Storia
La mafia dell’acqua: gli stuppagghieri di Monreale
Secondo i dati del rapporto Greenpeace-Cnr-Ibe, la percentuale di riempimento degli invasi regionali al 31 agosto 2024 era del 20,2% in Basilicata, del 9% in Puglia, del 44% in Sardegna . In Sicilia era del 20%, a fronte di una media nell’agosto 2023 pari al doppio, cioè il 39%. Cifre inequivocabili che, messe in fila con quelle degli anni precedenti, evidenziano lo svuotamento degli invasi dell’Isola. È l’effetto della crisi climatica, ma anche della cattiva gestione delle risorse idriche. Per il rapporto lo stato degli invasi dipende infatti dal disequilibrio tra minori precipitazioni e aumento dei prelievi idrici per i vari usi.
Se la crisi climatica è un problema recente, la pessima gestione delle acque, ma anche le lotte di potere che si sono sviluppate intorno a essa, sono problemi più antichi, tanto da incrociarsi anche con la storia della mafia delle origini. Nella sua ampia e articolata ricostruzione, La mafia. Centosessanta anni di storia (Donzelli 2018), Salvatore Lupo ci dice che a fine Ottocento un paese «tipicamente di mafia era Monreale» (p.26). Dopo l’Unità, negli anni Settanta, la cittadina contava circa 16 000 abitanti, ma la sua importanza non era legata alla popolazione, quanto a essere tradizionalmente un importante centro vescovile, molto attivo nelle dinamiche politiche della Sicilia occidentale. Al contempo Monreale era la sede naturale delle ricche sorgenti che rifornivano di acqua i territori sottostanti, in particolare l’agro palermitano della Conca d’oro. Nella Sicilia perennemente assetata, dunque, Monreale si trovava a controllare i flussi di acqua necessari per la coltivazione degli agrumi di un territorio centrale per l’economia palermitana del tempo.
La cittadina vescovile si era già fatta notare per essere stata attiva nelle rivolte che precedettero e fecero seguito all’Unità. Nel 1848, ma anche nel 1860 e nella tarda estate del 1866, gruppi armati erano scesi da Monreale e si erano riuniti alle squadre provenienti dalle altre borgate rendendosi protagonisti di incidenti e scontri. Secondo alcune testimonianze, momenti insurrezionali diversi avevano visto la partecipazione degli stessi elementi, a indicare una regia unica o, quantomeno, un gruppo ben definito di “professionisti delle rivolte”. Tra i soggetti coinvolti, tanto nel ’48 quanto nel ’60, vi era Turi Miceli di Monreale, uno dei capisquadra che morì assaltando il carcere nel vano tentativo di liberare altri criminali, tra cui proprio dei prigionieri politici. Il 15 settembre del 1866, tra i rivoltosi, si fecero notare anche diversi uomini identificati come mafiosi. Questi, esibendo armi e sventolando bandiere rosse, gridavano: «Viva la repubblica italiana!». Tra gli obiettivi dei rivoltosi il marchese Antonio Starabba di Rudinì, esponente della Destra, ma anche alcune camice rosse garibaldine, avvicinatesi nel frattempo alla compagine governativa.
Come ricostruisce Amelia Crisantino, in Della segreta e operosa associazione. Una setta all’origine della mafia (Palermo 2000), la centralità di Monreale si palesò nel 1875, mentre una Commissione parlamentare girava per la Sicilia cercando di comprendere l’arretratezza dell’Isola, le ragioni della delinquenza diffusa e perché il territorio era tutto un pullulare di sette segrete che richiedevano leggi speciali (p.13). In questo girovagare si soffermò su una eccezione degna di ulteriori indagini, riguardava la cittadina di Monreale, dove – secondo il Commissario De Cesare – «sono quasi tutti proprietari, ognuno ha un suo pezzo di terra. Ebbene, non vi è paese dove la sicurezza pubblica sia più in cattive condizioni che a Monreale». Il paradosso, insomma, di «un comune molto ricco» ma in mano al crimine. Monreale sembrava ai commissari il «primo centro di irradiazione delle cosche mafiose» (p.14). Ma questa mafia era diversa, si poneva come centro di mediazione tra i latifondi dell’interno e i mercati urbani. E aveva uno dei suoi poteri nel controllo delle acque. Ma quali erano le caratteristiche di questo centro poco distante da Palermo? Innanzitutto la presenza di una proprietà terriera, in buona parte patrimonio fondiario dell’Arcivescovato, data da tempo in enfiteusi che aveva prodotto una classe sociale ampia e assimilabile ai proprietari. La presenza poi proprio del vescovo, un potere però in declino nella seconda metà dell’Ottocento, che non aveva la forza di gestire e mantenere i privilegi posseduti. Tra l’altro molti dei religiosi di Monreale avevano partecipato all’insurrezione palermitana del 1866 e lo stesso vescovo era stato arrestato e aveva lasciato la sede vacante. Nonostante ciò, anche in seguito, Monreale rimase una roccaforte di fazioni e gruppi clericali. Gruppi di interessi si inserirono in questo vuoto di potere, in un contesto di assenza degli organi statali deputati al controllo. Infine, tra quelle che Crisantino definisce «condizioni particolari» di Monreale vi era proprio l’acqua. Le enormi fonti idriche di proprietà della Mensa arcivescovile passarono formalmente sotto il controllo di istituzioni pubbliche, ma, di fatto, finirono per essere gestite in piena autonomia da soggetti diversi, contigui comunque all’ambiente clericale. O, per meglio dire, da soggetti che agivano in nome della Mensa arcivescovile.
In questa situazione, secondo le fonti, i proprietari dei terreni a monte avevano buon gioco, probabilmente con il sostegno di chi doveva controllare, nell’usurpare l’acqua che scorreva a valle per irrigare i terreni dell’agro palermitano. Da ciò nacquero violenti dissidi, come quello che intorno al 1879 oppose il sindaco del paese, principe Pietro Mirto Seggio, ai «villani» di un fondo già del monastero dei Benedettini, i quali si rifiutarono di pagare i canoni relativi all’acqua. In un contesto che le fonti definiscono di «spaventevole mafia» emergono gli stuppagghieri che, sempre secondo i documenti, erano quelli che controllavano l’acqua che scendeva dal monte. Erano membri di una cosca mafiosa, guidata tra gli altri da un certo Pietro Di Liberto. Quest’ultimo è un personaggio emblematico della difficoltà di inquadrare secondo categorie tradizionali la mafia di questo periodo. Di Liberto non era un esponente dei ceti marginali, essendo procuratore della Mensa arcivescovile di Monreale, delegato per il controllo delle sue acque, proprietario terriero e, nello specifico, di giardini. Sfruttando la debolezza del potere vescovile si era ritagliato un ruolo di rilievo, assumendo una posizione centrale nelle lotte che opponevano i proprietari delle terre a monte e quelli a valle, per quanto concerne proprio la distribuzione dell’acqua necessaria per irrigare i giardini. Come ricostruito da Salvatore Lupo, intorno alla metà degli anni settanta Di Liberto viene descritto contraddittoriamente come un capomafia, ma anche come un uomo che rispettava le leggi. Secondo il comandante delle guardie campestri che operava a Monreale, Di Liberto era «amico di taluni affiliati della cosiddetta setta de’ stuppagghieri, […] e li protegge e li dirige». Ma c’era anche chi sosteneva in paese che «si tiene amici costoro perché dubita [si preoccupa] di quella setta essendo ricco, ma né li protegge e tanto meno li dirige, ma li accarezza pel proprio utile». Insomma, che fosse un mero calcolo o una convinta vicinanza, Di Liberto era contiguo agli stuppagghieri, la mafia dell’acqua. Il gruppo era però ritenuto da altri una creazione del delegato di polizia Paolo Palmeri di Nicasio che, insieme al fratello Giuseppe, se ne serviva fin dal principio degli anni Settanta per controllare l’ordine pubblico. A seguito delle indagini venne ipotizzata dagli inquirenti di Palermo l’esistenza di una rete di «segrete associazioni» con una «identicità di abitudini», comunanze di regole e rituali. Il questore ritenne addirittura che si trattasse di un’unica organizzazione, forte di «150 soci», articolata in «capi», «sottocapi», «gregari», con un «Consiglio direttivo eletto a norma di uno Statuto», «sezioni» che facevano capo a Monreale, ma con ramificazioni nei comuni vicini, fino a Bagheria.
In questa vicenda, confusa, contraddittoria, fumosa, c’è anche in pentito, tale Salvatore D’Amico, che descrive rituali e moduli associativi, solo che lo fa da morto. Infatti le sue dichiarazioni vengono portate in tribunale, dopo che è stato ucciso. Un altro elemento di quello che a tratti sembra un teatro dell’assurdo, in cui il gioco tra le parti vede continuamente confondere chi dovrebbe rappresentare la legge e chi la aggira, chi si muove in un contesto criminale e chi ha interesse a produrre allarme sociale, Gli stuppagghieri vennero presentati ora come il perno di un’associazione criminale con ramificazioni in tutto il palermitano, ora come una delle sette mafiose che infestavano i diversi paesi. Ma per la polizia di Monreale ci si trovava davanti a qualcosa di più pericoloso: un’associazione politica eversiva. Era il contesto in cui prendeva forma una galassia criminale in parte nuova, in parte legata all’associazionismo solidale clandestino, ben più antico. Una vicenda di ibridazioni, rapporti e conflitti con il territorio, la politica, i ceti dirigenti. Che nel caso specifico, un episodio non secondario di questa genealogia della mafia, ci fosse al centro l’acqua, dimostra – se mai ce ne fosse bisogno – la sua importanza per la storia della Sicilia. Ieri, come oggi.
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