Perché Kamala Harris potrebbe vincere
Quando a luglio il presidente statunitense Joe Biden fece un passo indietro, e l’attenzione del mondo si rivolse alla vicepresidente Kamala Harris, esultai. Non perché fossi un estimatore della Harris (troppo centrista per i miei gusti, e con alle spalle una carriera caratterizzata – oltre che da intelligenza politica – da un forte opportunismo politico) ma perché con il ritiro di Biden e la “discesa in campo” della Harris la probabilità di una sconfitta alle presidenziali di Donald Trump cresceva notevolmente. In un rapido scambio con una politologa italiana arrivavo a scrivere, il 21 luglio: “Kamala ha buone doti oratorie, galvanizzerà le donne (nere, asiatiche, ispaniche) e se sceglie un candidato moderato bianco di qualche stato-chiave credo ce la possa fare”.
Se fossi statunitense voterei la Harris turandomi il naso, ma senza pensarci due volte. Perché il suo avversario è lo spregiudicato demagogo che il 6 gennaio 2020 guardava in TV l’assalto al Campidoglio, e che ha condotto il Partito Repubblicano su posizioni di estrema destra, da democratura. Negli Stati Uniti c’è chi continua a ripetere che «il partito di Reagan non esiste più»: io penso invece che con Reagan i repubblicani entravano in una fase di radicalizzazione e declino morale che nessun leader con un po’ di spina dorsale è più riuscito a fermare (inclusi McCain e Romney, entrambi sconfitti da Obama rispettivamente alle presidenziali del 2008 e del 2012 – ma chissà cosa sarebbe successo se uno dei due fosse riuscito a sconfiggere il leader democratico).
Presto (forse) sapremo se la Harris riuscirà a diventare la prima donna a diventare presidente degli Stati Uniti. Anche se il ritorno di Trump alla Casa Bianca rimane possibile, ritengo che sia più probabile una vittoria della candidata democratica. Persino una grande vittoria. Nelle prossime righe cercherò di esporre succintamente le ragioni di questa mia convinzione, che purtroppo non è frutto di un’analisi approfondita ma di una ricognizione di indizi e segnali qua e là.
Prima di tutto, si considerino gli errori comunicativi di Trump, del suo vice J. D. Vance e dello staff dei due candidati. Non mi riferisco solo all’infame battuta su Puerto Rico «isola di spazzatura», ma ai discorsi sempre più virulenti e aggressivi dei due leader repubblicani. Parole inaudite, che hanno spaventato i repubblicani più moderati. Si tratta di una minoranza, ovviamente, ma di una minoranza reale.
Negli ultimi anni, segnati dai successi del populismo di estrema destra, i sondaggisti hanno fallito anche perché una parte dell’elettorato, in Europa come nel resto dell’Occidente, si vergognava a dichiarare la sua predilezione per Le Pen, Trump o Santiago Abascal. Oggi il fenomeno è meno accentuato. Chi vota Trump, Le Pen o Abascal lo ammette spesso senza remore, dato che ormai sostenere l’estrema destra populista non è più un tabù. E in un Partito Repubblicano sempre più dominato dai trumpiani accade casomai il contrario: repubblicani moderati che silenziosamente si schierano con la candidata democratica, che non fa certo discorsi incendiari (benché la propaganda repubblicana si ostini a bollarla come una comunista). Sembra che questo stia accadendo in Iowa, e forse anche in altri stati del Midwest, ad esempio in Ohio, dove Trump potrebbe sì vincere, ma con uno scarto inferiore rispetto al passato.
Il ticket repubblicano desta le preoccupazioni, in particolare, di molte statunitensi. I discorsi maschilisti di Trump e Vance, la paura che i diritti riproduttivi vengano messi ancora più a repentaglio, i recenti scoop sui rapporti tra Trump ed Epstein ecc. non hanno certo giovato alla causa repubblicana tra le donne. E negli Stati Uniti (così come in altri paesi occidentali) le donne sono elettrici più assidue degli uomini. Ancora, la già citata battuta su Puerto Rico ha allontanato da Trump le simpatie di molti portoricani, che sono un’importante minoranza non solo in Pennsylvania (uno dei battleground states), ma in Florida, New York, New Jersey ecc. Ed è probabile che ci sia un impatto sul voto ispanico in generale.
Inoltre Trump, a causa della sua smaccata posizione filorussa, rischia di non ottenere il sostegno di molti statunitensi discendenti di immigrati dall’Europa centrale e orientale. In Pennsylvania e in certi stati del profondo Midwest, ad esempio, i cittadini di origine ucraina, ceca o polacca abbondano, e negli ultimi mesi le visite di politici e funzionari da paesi come la Polonia e la Lituania hanno certo ricordato a quel tipo di elettorato quale sia la posta in gioco in Ucraina.
Probabilmente la Harris non ha una particolare presa su vari segmenti dell’elettorato maschile. Non ha il carisma di Michelle Obama, e non è una veterana dell’alta politica come Hillary R. Clinton. Ma forse questa sua debolezza, nella politica e nella società statunitensi di oggi, è un punto di forza. I colonnelli del Partito Democratico (una forza politica tendenzialmente assai meno coesa del Partito Repubblicano) non temono una sua vittoria, e quindi stanno realmente dando da fare per sostenerla. In una fase di anti-politica (Trump non a caso si definisce «una star», non un politico), troppa familiarità con Washington e i suoi riti fa più male che bene, come ha imparato nel 2016 la Clinton, che in Italia sarebbe stata definita “una professionista della politica”. E non avere un eccesso di carisma può rassicurare chi al potere non vuole un miliardario umorale incline al bonapartismo, ma una persona seria ed emotivamente stabile, incline al pragmatismo. Senz’altro per l’elettrice media è più facile identificarsi nella Harris che nella Clinton o nella Obama, due donne che – secondo molti – devono una parte del loro successo all’essere “mogli di”.
Astutamente la Harris ha cercato di auto-rappresentarsi come una costruttrice di ponti, una centrista pronta a dialogare con i repubblicani più ragionevoli, e persino ad accoglierli nel suo cabinet. Dall’altra parte i toni esasperati di Trump e Vance, la loro fascinazione per il Project 2025, i dubbi dei militari verso l’approccio trumpiano alla geopolitica potrebbero aver generato sensazioni sgradevoli negli elementi più avvertiti del Partito Repubblicano. Sensazioni di sconfitta e caos. Non a caso negli ultimi due mesi, seguendo account e media locali, ho notato un graduale sfaldamento del fronte repubblicano, meno monolitico di quanto non fosse mesi fa. Sfaldamento non soltanto a livello nazionale (ex uomini apicali del Partito Repubblicano critici o persino ostili verso Trump), ma anche e soprattutto a livello statale e locale. La freddezza di un certo numero di cacicchi repubblicani verso il ticket presidenziale potrebbe contribuire a spiegare la scarsa partecipazione popolare ad alcuni raduni trumpiani.
Certo, l’alto costo della vita, e i crescenti divari socioeconomici, non favoriscono la vittoria della Harris. Ma l’economia statunitense nel complesso va bene, e la disoccupazione è bassa. Infine, la polarizzazione generata dalla campagna di Trump sta stimolando la partecipazione al voto: più statunitensi votano, più aumentano per la Harris le probabilità di approdare alla Casa Bianca. Ecco perché penso che la candidata democratica potrebbe avere performance migliori delle attese. Magari vincendo persino in qualche stato storicamente repubblicano. Non è detto che faccia meglio di Biden nel 2020 in termini numerici, ma non è da escludere. Peraltro una vittoria netta della Harris sarebbe cruciale per la stabilità politica degli Stati Uniti, considerando che Trump ha già iniziato a denunciare brogli e irregolarità. Un’esile vittoria della vicepresidente potrebbe scatenare sommosse e violenze da parte di gruppi di estrema destra pro-Trump.
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