Al netto del quasi monopolio mediatico del referendum greco contro l’austerity e della crisi dell’Euro, in questi giorni si è parlato degli esiti dei “Millennium Developement Goals” stabiliti nel 1990 dall’Organizzazione delle Nazioni Unite proprio per il 2015. Uno degli obiettivi, quello di dimezzare il numero di poveri nel mondo dal 1990 a oggi, sarebbe stato pienamente raggiunto. Dice il rapporto che:
“nel 1990 quasi la metà della popolazione nel mondo in via di sviluppo viveva con meno di 1,25 dollari al giorno; nel 2015 la stessa proporzione è scesa al 14 per cento. In termini assoluti, il numero di persone che vivono in estrema povertà è sceso da 1,9 miliardi di persone nel 1990 a 836 milioni nel 2015.”
La notizia è una di quelle che periodicamente vengono riproposte sui media, con cadenza all’incirca annuale. Nel 2013 l’Economist, ripreso dal Post, aveva dedicato la sua storia di apertura a questi dati, e in Italia altrettanto aveva fatto il Corriere della Sera nel 2014. Tipicamente, essa viene usata per dimostrare che il capitalismo nella sua forma attuale funziona, che i discorsi sulle storture e sulle disuguaglianze non hanno senso finché c’è crescita, e che insomma lamentarsi in qualunque modo del sistema economico mondiale è un’operazione da occidentali benestanti ed egoisti quando va bene, e da nostalgici del socialismo reale quando va male.
Il Foglio ci ha ricamato sopra una presa in giro di Piketty, l’economista autore de Il capitale nel XXI secolo, il libro che ha messo in luce l’aumento delle disuguaglianze a livello mondiale e il sempre più marcato spostamento della capacità di produrre ricchezza dal lavoro al capitale.
Come spesso accade, è necessario fare alcune precisazioni.
Primo, la misura indica solamente l’uscita dalla “povertà estrema”, cioè le persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno (poco più di 30 euro al mese). E’ abbastanza evidente che questo indicatore può avere un qualche valore solo in paesi che sono essi stessi in condizioni di povertà estrema e un costo della vita molto basso. E’ possibile essere in condizioni di grave povertà in un paese a reddito medio anche avendo a disposizione cifre significativamente maggiori.
Secondo, questo limite non è stato aggiornato dal 2005 a oggi (quando fu portato a 1,25 dollari al giorno dal precedente livello di 1 dollaro al giorno). Come un rapido calcolo a partire dai dati della World Bank può mostrare, però, nello stesso periodo di dieci anni l’inflazione cumulata nei paesi poveri e in via di sviluppo è stata vicina al 40% (anche se con enormi differenze regionali). In effetti, Pew Research Center, centro di ricerca americano di politica, società e demografia, ha ritenuto di collocare la linea della povertà a 2 dollari al giorno utilizzando il potere d’acquisto del 2011. La stessa World Bank sta valutando dall’anno scorso se innalzare il limite della povertà estrema a 1,75 dollari al giorno, un innalzamento non considerato dal rapporto dell’ONU che “rigetterebbe nella povertà” centinaia di milioni di persone.
Terzo: la World Bank, nel 2012, ha ammesso che gli indici dei prezzi usati nel 2005 per stabilire la parità di potere d’acquisto (PPP) nei vari paesi emergenti erano metodologicamente inferiori a quelle utilizzate nel 2011, e che utilizzando le nuove metodologie la stima del numero di persone che vivono in estrema povertà cala in maniera considerevole, da 1,2 miliardi a circa 950 milioni. Questo porta a maggior ragione a chiedersi quanto fossero accurati gli indici usati nel 1990 e quanto fossero accurate le stime sulla povertà su cui si basò l’ONU per definire i MIllennium Developement Goals. Quanti di quegli 1,9 miliardi di “poveri estremi” sarebbero risultati in condizione di povertà estrema, se si fossero usati indici e stime più precisi?
Quarto, il rapporto non tiene conto del fatto che la stragrande maggioranza dei poveri usciti dalla povertà estrema si trovano in Cina e in India. In Cina si è passati da quasi 700 milioni di persone in condizioni di povertà estrema nel 1990 a meno di 100 oggi. In India, da oltre 450 milioni nel 1990 a circa 200 oggi. In parole povere, del miliardo di persone teoricamente uscite dalla povertà estrema in questi 25 anni (dico teoricamente per via della staticità del limite di povertà estrema visto sopra), circa 600 milioni lo hanno fatto in Cina, e altri 250 in India. Quindi, più che un grande successo a livello mondiale, il calo della povertà assoluta è stato un grande successo in Cina e, in misura minore, in India. Nel resto del mondo, molto meno. Sarebbe inoltre forse il caso di valutare in che modo i poveri cinesi siano usciti dalla povertà assoluta. Con quali costi e quali conseguenze ambientali, sociali e geopolitiche, sia per la Cina che per il resto del mondo.
Quinto, il limite di povertà estrema non dice nulla, o quasi, sul livello immediatamente superiore, e cioè i poveri che magari non muoiono di fame ma, allo stesso modo, non hanno quasi nulla. La stessa definizione di “ceto medio” usata dal rapporto dell’ONU, inoltre, è molto generosa, visto che include tutti coloro che guadagnano almeno 4 dollari al giorno. Per fare un controesempio, il già citato studio sulla povertà di Pew Research considera a “reddito medio” le persone che guadagnano da 10 a 20 dollari al giorno, e mostra che in effetti, con l’eccezione della Cina e dell’Europa Orientale uscita dal blocco sovietico, la maggioranza delle persone che sono uscite dalla povertà estrema sono comunque rimaste in una condizione economica di livello molto basso.
Con queste precisazioni non voglio certo iscrivermi alle già troppo folte schiere dei decrescitisti né sostenere che si stesse meglio quando si stava peggio. Non voglio riproporre modelli economici che nella loro incarnazione storica hanno prodotto certamente povertà e sofferenza. Infine, non voglio negare gli ampi passi che il mondo sta facendo in direzione di una società meno drammaticamente povera e affamata.
Semplicemente, vorrei far notare che è il caso di evitare i trionfalismi e, soprattutto, di smettere di usare in senso politico il dato sulla povertà estrema come se fosse il segno tangibile, certo e definitivo del fatto che il sistema economico mondiale nella sua forma attuale sia, panglossianamente, “il migliore dei capitalismi possibili”, e che ogni tentativo di mettere in discussione alcune delle sue storture o di apportare delle migliorie sia destinato a peggiorare le cose.
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