America
Le elezioni restano in salita per i Democratici e Kamala Harris
Il “passaggio della torcia” dal 46mo Presidente Joe Biden a Kamala Harris sicuramente ha riaperto i giochi della corsa alla Casa Bianca.
Una partita sicuramente chiusa è in poco tempo tornata una partita aperta.
La Convention Democratica di Chicago, prima e, lo scorso 10 settembre il primo (sarà l’unico?) confronto televisivo tra i due candidati ha acceso entusiasmi.
Come anche su “Gli Stati Generali” è stato osservato, il confronto televisivo ha visto il 45mo Presidente in difficoltà, incalzato anche dal fact-checking dei moderatori e la candidata DEM ha sicuramente prevalso.
Gli endorsement che sono seguiti al dibattito hanno trasmesso un’impressione diffusa di crescita dei consensi in favore di Kamala Harris.
Qualcuno si è spinto a calcolare quanti voti in più vale il sostegno esplicito di Taylor Swift.
Entusiasmi capaci di generare mobilitazione nei volontari e sostenitori DEM e aumentare le registrazioni alle liste elettorali.
Che tutto questo basti a cambiare gli esiti elettorali è, però, tutto da dimostrare.
Se si guarda ai sondaggi che contano davvero – quelli per i seggi senatoriali e soprattutto quelli per la conquista dei Grandi Elettori deputati ad eleggere il Presidente – le cose non stanno benissimo per Kamala Harris e i Democratici.
Una prima considerazione, intanto.
Il Senato sarà sicuramente a maggioranza Repubblicana.
I candidati GOP conserveranno tutti gli 11 seggi detenuti che saranno oggetto di competizione elettorale il prossimo novembre. Nessun problema di rinnovo per i 9 Senatori Repubblicani uscenti che si sono candidati per un nuovo sessennio a Capitol Hill
Sen. Rick Scott (Florida), Sen. Josh Havley (Missouri, 2018), Sen. Kevin Cramer (North Dakota) e Sen. Marsha Blackburn (Tennessee) saranno sicuramente confermati per il loro secondo mandato, così come Sen. Deb Fisher (Nebraska) e Sen. Ted Cruz (Texas) per il terzo mandato e
Sen. Roger Wicker (Mississippi) e Sen. John Barrasso (Wyoming) per il loro quarto mandato.
Sen Pete Ricketts (Nebraska), nominato provvisoriamente nel 2023 dal Governatore dello Stato a ricoprire il seggio lasciato vacante dalle dimissioni di Sen. Ben Sasse (che ha deciso di lasciare la politica attiva per diventare il Presidente dell’Università della Florida), non avrà problemi a vincere la “special election” per il secondo seggio senatoriale del Nebraska la cui scadenza ordinaria è fissata per il 2026.
Nessun problema di elezione nemmeno per i due nuovi candidati al seggio senatoriale.
Rep. Jim Banks andrà ad occupare il seggio dell’Indiana che nel 2018 era stato conquistato da Sen. Mike Braun, che a novembre concorrerà (con la sicurezza della vittoria) alla carica di Governatore dello Stato e Rep. John Curtis andrà a ricoprire il seggio dello Utah conquistato nel 2018 da Sen. Mitt Romney (lo sfidante del 44mo Presidente Barack Obama nelle presidenziali del 2012).
Se il cambio di rappresentante nello Utah non modifica il profilo politico del Senato in quanto il nuovo candidato ha un profilo sicuramente centrista e moderato allineato a quello di Sen. Mitt Romney, va detto che le sostituzioni dei senatori GOP spostano ancora di più a destra il profilo della rappresentanza politica.
Prosegue, insomma, l’operazione politica con cui il GOP si trasforma sempre di più nel MAGA-GOP, grazie all’acquisizione di ruoli e peso di esponenti politici espressamente allineati alle posizioni del 45mo Presidente Donald Trump, selezionati con il suo esplicito consenso e da questi direttamente sostenuti.
Per dare con un’immagine l’idea di come avanzi questo processo di “trumpizzazione del GOP” basti pensare che, come appena detto, entrerà in Senato Rep. Jim Banks che nel 2020 ha sottoscritto il documento inviato alla Corte Suprema per contestare la validità delle elezioni presidenziali e di contro uscirà Sen. Mitt Romney, uno dei sette Senatori GOP che hanno votato contro Donald Trump nel procedimento per i fatti del 6 gennaio 2021 (dei sette che fecero quella scelta, rimarranno in Senato solo Sen. Susan Collins (Maine, 1996), Sen. Bill Cassidy (Louisiana, 2014) in scadenza nel 2026 e Sen Lisa Murkowski (Alaska, 2002) in scadenza nel 2028).
Il GOP, quindi, non avrà alcun problema a confermare i 49 seggi attualmente ricoperti.
Diversa la situazione per i seggi DEM. Con ben otto seggi a rischio di riconferma.
In precedenza, avevo evidenziato una situazione con cinque sfide in cui il candidato DEM è in vantaggio nei sondaggi e tre sfide dall’esito decisamente più problematico.
L’evoluzione dei sondaggi dell’ultimo mese porta ad attribuire sicuramente ai candidati GOP due seggi senatoriali detenuti dai DEM: Montana e West Virginia.
Nelle altre “sfide aperte” i candidati DEM sembrano tutti mantenere una posizione di vantaggio ma i due “flip State” indicati assicurano al GOP il controllo del Senato, indipendentemente dall’esito dell’elezione presidenziale: nella migliore delle ipotesi per i DEM il nuovo Senato vedrà al massimo 49 seggi ai DEM e almeno 51 seggi sicuri al GOP.
Due sole note aggiuntive rispetto ai due seggi che sono destinati a cambiare bandiera.
In West Virginia la partita è talmente chiusa che nessuno fa più nemmeno sondaggi. Il vantaggio del Governatore in carica il repubblicano Jim Justice è netto. Il seggio era stato conquistato nel 2012 e confermato nel 2018 da Sen. John Manchin, un politico dal chiaro orientamento centrista e dal forte radicamento territoriale. Il suo ritiro e la candidatura del Governatore Jim Justice si riveleranno decisivi per l’esito della competizione.
Jim Justice è un personaggio particolare. Uomo d’affari che ha ereditato dal padre un impero commerciale che ha non ha saputo mantenere nel tempo si è candidato, dopo aver bruciato gran parte del suo patrimonio, nel 2016 alla carica di Governatore come Democratico, nonostante fosse sempre stato registrato in precedenza come elettore repubblicano.
Pochi mesi dopo l’insediamento come Governatore nel 2016 ha annunciato il suo ritorno al GOP e la sua adesione alla piattaforma di Donald Trump alla cui campagna ha fatto donazioni significative e nel 2020 è stato rieletto Governatore come esponente di quel partito, ottenendo oltre il 63% dei consensi.
Senza Sen. John Manchin in campo i DEM non hanno alcuna speranza di fermare la sua corsa a Capitol Hill.
L’altro seggio senatoriale che sicuramente passerà dai DEM al GOP è quello del Montana.
Qui le cose sono un po’ diverse. Il Montana è uno stato dal solido orientamento GOP.
Donald Trump ha vinto nettamente sia nel 2016 che nel 2020 e i sondaggi lo danno nettamente in testa anche nelle elezioni di novembre.
Sen. John Tester, dopo aver conquistato il seggio nel 2006 per soli 3mila voti lo ha difeso sia nel 2012 che nel 2018.
Sia nel 2006 che nel 2012 il margine di voti sul candidato GOP è sempre stato inferiore ai voti raccolti dal terzo candidato espressione del conservatore partito Libertario (terzo partito americano).
Moderato, si è spesso distinto per il suo voto in aula difforme da quello dei DEM in particolare in materia di armi, diritti dei migranti, ambiente mentre ha sempre sostenuto sia le politiche sanitarie pubbliche del c.d. “Obamacare” e in materia di aborto. Si è spesso scontrato con la leadership DEM in Senato (Sen. Chuck Summer, New York, 2000) e con gli esponenti più di sinistra del partito come la Sen. Elisabeth Warren (Massachussets, 2012) in particolare sulla legislazione economica e bancaria.
Per tornare a Capitol Hill deve conquistare il voto di cittadini che alle presidenziali voteranno sicuramente per Donald Trump. È davvero improbabile che ci riesca, battendo il candidato voluto da Donald Trump, l’uomo d’affari, Tim Sheehy, nonostante sulla base dei report ufficiali la sua campagna abbia a disposizione (dati al 30 giugno) quasi 11 milioni di dollari contro i poco più di 3 del suo rivale.
Ma veniamo alla corsa che più interessa. Quella per il nuovo inquilino della Casa Bianca.
Come avevo anticipato l’impatto di Kamala Harris, gli entusiasmi e gli endorsement non hanno assolutamente modificato l’esito atteso nella stragrande maggioranza degli Stati.
Cambiano le percentuali di voto che i sondaggi stimano ma non l’orientamento complessivo degli Stati.
Il conteggio dei Grandi Elettori “sicuri” resta quello che avevo anticipato: GOP 219 – DEM 209.
Ma vediamo cosa si sta delineando negli stati i cui esiti sono più incerti.
I sondaggi indicano come decisamente molto probabile la vittoria di Kamala Harris in New Hampshire (4) e in Virginia (13). Percentuali non ancora tali da considerare la corsa sicuramente chiusa, ma con ogni probabilità i grandi elettori di quegli Stati saranno DEM: si arriva così a 226 Grandi Elettori.
Per arrivare alla Casa Bianca ne mancano 54 e gli Stati nei quali le elezioni sono ancora “in gioco” sono: Arizona (11), Georgia (16), Michigan (15), Nevada (6), North Carolina (16), Pennsylvania (19) e Wisconsin (10)
I sondaggi continuano a dare in vantaggio Donald Trump in Arizona e North Carolina. Altri 27 Grandi Elettori che, se effettivamente conquistati, porterebbero il numero totale a ben 246 Grandi Elettori. A Donald Trump a quel punto mancherebbero solo 24 Grandi Elettori.
Con molte combinazioni possibili per riuscirci.
Vediamo le cose dal punto di vista di Kamala Harris, invece.
La strada per la Casa Bianca, per lei, passa inevitabilmente dalla Pennsylvania.
Se non dovesse vincere in quello Stato – e tutti i sondaggi del mese di settembre si chiudono con percentuali a favore di uno o dell’altro inferiori all’1% – la situazione diventerebbe molto complicata con l’obbligo di aggiudicarsi ben 54 Grandi Elettori sui 74 residui.
Viceversa, conquistare la Pennsylvania, potrebbe non bastare a Kamala Harris.
A meno di riuscire a ribaltare le tendenze in essere in Arizona e North Carolina, e oltre a conquistare la Pennsylvania, è indispensabile raggranellare almeno altri 35 Grandi Elettori. Il problema vero per Kamala Harris è che gli Stati in gioco hanno
elettorati sensibili a problematiche molto diverse tra loro e soprattutto una composizione etnica e sociale molto differente. Non sarà facile. Ed è assolutamente certo che ci sono messaggi che funzionano in Michigan e Pennsylvania ma allontanano elettori in Georgia o Nevada e che ciò che attrae la classe media urbanizzata bianca non necessariamente risulta convincente agli ispanici del Nevada o ad altre “minoranze”.
In un prossimo articolo proverò a dire qualcosa di più proprio sulle dinamiche di questi Stati decisivi.
Due parole solo sulla situazione dei fondi a disposizione delle due campagne, sulla base dei rapporti ufficiali pubblicati a fine agosto.
Qui davvero non c’è gara: il fundraising complessivo della campagna di Kamala Harris ha raggiunto i 690 milioni di dollari contro i soli 313 di Donald Trump.
Se si considera il “cash on hands” e cioè il residuo ancora disponibile e spendibile Kamala Harris può contare su ben 235 milioni di dollari contro i 135 del candidato GOP.
Una pioggia di dollari inonderà i 7 Stati decisivi su questo possiamo stare certi.
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