrebbe rivelarsi pivotale nella corsa alla Casa Bianca.

Chi è Kamala Harris

Quello di Kamala Harris è il ritratto di una donna forte, orgogliosa e agguerrita. Figlia di un giamaicano – l’economista di Stanford Donald Harris – e di una indo-americana – la ricercatrice e attivista tamil Shyamala Gopalan, deceduta nel 2009 – la candidata vicepresidente si laurea all’Hastings College di San Francisco e nella città muove i suoi primi passi da procuratrice. Fino al 1998 è la vice del procuratore distrettuale della contea di Alameda e nel 2003 diventa D.A., district attorney (procuratore distrettuale) di San Francisco e resta in carica fino al 2011, a seguito anche della rielezione del 2007.

Deve abbandonare la baia dov’è nata, vive e lavora a seguito della prestigiosa nomina a procuratore generale della California, carica che riveste per due mandati. nel 2016 entra in politica e lo fa dalla porta principale, sbaragliando la concorrenza e travolgendo la sua sfidante Loretta Sanchez (Harris si guadagnerà più del 62% delle preferenze, dopo aver stravinto anche al primo turno). Occorre tener presente che, nel 2016, per la prima volta nella storia, alle senatoriali californiane non si presentò alcun candidato repubblicano.

La California, Stato molto popoloso, è rappresentata a Washington da due senatori. Al fianco di Kamala Harris c’è Dianne Feinstein, in carica dal 1992, anche lei proveniente dalla Bay Area e nota per essere stata la prima donna sindaca di San Francisco.

Kamala Harris mask
Kamala Harris al Senato USA, giugno 2020. Foto di Michael Reynolds per ANSA

Le primarie 2020

Nel gennaio 2019 Harris è tra le prime figure ad annunciare la sua candidatura alle primarie democratiche, in vista delle presidenziali 2020. In neanche 24 ore raccoglie la sbalorditiva cifra di 1,5 milioni di dollari in donazioni da parte dei suoi supporters – com’è noto, la chiave per riuscire ad aprire la porta che conduce alla nomination presidenziale, negli USA, è il denaro – polverizzando il record stabilito 4 anni prima da un altro peso massimo dem, Bernie Sanders. All’evento di lancio della sua candidatura, il 27 gennaio 2019, Harris radunò più di 20mila persone in Frank Ogawa Plaza, a Oakland. Per buona parte del 2019, Kamala Harris era quotata come una dei candidati più forti in campo democratico.

Non è però tutto ora quel che luccica. Nel giro di un anno, Harris commette troppi errori: donazioni pubbliche da sogno diventano incubi; il suo programma viene attaccato e talvolta scopiazzato da candidati più navigati; il suo staff non può più sostenere le spese necessarie a mantenere l’ingranaggio della candidatura ben oliato; pur mostrando a ogni apparizione grinta e passione, la procuratrice precipita nei sondaggi di gradimento. Dopo essersi consultata con i suoi e, probabilmente, con la sorella Maya che lavora come analista politica, Kamala Harris si ritira dalla corsa delle primarie. È il 3 dicembre dello scorso anno.

L’endorsement a Biden e la campagna da candidata vicepresidente

Lo scorso marzo, Harris ha appoggiato la candidatura di Joe Biden a Presidente USA. A seguito del suo trionfo nelle primarie contro Bernie Sanders, l’ex secondo di Barack Obama espresse l’intenzione di correre verso le elezioni affiancato da una donna in veste di vicepresidente. L’11 agosto, al termine di una riflessione forse troppo lunga, Biden ha sciolto la riserva e ufficializzato la candidatura di Kamala Harris come sua vicepresidente.

Kamala Harris Joe Biden
Kamala Harris e Joe Biden. Foto: Il Sole 24 Ore

Una strana coppia

La domanda può sembrare scontata: un partito progressista come vorrebbe essere quello democratico americano non può certo lasciarsi scappare l’occasione di mettere in vetrina una donna forte e ammirata, per giunta di colore. In tempi di nuovo femminismo – mi perdoneranno il termine le vere femministe alla lettura, è solo per essere comprensibile a chiunque – e di Black Lives Matter, Kamala Harris appare come un cavallo vincente, anche già solo vedendola in foto. C’è però di più.

In uno dei tanti ritratti di Harris che vengono diffusi, nelle stesse ore in cui compongo questo articolo, si ricorda la schermaglia che coinvolse Biden e Harris l’anno scorso, durante un confronto in tv. La senatrice della California, diretta come impongono le regole dei dibattiti televisivi tra consanguinei (membri dello stesso partito) che mietono abitualmente ascolti negli USA, si scagliò contro il candidato presidente ricordandogli come durante gli anni ’70 egli si oppose con nettezza al progetto federale di desegregation busing

Il progetto si riproponeva di ridurre la segregazione razziale tramite l’istituzione di linee di trasporto pubblico locale capaci di accompagnare a scuola tutti gli studenti, senza alcuna distinzione, e che attraversassero puntualmente anche quei quartieri abitati soltanto da minoranze.  Chi si chieda che cosa ci facesse Biden in politica negli anni ’70 deve tenere a mente che parliamo di un uomo che ha trascorso gran parte dei suoi 78 anni nei palazzi del potere, di un politico di professione, di un candidato per sempre a questa o quell’altra posizione.

Durante lo scambio, con Bernie Sanders a fare da barriera fisica tra i due date le posizioni estratte a sorte, Harris raccontò di una bimba di colore costretta a recarsi a scuola su un autobus i cui passeggeri erano soprattutto bianchi, per raggiungere una scuola frequentata soprattutto da bianchi, subendo talvolta angherie durante il viaggio, anche nella progressiva California. “That little girl was me” disse un’emozionata Harris a Biden: quella bimba ero io. Alla frecciata della senatrice il vicepresidente rispose composto dicendo che lui è stato avvocato difensore d’ufficio mentre lei è pubblico ministero, dunque non sarebbe stato ben disposto a tollerare chi lo definiva alleato dei privilegiati. Piovvero applausi e lo scambio a tutto fece pensare tranne che allo sviluppo più recente delle rispettive carriere politiche.

In quella campagna per le primarie precedente al COVID-19 Kamala Harris rappresentava colei la quale poteva unire l’elettorato frastagliato che fece trionfare Obama: giovani, minoranze e progressisti i. quali ben poco hanno da spartire con un museo della vecchia politica come Joe Biden, la cui forza risiedeva all’epoca soprattutto nel nome e nell’essere stato il secondo del primo – e unico, ad oggi – Presidente di colore. Harris era diretta, efficace, instancabile, arguta e tenace nei dibattiti; Biden, invece, sembrava affaticato, facile bersaglio dell’ala più progressista dei democratici, quella di Sanders e di Elizabeth Warren; quella di Alexandria Ocasio – Cortez e chi altro flirti con il socialismo, demonizzando il classismo elitario e le ricchezze faraoniche dai potenti altoparlanti dei social.

Poi fu sera e fu mattina e ora Biden ha vinto, con merito, le primarie, guadagnandosi la nomination democratica. La pessima gestione della pandemia da parte di Donald Trump, poi, potrebbe avergli servito una mano trionfale in vista di novembre. In questo quadro, ha deciso di farsi dipingere con accanto Kamala Harris.

Perché lei?

Quella di Kamala Harris candidata vicepresidente è una storia di prime volte. Non solo si tratta della prima donna nera e prima membra della comunità asiatica americana a concorrere per il ruolo; è anche una novità il fatto che i democratici presentino una candidata occidentale, ovvero originaria di uno Stato situato a ovest delle Rocky Mountains, la dorsale montana che divide gli USA continentali e atlantici dalle comunità sul Pacifico. Tra i candidati alle presidenziali di entrambi i partiti, nel ruolo di candidato presidente o vice, solo tre donne hanno preceduto Harris: Geraldine Ferraro, Sarah Palin e Hillary Clinton. È andata piuttosto male a tutte: hanno raccolto solo sconfitte.

Kamala Harris Flag
Kamala Harris di fronte ad una bandiera americana. Foto: La voce di New York

Dal momento in cui Biden ha affermato di voler correre con una donna come vice, Harris è parsa da subito la più adatta. Elizabeth Warren, oltre ad essere vicina anagraficamente a Biden, dunque lontana dall’elettorato giovane che può fare la differenza per i democratici, avrebbe lasciato scoperto il posto da governatrice del Massachusetts; Stato repubblicano che l’avrebbe dunque sostituita con un rappresentante della propria compagine. Un rischio troppo grosso per il partito. Stacey Abrams, beniamina dei progressisti di colore, non ha troppa esperienza nei piani alti della politica, in quanto è una deputata. Karen Bass, altra eroina afroamericana in quanto direttrice dei caucus congressuali delle persone di colore, è una ammiratrice di Fidel Castro e, dunque, sarebbe stata facilmente attaccabile –  numeri alla mano, inoltre, sarebbe stata distrutta in Florida, soprattutto nella sua capitale morale, la popolosa Miami, dove Castro è il diavolo per la vastissima comunità ispanica locale. Si è tenuta in considerazione anche Susan Rice, ex collaboratrice di Obama come Biden – era la sua consulente per la sicurezza nazionale – ma troppi addetti ai lavori avevano dimostrato, a più riprese, di non stimarla affatto.

Kamala Harris, dal canto suo, si è pressoché suicidata alle primarie, è vero. La sua campagna è stata pessima, forse migliore solo di quella di Mike Bloomberg, il quale troverà presto posto nei libri di scienze politiche come l’icona di quello che non va fatto in una campagna elettorale. Harris è cresciuta troppo e lo ha fatto troppo in fretta, fagocitando parte della sua base; ha speso soldi che non aveva ed è stata costretta a ritirarsi quando era ancora sulla cresta dell’onda, senza neppure averci fatto capire se fosse una centrista conservatrice o una progressista decisa ad allontanarsi dall’establishment. Ciononostante, è una politica dal talento cristallino e dal carisma indiscutibile. Ha sempre vinto ogni elezione cui ha preso parte e lo ha fatto in scioltezza, non si è fermata a rilassarsi neppure un secondo dopo il passo indietro dalle primarie, tornando in Senato a scrivere il Justice in policing act, la riforma delle autorizzazioni all’utilizzo della forza da parte della polizia americana.

Il suo ruolo di pubblico ministero l’ha resa spesso invisa alla sinistra, eppure Harris si è dimostrata mossa da valori progressisti nella stesura dell’atto, guadagnando punti e dunque, probabilmente, voti. Il suo stile però non ha nulla a che spartire con quello progressista: non è una donna battagliera e inferocita come Elizabeth Warren, non parla di rivoluzione come Bernie Sanders, non è neppure figlia di un’ideologia democratica novecentesca partorita da salotti interessati a tutelare lo status quo, come Hillary Clinton. Kamala Harris e la sua politica pragmatica del do ut des possono piacere a molti, anche ai giovani e agli elettori non bianchi da cui Biden vuole fare trainare la carrozza verso il Campidoglio.  Se ciò non bastasse, Harris ha la grinta che serve ad un vicepresidente, ruolo più lontano dal cuore delle istituzioni rispetto a quello del Presidente e, dunque, tradizionalmente rivestito di una funzione aggressiva e più battagliera durante la campagna elettorale.

I vantaggi non sono però certo soltanto per Joe Biden. Kamala Harris può soddisfare la sua ambizione e, in caso di successo, sarebbe probabilmente la candidata in pectore per il dopo Biden, magari anche dopo un solo mandato. Teniamo infatti presente che nel 2024, Biden avrà 82 anni e sarebbe reduce da 4 anni passati a svolgere uno dei lavori più difficili del mondo, in caso di vittoria a novembre.

Kamala Harris rally Detroit
Kamala Harris a Detroit, a marzo, nel discorso di endorsement a Joe Biden. Foto: AGI

La mossa di Biden pare azzeccata e la sua candidatura ora sembra più forte. Non facciamo però i conti senza l’avaro oste: Donald Trump. I sondaggi sfavoriscono il presidente, per ora, ma ci attende un caldo autunno di campagna elettorale. Dopotutto, anche nel 2016 The Donald era sfavorito.

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