Ciò che la Signora Pinotti forse non sa
Signora Pinotti. Io non la conosco, e sinceramente non ho mai letto, prima di oggi, una sua affermazione che colpisse la mia immaginazione, e magari […]
In che modo la fine del dominio quarantennale di Gheddafi ha destabilizzato l’Africa? Con una pioggia di armi. E adesso, dopo qualche anno, ne vediamo appieno le conseguenze. Basta un rapido sguardo alle situazioni di conflitto deflagrate in Africa dal 2011 a oggi. Un rapido elenco basta per farsi un’idea: Mali, Repubblica Centrafricana, Niger, Ciad, Camerun, Burkina Faso, Sud Sudan giù fino alla Nigeria.
Un dossier molto accurato di Le Monde Diplomatique offre un punto di vista inquietante sull’armamento moderno e pesante che ha arricchito in pochi anni gli arsenali di tutta una galassia di gruppi radicali che, a livello strategico, di punto in bianco, sono diventati più forti e meglio armati di coloro che li combattono.
I traffici di esseri umani, armi, droga portano il contante necessario a pagare il salario a un’orda di disperati, giovani e senza futuro, e a comprare le armi che il collasso della Libia ha messo sul mercato. Una visione distorta e aggressiva dell’Islam offre il quadro ideologico, gli interstizi di entità statali evanescenti mette a disposizione spazi enormi nei quali muoversi, nascondersi, colpire.
Un mix esplosivo, che ha infiammato il Sahel e del quale per ora non si vede una soluzione. Le armi, però, sono state un fattore chiave. Di quante armi si tratta? Partiamo dall’Italia. Tra il 2005 e il 2009, l’Italia è stato il Paese dell’Unione Europea che ha venduto più armi a Gheddafi. I numeri sono ricavabili dai siti ufficiali dell’Unione europea.
Solo nel 2009 è stata autorizzata all’azienda Beretta l’esportazione di oltre 11mila tra pistole e fucili semiautomatici che furono consegnati alla pubblica sicurezza del colonnello Gheddafi: non erano in vigore forme di embargo di armi, ma le violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza libiche erano denunciate da tutti gli organismi internazionali.
Non solo l’Italia. Tutta l’Ue ha concesso licenze di esportazione di armi alla Libia per un valore di 834, 5 milioni di euro nei primi 5 anni dopo l’eliminazione dell’embargo nell’ottobre 2004. Il 2009 è stato l’anno con le vendite più significative: 343,7 milioni di euro, dei quali 276,7 milioni in 5 anni all’Italia. Ma anche la piccola Malta ha esportato 79,7 milioni di armi da fuoco in Libia nel 2009, apparentemente vendute tramite un’azienda italiana.
Non solo Europa. Quando scoppia la rivolta contro Gheddafi, nel 2011, la Russia fatica ad accettare l’embargo imposto alla Libia, perché la Rosoboronexport, holding statale russa che si occupa dell’export di armi, rischia di perdere almeno 4 miliardi di dollari dalla mancata vendita di armamenti a Tripoli,come dichiarato dalla stessa azienda all’epoca.
Ancora: tre società statali cinesi (Norinco, CPMIC e China XinXing Import & Export Corp), nonostante la situazione di guerra in Libia, come svelato da un’inchiesta del 2011 di Globe and Mail e New York Times, stavano trattando una commessa da 200 milioni di dollari per rifornire l’ex rais di Tripoli di lancia missili, missili anticarro e altri equipaggiamenti militari, tra cui il QW-18, la versione cinese del missile terra-aria Stinger.
Un fiume di denaro, un oceano di armi. Crollato il regime, queste armi avvelenano tutta l’Africa. L’elenco dei gruppi radicali che ne usufruiscono è lungo: Ansar Dine, al-Mourabitoun, AQMI, Jund al-Khalifa, Ansaru, Boko Haram, Majilis Shura al Islam, Ansar Beit al-Maqdis, Ansar al-Sharia.
I conflitti che ne hanno risentito sono altrettanti: violenze in Centrafrica tra milizie confessionali, gruppi radicali all’attacco in Mali, golpe in Burkina Faso, i massacri in Nigeria. La religione usata in modo strumentale, le risorse e il potere come obiettivo, ma le armi necessarie vengono tutte dai bunker di Gheddafi.
Un pericolo molto più reale di immaginari assalti a Roma, ma che anzi ci interrogano su tutta la nostra politica economica bellica. Sarebbe corretto spiegare ai cittadini questo, piuttosto che avventurarsi in improbabili squilli di trombe di guerra, senza una vera conoscenza della situazione sul campo e senza una reale e praticabile exit strategy in un quadrante di mondo dove abbiamo contribuito a generare una situazione altamente instabile. Meglio ricordarlo adesso, che gli squilli di guerra sembrano tacere, per essere pronti, domani, quando torneranno a invadere il cielo della politica italiana.
(prima pubblicazione 8 marzo 2015)
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