Africa
L’anno del pop africano?
In estate ho già scritto di afrobeats, presentandolo quella volta da un punto di vista sociale, analizzandone il potenziale come movimento ad espressione della controcolonizzazione africana. Nel corso del 2020, però, mentre il mondo era nella morsa della pandemia dalla quale sta ancora tentando di districarsi, la musica del continente nero ha continuato a piantare le sue bandiere lungo l’intero globo terracqueo. L’afrobeat – o meglio gli afrobeats, data la differenza tra i vari stili espressi – nigeriano ha scalato le classifiche di mezzo mondo, principalmente quelle europee e asiatiche (oltre alle africane, naturalmente) imponendosi però sovente anche in quelle europee. Ricordiamo che la s è fondamentale. Per afrobeat si intende un genere maturo, più datato, che risale fino agli anni ’70 e a Fela Kuti ed è un cantautorato impegnato sulla condizione africana. Afrobeats sono invece più stili musicali, assolutamente contemporanei e pensati per appagare l’orecchio dei giovani.
Un’ascesa pressoché inarrestabile
Perché è stato specificato che il vento più forte sta soffiando dalla Nigeria? Perché sono proprio i musicisti nativi di quello Stato che hanno aperto la strada ai loro colleghi africani. Da 10 anni a questa parte, infatti, gli artisti che provengono dal Paese sono davvero molto forti: i loro pezzi funzionano benissimo all’interno dell’alta rotazione radiofonica e nelle playlist rintracciabili in rete – probabilmente lo farebbero anche nei locali, se solo questi fossero aperti al pubblico.
L’afrobeats, il quale ormai è stato ribattezzato un pò ovunque afropop, seppure non tutti i critici musicali apprezzino tale definizione – che a me ad esempio appare abbastanza scorretta dal punto di vista etimologico – è arrivato ormai a descrivere indistintamente – e proprio qui sta il problema con l’impiego del termine a mio avviso – una miscela, i cui confini non sono sempre evidenti, di suoni, movimenti, colori ed espressione divenuta davvero molto popolare in Nord America ed Europa. Le due zone del mondo nelle quali si identificano più di comune i trend musicali, rappresentando esse il principale mercato per l’industria.
Nel mese di agosto, poco dopo l’approfondimento sugli Stati Generali citato in apertura su questi generi, il cantante Burna Boy – originario del delta del fiume Niger – ha scalato le classifiche streaming grazie al suo ultimo album in studio, Twice As Tall. Il suo successo si è collocato in scia a quello dei suoi connazionali Davido e Wizkid, oramai più che abituati ad apparire in featuring di artisti dalla celebrità planetaria in produzioni statunitensi di primissimo piano. La musica nigeriana è calda come il Paese da cui proviene, in questo momento.
Una questione geografica
Per il pubblico occidentale più generalista – per l’ascoltatore medio insomma, quello che si ferma ad apprezzare una melodia fresca ed orecchiabile, il quale non cerca molto di più di una canzone easy listening da canticchiare in auto o da tenere in sottofondo mentre fa altro – la musica nigeriana e quella africana in generale potrebbero essere la stessa cosa. L’anno appena cominciato, potrebbe modificare molto questa idea. In Africa i generi e gli stili stanno cominciando a diversificarsi molto gli uni dagli altri. Troviamo moltissimi musicisti non nigeriani pronti a prendersi la scena al di fuori del loro mercato di provenienza, con sonorità che differiscono molto da quelle già note alle orecchie occidentali; il solco sul quale si incammineranno, però, sarà quello tracciato dai loro predecessori del più popoloso Stato continentale.
Attivissima è la scena in uno dei Paesi più occidentali di questa parte del mondo: il Sudafrica. Nadia Nakai e Nasty C, ambedue rapper e ambedue provenienti dallo Stato più meridionale del continente, hanno recentemente firmato contratti importanti con Def Jam Africa, costola del gigante statunitense che è parte integrante di Universal, una delle principali major discografiche al mondo. La sezione dedicata al continente nero di questa etichetta è giovanissima, in quanto è stata fondata lo scorso maggio. Eppure, anche grazie a questa mossa, i generi indigeni del gqom e dell’amapiano – due branche della musica dance tipiche del Sudafrica: la prima è un’ibridazione elettronica nata nell’area urbana di Durban nel corso dell’ultimo decennio mentre la seconda è un’amalgama di deep house, lounge music e jazz contemporaneo la cui base sono sintetizzatori e percussioni – stanno acquisendo una popolarità sempre maggiore, non più circoscritta all’interno delle frontiere sudafricane.
Accanto a questi artisti, troviamo poi personalità emergenti come Innoss’B, proveniente dal Congo; Sheebah Karungi dall’Uganda e il kenyano Brian Nadra. Accanto a questi artisti maschi va sicuramente collocata la regina dell’afrobeats, un’artista che rivaleggia con i suoi colleghi maschi se non li abbia addirittura già superati in termini di popolarità sulla rete: la nigeriana Tiwa Savage. Originaria di Lagos e capace di cantare sia in lingua yoruba che in inglese, Savage a 40 anni è già sotto contratto con uno dei principali attori nel business planetario della musica, Sony ATV Publishing, dopo essere stata artista della Roc Nation di Jay-z.
La nuova frontiera dell’ascolto
In fin dei conti, non deve più stupirci la diffusione di musica che fino a poco tempo fa era assolutamente di nicchia. Accanto agli svariati demeriti, le piattaforme globali dello streaming hanno infatti un grande merito: rendono molto semplice allargare i propri confini musicali. Settimanalmente – quando non quotidianamente – Spotify, Apple Music, YouTube Premium e anche i player meno noti, in Italia, come ad esempio Deezer, Tidal, SoundCloud e similari, pubblicano playlist dedicate all’Africa e alla sua musica.
Con la diffusione anche alle nostre latitudini di sonorità provenienti dal continente nero, si è aperta una porta per ogni artista africano. Internet dà infatti modo anche ad essi, esattamente come ai cantautori dell’indie italiano – indipendente da che cosa, sarebbe bello sapere – alle giovani superstar del britpop o ai trapper statunitensi, di farsi sentire ed apprezzare in tutto il mondo. È la nuova frontiera dell’ascolto; quella degli algoritmi che scelgono la musica per noi, del potrebbe piacerti e del non perderti questa uscita – anche se ti dà la nausea – della playlist selezionata per te e del loop infinito per il jogging e l’insonnia. L’ascolto non è più azione con un proprio fine ma sottofondo di qualche altra cosa. Sull’altro piatto della bilancia, però, troviamo un’estrema facilità nell’accedere a qualunque canzone abbiamo voglia di sentire nel giro di pochi secondi, forse anche meno. Si tratta del bello e del brutto di questi tempi, in fondo.
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