Sotto il piatto in cui mangiamo: analisi dei sistemi agroalimentari
Secondo una recente analisi condotta dalla FAO, gli impatti dei sistemi agroalimentari globali (154 i Paesi analizzati) sulla salute umana e sull’ambiente valgono quasi 13.000 miliardi di dollari all’anno, equivalenti al 10 percento del PIL mondiale.
I costi principali riguardano le ripercuassioni sulla salute pubblica, e sono associati ai danni provocati dalla cattiva alimentazione, dall’utilizzazione di cibi non sani, ultra-trasformati ed arricchiti di zuccheri, sale e grassi. Una quota consistente (20% circa), ma verosimilmente sottostimata, è relativa ai costi ambientali, dalle emissioni di gas serra, alla erosione dei suoli, dalla dispersione nell’ambiente di sostanze inquinanti, alla perdita di biodiversità.
L’agricoltura ha raggiunto livelli di produttività impensabili solo alcuni decenni addietro, ma tali risultati sono stati ottenuti attraverso la semplificazione dei sistemi colturali, a spese della biodiversità, a tutti i suoi livelli, e l’utilizzazione di massicce dosi di input esterni, alcuni dei quali dannosi per l’ambiente e per la salute dell’uomo. Si è passati da un’agricoltura “solare” in cui gran parte dell’energia utilizzata nel processo produttivo derivava dal sole, dalla fotosintesi, ed era interna all’azienda, ad un’agricoltura “fossile” in cui molti degli input esterni sono stati prodotti con energia di tipo fossile o comunque con un approccio estrattivista.
Non si tratta comunque solo di uno squilibrio nei processi produttivi, che utilizzano molte risorse per sostenere solo una parte della popolazione mondiale, ma anche la progressiva concentrazione del commercio delle derrate agricole, ormai globalizzato, che è in larga parte controllato da una manciata di imprese. Se consideriamo che l’alimentazione umana è sostenuta per il 75% da 4 colture (mais, riso, frumento e soia) e che la parte preponderante del commercio di queste commodities è nelle mani di poche aziende, è facile immaginare quale concentrazione di potere (non solo contrattuale) caratterizzi il settore agroalimentare. Per citate un esempio, il commercio mondiale della soia, fondamentale per gli allevamenti di mezzo mondo, è controllato al 75% da 4 colossi dell’agribusiness: Cargill, Archer Daniels Midland Company, Bunge e Louis Dreyfus.
Se questo accade per i cereali, per la soia ed altre commodities come caffè, cacao, olio di palma, per i prodotti freschi (ortaggi, frutta, latte e derivati, carni, olio, vino), lo strapotere di acquisto è in mano alle industrie di trasformazione e alla Grande Distribuzione Organizzata (GDO) e anche in questo caso si assiste a processi di progressiva concentrazione.
La situazione non cambia, o forse peggiora, per la produzione e commercializzazione dei mezzi tecnici utilizzati dagli agricoltori: sementi, fitofarmaci, fertilizzanti. Syngenta, Bayer, BASF e Corteva, controllano oltre il 60 % del mercato mondiale dei fitofarmaci. Il settore delle sementi segue abbastanza fedelmente le concentrazioni delle aziende dell’agrochimica, anche perché agli stessi colossi fanno capo galassie di produttori di sementi. Nell’Unione Europea le nuove norme adottate per le “nuove tecniche genomiche (Ngt)”, in Italia note come “Tecniche di evoluzione assistita (Tea)”, favoriranno un’ulteriore consolidamento e rafforzamento dei grandi gruppi.
Le politiche agricole: dal locale al globale
Le politiche agricole attuate in gran parte del mondo continuano a distorcere il mercato, ma d’altro canto è il mercato stesso nella sua folle ricerca del massimo profitto e della crescita illimitata, a produrre aberrazioni.
I proclamati benefici della globalizzazione, ammesso ne esistano, sono lontanissimi dall’essere dimostrati. Se in linea di principio favorire le economie in debito di sviluppo, in cui il settore agricolo costituisce una parte rilevante dell’economia sia positivo, la corrente applicazione di tali politiche si risolve in sfruttamento predatorio nei paesi del Sud del mondo e marginalizzazione e declino delle agricolture occidentali, perlomeno di quelle di piccola e media scala.
Le recenti “proteste dei trattori” dimostrano quanto sia iniquo porre in diretta concorrenza gli agricoltori europei con quelli di altre parti del modo in cui le “regole del gioco” sono completamente diverse, dai prodotti chimici che ancora possono essere utilizzati per la difesa delle colture, alle condizioni economiche e sociali dei lavoratori.
Se vogliamo considerare l’agricoltura non una mera attività finalizzata alla produzione di commodities, ma come insieme di valori, di saperi e di diversità, allora le strade da percorrere sono diverse. Se non vogliamo che in Europa solo aziende di centinaia di ettari condotte in economia, o allevamenti di centinaia o migliaia di capi sopravvivano alle regole del mercato, allora un cambio di rotta è necessario.
Il cambiamento indispensabile richiede anche ridurre l’uso e l’abuso in agricoltura di sostanze chimiche dannose per l’uomo e per l’ambiente, e in questo caso alcune delle proteste degli agricoltori nelle settimane scorse, o perlomeno la loro probabile strumentalizzazione, sono sbagliate. L’Unione Europea aveva intrapresa una strada coraggiosa con il Green Deal e con la Farm to Fork Strategy: i cittadini europei dovrebbero manifestare sostegno verso tali politiche, dimostrando che si può tornare a dare valore al cibo, non scegliendo solo per i prezzi ridotti all’osso dalla GDO, ma dando valore alla qualità. Una più equa distribuzione dei redditi e campagne di sensibilizzazione sarebbero il corollario necessario per consentire a tutti l’accesso a un cibo sano e giusto, parafrasando le parole di Carlo Petrini.
Sfide per l’agricoltura del futuro e possibili risposte
Il primo fine settimana di Marzo si è tenuta a Roma la Conferenza Contadina, organizzata dal Collettivo per una Convergenza Agroecologica e Sociale, costituito da numerosi movimenti, associazioni, singoli cittadini e cittadine. “Cambiare il campo” il titolo della Conferenza che si è svolta nella suggestiva cornice dell’ex-mattatoio di Roma, al Testaccio, nei locali della “Città dell’Altra Economia”. I lavori, sviluppatisi dalla sera del Venerdì al pomeriggio della Domenica, hanno registrato la partecipazione di oltre trecento persone, in rappresentanza di 130 associazioni e movimenti. I tavoli tecnici tematici, si sono alternate le riunioni plenarie, le facilitazioni e la restituzione finale delle variegate discussioni.
Se si volesse definire un minimo comune denominatore dell’incontro, l’agroecologia potrebbe essere il concetto centrale e condiviso. Su altri aspetti la diversità delle posizioni andava dal rifiuto totale della tecnologia, della chimica di sintesi, della manipolazione genetica, dello strapotere della GDO a posizioni leggermente più “morbide”. L’avversione alle tecniche di “editing genetico” (TEA) e alla brevettabilità ella biodiversità agricola, anche alla luce delle recenti decisioni del Parlamento Europeo, sono state le posizioni quasi universalmente condivise.
Agroecologia: risposta ad una crisi di sistema
Sgomberiamo dal campo (è il caso di dirlo) un possibile fraintendimento per i non addetti ai lavori:: il termine “agroecologia” non si riferisce a qualcosa di vago o esoterico, ma al contrario, ad un approccio estremamente concreto per la gestione dell’agroecosistema, che viene attuata in sinergia ed armonia con la natura, e cioè secondo principi ecologici. Non è necessariamente sinonimo di agricoltura biologica o biodinamica, ma le può includere.
Miguel Altieri, considerato il padre dell’agroecologia, la definisce come “disciplina utile per ridurre il degrado delle risorse e la malnutrizione e, in generale, per potenziare la struttura e le funzioni dei sistemi agro-alimentari locali”. Sempre Altieri ricorda come l’agricoltura contadina, a piccola scala, riconducibile essenzialmente ad un approccio agroecologico, a tutt’oggi sia in grado di produrre tra il 50 e il 70% degli alimenti che nutrono la popolazione mondiale, utilizzando solo il 25-30% delle terre coltivate. L’agricoltura industriale produce solo il 30% degli alimenti, ma consuma l’80% dell’acqua, il 70% dell’energia e del petrolio, producendo il 40% dei gas serra, causa del cambiamento climatico, rispetto al totale del settore agricolo.
Che si faccia riferimento ai 10 elementi descritti dalla FAO o ai 13 principi indicati nell’articolo di Wezel et al. (2020), l’agroecologia pone al centro la biodiversità, la salute del suolo, la sinergia tra i diversi elementi dell’agroecosistema, il riciclo delle sostanze, ma anche la condivisone della conoscenza e la partecipazione alle decisioni. L’agroecologia non è quindi sono un tecnicismo per la gestione ecologica dell’agricoltura, ma presuppone una crescita ed emancipazione dei cittadini, della comunità.
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