Agroalimentare
Storie di donne che lavorano nei campi sfruttate e molestate dai padroni
«Si avvicinava, mi metteva le mani addosso, diceva cose sporche. Io gli chiesi più volte di smetterla, spiegandogli che ero lì solo per lavorare. Una volta lo spinsi via, gridai basta e lui se la prese. Mi disse: da settimana prossima non venire più». Annalisa ha 30 anni, tre figli e da quando è stata lasciata a casa dal suo “padrone” è rimasta disoccupata. Racconta le molestie subite per mesi mentre lavorava alla raccolta dell’uva, nelle campagne in provincia di Bari. «Non ne parlo volentieri. A mio marito non l’ho raccontato, mi vergogno». La sua storia è simile a quella di altre donne, italiane e straniere, che lavorano nell’agricoltura, braccianti e operaie che raccolgono e impacchettano la frutta e la verdura che arrivano sulle nostre tavole, esportate anche all’estero.
Le lavoratrici subiscono discriminazioni, abusi e violenze. Non esistono dati ufficiali del fenomeno, ma testimonianze dirette, analisi dei sindacati e associazioni indicano che è diffuso in diverse regioni. Va ben oltre la zona di Vittoria, in Sicilia, salita agli onori della cronaca tre anni fa, in seguito a un’inchiesta di Antonello Mangano, pubblicata sull’Espresso, e allo studio di Alessandra Sciurba, ricercatrice di Sociologia all’Università di Palermo.
Nella campagna in provincia di Ragusa, coltivata prevalentemente a pomodori, zucchine e melanzane, disseminata di serre, fino a formare un paesaggio di metallo e plastica, dall’odore di fertilizzante, lavorano oltre 5.000 donne originarie della Romania, che subiscono violenze. Nonostante l’interpellanza parlamentare italiana del 2015 e le promesse di intervento del governo rumeno, per loro non è cambiato nulla, come dice anche don Beniamino Sacco, il primo a denunciare, anni fa, “i festini agricoli nelle campagne”, e a impegnarsi per contrastare il fenomeno.
Secondo le braccianti la situazione è peggiorata a causa della crisi, dell’arrivo, con i flussi migratori, di nuova manodopera a basso costo e del “Jobs Act”. Lavorano tra le 10 e le 12 ore al giorno, per 500 o 600 euro al mese, in serre dove tra aprile e ottobre la temperatura raggiunge anche i cinquanta gradi. Non sono arrivate in Italia per prostituirsi, ma si trovano, loro malgrado, a vivere in un sistema che prevede che per ottenere e mantenere il posto debbano accettare uno scambio sessuo-economico. Spiega Emanuele Bellassai, per anni operatore Caritas: «Ribellarsi e denunciare gli abusi alle forze dell’ordine è quasi impossibile: le lavoratrici non vengono facilmente credute e soprattutto non si riescono a raccogliere prove sufficienti per un processo». Inoltre, il pregiudizio “non è violenza perché se la sono cercata” resta diffuso. La situazione di difficoltà è aggravata dal fatto che molte vivono isolate, in magazzini dispersi tra le coltivazioni, senza mezzi di trasporto.
Su 430mila lavoratori vittime di caporalato e sfruttamento, secondo i dati del rapporto della Flai Cgil 2016, il 42% sono donne. In certe zone più del 30% lavora nell’illegalità. Le donne vengono preferite perché sono pagate meno per le stesse mansioni svolte dagli uomini, anche quando si tratta di zappare, e sono ricattabili sessualmente. «Su dieci datori di lavoro della nostra zona, cinque ci provano e pesantemente, di più con le straniere che con le italiane, perché per loro è quasi un diritto, uno ius primae noctis odierno», aggiunge Rosaria Capozzi, responsabile del progetto Aquilone di Foggia.
«La quantità di offerta di manodopera e la mancanza di denunce sono tali che rifiutare le avance significa perdere il posto», nota Maria Viniero, ex bracciante, adesso sindacalista della Flai Cgil di Bari. «Si tratta di situazioni diffuse. Le lavoratrici vengono a raccontarmele, ma poi non vogliono procedere per le vie legali. C’è un regime di terrore: nei magazzini per andare in bagno devi timbrare il tesserino. Se stai più di tre minuti ti fanno il richiamo. Quando ricevi lo stipendio, spesso devi tornare indietro parte dei soldi. Le aziende si approfittano delle situazioni di disagio, delle donne con i mariti disoccupati, separate, delle ragazze madri, che per forza devono lavorare. Mettono le donne una contro l’altra e ribellarsi diventa impossibile».
Deve fare riflettere, a questo riguardo, quanto successo con il processo Dacia, a Taranto. Dopo che nel 2011 le forze dell’ordine hanno scoperto centinaia di donne, di nazionalità rumena, costrette a prostituirsi per lavorare nelle campagne a un salario da fame, sono state arrestati e poi rilasciati 17 caporali. «Noi come sindacato ci siamo costituiti parte civile, ma probabilmente l’inchiesta verrà archiviata perché le testimoni non sono più rintracciabili», racconta Giuseppe De Leonardis, segretario generale della Flai Cgil BAT (Barletta, Andria, Trani).
Alessia e Alexandra, braccianti quarantenni di origine rumena, da dieci anni residenti in provincia di Bari, descrivono una procedura che si ripete, attraverso codici precisi. «La mattina, prima di arrivare nei campi, il padrone si ferma al bar, compra il cornetto e il caffè e li porta in auto, mettendoli vicino al volante. Se tu li prendi, significa che hai accettato la sua offerta e cioè che vuoi andare con lui. Se invece ti compri la colazione da sola, lui capisce che non ci stai e il giorno dopo non ti chiama più. Siccome noi rifiutiamo, non riusciamo mai a lavorare più di qualche giorno di fila».
In Puglia non basta cambiare “padrone” per sfuggire al sistema dello sfruttamento: bisogna fare i conti con i caporali.
Nessuno vuole mettersi contro gli intermediari che reclutano le braccianti nelle diverse aree e che spesso sono proprietari dei pullman che le portano da una provincia all’altra (con viaggi estenuanti prima dell’alba e nel tardo pomeriggio). I caporali controllano le donne nei campi e compiono loro stessi gli abusi. C’è poca fiducia nel cambiamento, nonostante la nuova legge contro il caporalato. «Sappiamo chi fa cosa, chi ricatta, conosciamo le famiglie che si sfasciano perché ci sono donne sposate che restano incinte durante il lavoro, eppure nessuno di noi si ribella perché se perdiamo il posto non ci resta più nulla», dice Davide, 45 anni, bracciante agricolo come la moglie e con una figlia di 18 anni.
Il fenomeno della violenza sul lavoro esiste anche in Calabria, sottolinea la sociologa Alessandra Corrado, curatrice e autrice, con Carlos de Castro e Domenico Perrotta, del libro appena pubblicato da Routledge, Migration and Agriculture: Mobility and Change in the Mediterranean Area (Migrazione e agricoltura: mobilità e cambiamento nell’area mediterranea). «Le donne sono maggiormente ricattabili a causa della difficoltà di accesso al mondo del lavoro. Già diversi anni fa, realizzando le prime ricerche qui in Calabria, ho riscontrato determinate situazioni di discriminazione, violenza fisica, precarietà, anche sul piano della salute. Però spesso c’è la difficoltà di denunciare, la paura dell’isolamento, dell’allontanamento, di esporsi pubblicamente rispetto a determinate questioni. E d’altra parte non c’è la dovuta attenzione da parte delle istituzioni e dei servizi».
Secondo Leonardo Palmisano, sociologo e autore con Yves Sagnet di Ghetto Italia. I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento (Fandango), e di un nuovo libro, appena pubblicato, Mafia Caporale, «il ricatto viene esercitato non solo per il sesso, ma per fare in modo che le lavoratrici non si ribellino, ed è più efficace quando sono sole e quando non sono comunitarie. Riguarda anche regioni come il Lazio, la Lombardia e il Piemonte».
A livello mediatico si pone attenzione sullo sfruttamento della manodopera in agricoltura, declinandolo spesso solo al maschile, senza considerare che in realtà sono le donne a essere più penalizzate proprio per le violenze che subiscono. Non c’è da stupirsene se si considera che in Italia è difficile persino dare un nome a molestie, palpeggiamenti, ricatti, stupri sul lavoro. I testi di analisi, le ricerche quantitative a disposizione, le condanne, sono quasi inesistenti, a differenza di quanto succede nei paesi anglosassoni e del nord Europa, dove da anni si studia e si combatte la violenza sul lavoro (violence in organizations). Secondo l’unica indagine dell’Istat sul tema, risalente al 2010, oltre il 90 per cento di chi subisce violenza sul lavoro non ha mai denunciato. Ancora più che in altri settori, per le braccianti è impossibile raccogliere prove e testimonianze.
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Questa inchiesta, cominciata a marzo 2016, è stata finanziata anche con il supporto del grant americano The Pollination Project e Business and Professional Women Ticino (Svizzera). Il racconto fotografico è arrivato finalista al LuganoPhotoDays Festival 2016 e ha ricevuto menzioni speciali ai premi Moscow International Photo Awards, International Photography Awards, Neutral Density Awards, Photogrvphy Festival, Tokyo International Photo Awards. L’inchiesta continuerà, a livello internazionale, grazie a un crowdfunding realizzato con l’ente tedesco no profit di giornalismo investigativo Correctiv.
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