America
Dentro la Marcia delle Donne a Washington D.C.
Il primo dettaglio grazie a cui capisci che sara’ una giornata diversa dalle altre e’ la puzza esagerata di bacon sul pullman, che non e’ un pulman qualsiasi.
Orchard Street, strada piu’ chic dello chicchissimo Lower East Side, da qualche anno centro della scena artistica new yorkese. Qui ogni giorno decine di sogni muoiono o diventano realta’. Da qui parte il pullman di un collettivo di artiste femministe a cui mi sono aggiunto, diretto a Washington D.C. per partecipare alla Marcia delle Donne, con il sogno di svegliarsi tutte insieme e scoprire che a novembre era stato solo un incubo. Non accadra’, ma almeno sara’ la protesta di strada piu’ grossa nella Storia Americana.
In una giornata normale, se una di queste ragazze dovesse invitarvi a cena, il ristorante vegetariano – o vegano – sarebbe una scelta obbligata. Invece oggi, alle 4 di mattina del sabato, non c’e’ nulla di aperto tranne un Dunkin Dunuts – che chiunque sia stato negli USA sa essere non esattamente il regno del salutismo. Le ragazze hanno portato da mangiare, frutta e verdure in quantita’, ma da D.C. arrivano notizie inquietanti:
<<e se la polizia ci intrappola nel pullman?>>
<<e se dobbiamo scappare e nasconderci?>>
Cosi’, spinti dalla necessita’, venti panini grondandi grassi animali salgono a bordo del piu’ liberal dei bus. Avvolti con circospezione in carta per cibi unti, sembrano venti agenti del Mossad impegnati in una missione sotto copertura.
Si parte che fuori e’ ancora buio, e prima di svenire vedo che la procedura di sopravvivenza non e’ ancora terminata. Un gentleman in cardigan e cravatta distribuisce dei contenitori con dentro un liquido giallastro.
<<Anti-gas lacrimogeno. Tutta roba naturale!>>, assicura.
Mi viene un atroce dubbio. Mi viene anche in mente quando, in vecchie trasferte calcistiche di gioventu’, assistevo alla stessa scena, solo che il gentleman di allora non distribuiva liquidi giallastri ma oggetti raccattati in un cantiere e al posto del cardigan indossava magliette con su scritto
“se avanzo seguitemi, se mi uccidono vendicatemi”.
Arrivati a D.C. le notizie sono pessime, ma la polizia non c’entra. Il pullman non puo’ proseguire causa mancanza di permesso extra. La metropolitana e’ al collasso, solo per prendere un biglietto ci vogliono 3 ore di coda. Washington e’ un po’ come Roma: di manifestazioni ne hanno una al giorno. Washington pero’ e’ diversa da Roma, perche’ il traffico e l’ordine pubblico lo sanno gestire meglio di tutti. Se la metro e’ andata in tilt, penso che l’affluenza debba essere davvero straordinaria come si vocifera.
Come scialuppe di salvataggio, gli autisti Uber caricano i passeggeri uno a uno: se l’obiettivo di Trump e’ il rilancio dell’economia, visto quanto hanno lavorato ieri gli autisti, un punto di PIL e’ gia’ stato recuperato senza muovere un dito.
Nel mio gruppetto c’e’ una ragazza Messicana, Jovanna, che si e’ sposata da due settimane.
<<Da quanto eravate fidanzati?>>
<<Sei mesi. Ti diro’, non e’ che volessi sposarmi, ma appena e’ stato eletto Trump abbiamo fissato le nozze>>. Gli effetti collaterali della Storia.
Ma il personaggio piu’ interessante e’ proprio l’autista. Tom, bianco, cinquant’anni avanzati, baffoni grigi, la faccia di chi vuole fare solo il suo lavoro. Peccato che il suo lavoro non sia l’autista, ma l’insegnante elementare. Dalla crisi in poi, mi dice, per campare e’ costretto a fare due lavori.
Ci guardiamo. Silenzio. Un silenzio che ha un sottotesto preciso:
io voto Trump, stronzo! Embe’?
Come dargli torto? Nel XXI secolo il popolo vota un miliardario che non ha paura di esserlo piuttosto che una miliardaria che si sente in colpa per esserlo, e a scandalizzarsi e’ solo Beppe Severgnini.
Tom e Jovanna mi appaiono quindi come l’essenza-madre di tutte le contrapposizioni americane da qui ai prossimi quattro anni. Da un lato gli immigrati, terrorizzati dal linguaggio e dallo stile – perche’ si sa, le parole sono importanti. Dall’altro i lavoratori bianchi, cui del linguaggio importa poco perche’ tanto a loro non tocca e l’unica cosa in causa, da veri Americani, e’ il portafoglio.
Se Trump riuscira’ a rassicurare Jovanna, facendola sentire veramente Americana, per i democratici si aprira’ un esilio destinato a durare almeno vent’anni. Se invece fallira’ nel rigonfiare lo scarno portafoglio di Tom, ecco che la sua Presidenza sara’ ricordata come un buffo baco nel sistema, e poi dimenticata.
Se invece fallira’ sia nell’una che nell’altra cosa, il prossimo Presidente sara’ Hulk Hogan, o il bikini della Kardashian o un pezzo di Antracite a forma di teschio umano rubato da un Museo di Storia Naturale.
Si arriva finalmente su Indepence Ave e il colpo d’occhio e’ impressionante. Sono stato in piazza San Giovanni, al Circo Massimo, in giro per Milano dopo trionfi nazionali ed internazionali: ma una marea di gente simile non l’avevo mai vista. Cosi’ ripenso a Jovanna e Tom, alle loro storie forse banali, sicuramente normali, in grado pero’ di darti le chiavi di lettura necessarie a capire cosa sta succedendo in questo momento in America e di riflesso nel Mondo. A capire perche’ , contro le previsioni di tutti i media, abbia stravinto un candidato improponibile che pero’ all’Inauguration day e’ sostenuto da quattro gatti, fa un discorso che pare un cattivo dei fumetti e il giorno dopo a contestarlo si presentano un milione di persone.
Così mi chiedo perché, sulla grande stampa italiana ed internazionale, invece che lasciare parlare le Jovanna e i Tom d’America si concentri sui patetici tentativi della 60enne Madonna di strappare attenzione, su Michael Moore tutto preso a smarchettare il suo prossimo documentario. La maggior parte del milione di persone scesa in piazza non ha idea ne’ di chi ha parlato, ne’ di cosa e’ stato detto su quel palco, e ancor meno da quelle persone si sente rappresentata. Non sarebbe molto piu’ interessante sentire la loro voce?
La giornata prosegue, camminando senza sosta in quello che ormai non sembra più una città ma il set permanente di House Of Cards: ad ogni angolo si ha la sensazione di essere davvero dentro ad un evento questa sinceramente multiculturale. Se non ci fossero gli iphone sembrerebbe di essersi svegliati in un altro decennio.
Il rosa e’ il colore dominante, ma l’innato senso Americano per lo spettacolo fa si che ognuno ne mostri una sfumatura. Alcune trascurabili – come i patetici tentativi dei maschi di andare in giro con cartelli: “I am a man who respect women”. Viene da urlare: vai su Tinder che fai prima! Altre invece che ti incendiano l’animo di passione, come la signora in bicicletta col cappello da leonessa che dice che ora Trump deve vedersela con lei e ruggisce.
Poi la marcia, come un delta del fiume, si frantuma in mille rivoli e canali, perdendo mordente. Non e’ piu’ neanche una marcia: sembra una racconto di Italo Calvino dove tutto e’ permesso, l’intera citta’ e’ in mano ai pedoni.
A pomeriggio inoltrato scoppia il problema della metropolitana che si blocca in tunnel, per 3 ore, con una capienza tipo linea 2 a Cascina Gobba al lunedi mattina. Svenimenti, panico, urla. Un altro punto di PIL alzato grazie a Uber.
Ripartiamo in ritardo, convinti che – come sempre con la marce, almeno dal 1922 in poi – sostanzialmente non cambiera’ nulla. Ma anche – per una volta – di aver assistito a qualcosa di cui si continuerà a parlare a lungo (cosa che penso mentre noto che i panini al bacon sono finiti, anche se non ci sono state cariche della polizia).
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