America

Un incubo chiamato impeachment

3 Aprile 2017

I venti burrascosi del Russiagate scuotono la vita politica americana. Secondo i vertici dell’intelligence, Vladimir Putin avrebbe personalmente ordinato un’interferenza nelle ultime elezioni presidenziali statunitensi, favorendo la vittoria del candidato repubblicano, Donald Trump. Nella fattispecie, il Director National Intelligence e il Dipartimento dell’Interno hanno affermato che il Cremlino avrebbe hackerato non soltanto i file del comitato direttivo del Partito Democratico ma anche l’account personale di John Podesta, il capo dello staff elettorale di Hillary Clinton. Secondo l’accusa, la Russia avrebbe fornito poi questi materiali a WikiLeaks, con l’obbiettivo di screditare il più possibile la candidatura dell’ex first lady. In tal senso, stando ai vertici dell’intelligence, il Cremlino si sarebbe particolarmente adoperato per diffondere notizie fasulle, con l’unico scopo di manipolare il voto dei cittadini americani. Ma l’accusa non si ferma a questo. Un altro filone dell’inchiesta riguarda infatti i contatti che alcune figure molto vicine a Trump avrebbero intrattenuto con le alte sfere del Cremlino: da Paul Manafort al generale Michael Flynn.

E proprio il caso di Flynn rischia di rivelarsi sempre più spinoso per il neo presidente. Nominato National Security Advisor, è sempre stato tra i maggiori sostenitori del disgelo con Mosca all’interno della nuova amministrazione. Tuttavia, un mese fa, è stato costretto alle dimissioni: il generale avrebbe infatti tenuto una serie di colloqui segreti con l’ambasciatore russo su tematiche politicamente assai sensibili. Colloqui di cui non sarebbero stati informati né il neo presidente né il vicepresidente, Mike Pence. Ragion per cui, lo stesso Trump ha optato per il siluramento del proprio fedelissimo. Un modo per placare l’emergere di nuove polemiche? Può darsi. Ma il caso è tornato presto a galla: qualche giorno fa, Flynn ha chiesto infatti di essere ascoltato dalla Commissione Intelligence al Senato, dietro l’assicurazione di immunità. Una richiesta che – prevedibilmente – ha creato non poco imbarazzo nello Studio Ovale. Tanto che il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, si è visto costretto a dichiarare che il presidente approverebbe la richiesta del suo ex consigliere. Per ora la commissione, soprattutto nelle sue componenti democratiche, non sembra troppo intenzionata ad accettare la proposta di Flynn. Bisognerà adesso vedere che cosa accadrà e – soprattutto – se eventuali nuove rivelazioni possano produrre ulteriori grattacapi per il magnate.

In tutte queste accuse, il caos non è poco. Trump derubrica tutto a una battaglia illecitamente condotta ai suoi danni. In particolare, secondo il presidente, sarebbe in atto un tentativo per ribaltare il risultato elettorale novembrino. Più in generale, i suoi sostenitori dichiarano che le accuse dell’intelligence non starebbero in piedi, presentando svariate lacune. Inoltre, alcuni fanno notare che la dicotomia –  spesso enfatizzata –tra un Trump filo-russo e una Hillary anti-Putin dovrebbe quantomeno essere ridimensionata: lo stesso New York Times raccontò infatti due anni fa di alcuni legami un po’opachi tra Hillary Clinton e Vladimir Putin nel quadriennio 2009-2013 (quando cioè l’ex first lady ricopriva la carica di segretario di Stato).

Se il fronte trumpista appare quindi abbastanza compatto, non altrettanto si può dire del Partito Repubblicano. Qui i posizionamenti sono sfumati e piuttosto articolati. I vertici dell’elefantino hanno teso a mantenere una posizione istituzionale: sia lo Speaker della Camera, Paul Ryan, sia il leader della Maggioranza al Senato, Mitch McConnell, hanno sottolineato la propria fiducia nell’intelligence, manifestando anche preoccupazione per eventuali interferenze russe in seno all’agone politico statunitense. Sulla stessa linea, poi, troviamo svariati senatori repubblicani che hanno sempre visto in Vladimir Putin un autentico pericolo per la democrazia statunitense.

Le conseguenze di questo parapiglia non sono poche né irrilevanti. Guardiamo innanzitutto al fronte geopolitico. Russiagate viene infatti ad inserirsi all’interno di un quadro più ampio: il disgelo perseguito da Trump verso Mosca. Da sempre caposaldo del suo programma elettorale, il miliardario ha cercato di tener duro sulla distensione con la Russia, scegliendosi ministri e collaboratori che potessero aiutarlo in questa direzione. Sia il segretario di Stato, Rex Tillerson, sia – come detto – l’ex National Security Advisor, Flynn, erano particolarmente vicini a Putin. Senza poi dimenticare il ritorno in campo di Henry Kissinger: l’ex segretario di Stato di Nixon che – in questi mesi – ha cercato di mediare tra Washington e il Cremlino. Eppure, il Russiagate sta cambiando molte cose. Innanzitutto, il siluramento di Flynn ha avuto come primo effetto quello di spostare gli equilibri politici dell’amministrazione a favore dell’ala anti-russa: principalmente rappresentata dal segretario alla Difesa, James Mattis. Lo stesso Tillerson, poi, nell’ultimo summit NATO ha criticato apertamente Putin per la sua politica aggressiva in Crimea. Il disgelo con Mosca si sta facendo così sempre più difficile. Anche perché – come accennato – al Senato diversi repubblicani (da John McCain a Marco Rubio) non ne vogliono sapere di un’apertura a Putin, da loro considerato un leader antidemocratico oltreché un pericolo sul fronte della stabilità internazionale.

Ma la geopolitica non è l’unico problema in questo momento. Non sono pochi infatti gli analisti, secondo cui il Russiagate potrebbe aprire a Trump le porte di un impeachment. Fantapolitica? Forse sì. Ma forse anche no. Cerchiamo di analizzare la questione. In base alla Costituzione, il processo di impeachment viene istruito dalla Camera, che formula le accuse. Successivamente, il Senato emette la sentenza, che – se di colpevolezza – comporta la destituzione e l’interdizione dai pubblici uffici.  Ad oggi, nella Storia americana ci sono stati due casi di impeachment presidenziale. Il primo risale al 1868 e riguarda Andrew Johnson: democratico, era divenuto presidente nel 1865, alla morte di Abraham Lincoln (di cui era vice). Ritrovatosi solo con un Congresso in mano ai repubblicani radicali, fu sottoposto a procedimento di impeachment con l’accusa di abuso di potere: si salvò in Senato per il rotto della cuffia. Il secondo caso è del 1998, quando Bill Clinton fu accusato di aver mentito in relazione allo scandalo Lewinsky: anche in questo caso, entrambe le camere erano in mano ai repubblicani. E anche in questo caso il presidente si salvò al Senato. Differente è invece la questione di Richard Nixon, che – accusato a causa dello scandalo Watergate –  si dimise dalla carica presidenziale nel 1974 prima che la Camera si pronunciasse: quindi prima che il procedimento di impeachment fosse formalmente avviato.

Alla luce di tutto questo, è plausibile un impeachment contro Trump? Difficile dirlo. Da una parte, sarebbe molto strano che un Congresso repubblicano metta in stato d’accusa un presidente appartenente al suo stesso partito. Dall’altra, non dimentichiamo che Trump non sia mai stato digerito granché dall’establishment dell’elefantino e che – in gergo – possa essere a pieno titolo definito un “maverick”: un politico eterodosso e non completamente in linea con i valori del partito che teoricamente dovrebbe rappresentare. Inoltre, ricordiamo che la maggioranza repubblicana al Senato risulti particolarmente risicata (52 seggi a 48). Ragion per cui, basterebbero poche defezioni repubblicane per mettere nei guai il presidente. Bisognerà adesso vedere se l’inchiesta sarà destinata ad estendersi e – soprattutto – se riuscirà a dimostrare coinvolgimenti diretti da parte di Trump nella vicenda. Nel qual caso – come ai tempi del Watergate – la situazione potrebbe farsi rovente. Certo, è ancora presto per fare previsioni. Ma il futuro appare nebuloso. E la domanda alla fine resta una soltanto: Trump sarà capace di reagire?

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