Costume
Spettri, Pandemia e Feticismo della Libertà
Molti i fantasmi evocati dalla pandemia. Occorre quindi guardarli negli occhi e chiamarli per nome. Categorizzarli. Comprendere quali sono le minacce e quali i timori infondati. Quali gli spettri, e quali gli spauracchi. Una preoccupazione in particolare sembra occupare le menti di molti, sopratutto dei nostri intellettuali. La paura che il virus possa essere strumentalizzato. Il terrore che la difficile situazione che viviamo possa fornire un pretesto per giustificare derive autoritarie. La paura, insomma, che in questo momento in cui il confine tra costrizioni necessarie e controlli eccesivi si fa pericolosamente vago, lo stato svalichi e strabordi, invadendo quello spazio sacro che è la libertà del singolo.
Tracce di questa paura si rilevano negli editoriali di importanti quotidiani e nelle interviste di autorevoli filosofi. Un po’ come su Facebook, all’improvviso, tutti citano “La Peste” di Camus, così in questi interventi si moltiplicano i riferimenti a Foucault, al Panopticon, alla capacità sorvegliante del potere. Il trend cominciava già qualche settimana fa, quando una delle voci più sofisticate del nostro panorama intellettuale, Giorgio Agamben, sfoderava un suo noto concetto filosofico, descrivendo la situazione determinata dal coronavirus come un infido “stato di eccezione”. Un’emergenza utilizzata dallo stato per esercitare il proprio controllo sugli individui, limitandone la libertà di movimento in modo eccezionale con la scusa di salvaguardare la loro salute.
Ora, un aspetto di questo terrore colpisce più degli altri. Il fatto che la paura dello stato controllore, pur poggiando su solide basi, viene spesso espressa senza contesto. Senza geografia. Allora contestualizziamo. Precisiamo. In alcuni paesi la paura si è tragicamente materializzata. La Cina è il caso più ovvio, l’Ungheria il più recente. Ma ce ne sono altri. L’India e il Kenya, dove la polizia manganella regolarmente chi viola l’isolamento. La Bolivia, dove, con la scusa della quarantena, il governo di destra instaurato dopo la deposizione di Evo Morales ha imposto la legge marziale, e la lista continua. Se però paragoniamo questi scenari a contesti a noi più prossimi, ci rendiamo conto che bisogna fare delle distinzioni precise. Lì, con la complicità del virus, lo stato ha invaso l’individuo. Qui, da noi, è successa una cosa diversa.
È ormai chiaro che uno dei motivi per cui l’Italia settentrionale è diventata il primo grande focolaio d’Europa è che lo stato si è mosso tardi. Lo stesso triste copione si ripete oggi nel Regno Unito, dove una ritrosia neoliberista a limitare le attività economiche e la decisione di non impedire da subito la circolazione degli individui hanno accelerato il numero dei morti. Simili sviluppi si osservano, pur con molte differenze, in Svezia. Il ‘nostro’, in senso ampio, problema, quindi – nel contesto specifico della pandemia, s’intende – non è stato quello di avere uno stato sorvegliante. Al contrario il problema in Europa Occidentale è stato quello di avere uno stato che ha guardato dall’altra parte. Uno stato che, in un momento di emergenza, non c’è stato, perlomeno non da subito. Perché è utile ricordarlo? Per una serie di ragioni.
In primis, perché ci si dimentica che l’autoritarismo ha volti diversi. Ovviamente, virus o no, bisogna essere sempre pronti ad invididuare insidiosi fascismi anche a casa nostra: solo due settimane fa, un video girato da un balcone di Salerno riprendeva una pattuglia di carabinieri che picchiava una persona che aveva violato l’isolamento. Simili gravissimi episodi di abuso da parte delle forze dell’ordine sono accaduti anche a Roma, a Catania e altrove. Ma bisogna anche ricordarsi che, se è vero che spesso le istituzioni opprimono gli individui limitandoli, in alcuni casi, l’oppressione si esercita, al contrario, per assenza. Per abbandono. Lasciando che cittadini ed enti locali se la sbrighino da soli a discapito di chi, da solo, non ce la fa. Ignorando le grida d’allarme di chi ha le competenze scientifiche per gestire la pandemia. Rifutandosi, com’è successo in diversi focolai europei, di supportare da subito i lavoratori per incentivarli a sospendere l’attività lavorativa.
In secondo luogo, colpisce che, se da un lato alcuni intellettuali chiedono allo stato di allentare le misure di profilassi, dall’altro medici e infermieri – categorie che hanno esperienza diretta del virus – consigliano maggiore cautela. Alla luce di questo fatto, ci si chiede se, aldilà di Foucault, non sia opportuno rileggere Žižek, Bauman e Badiou. Pensatori che hanno descritto l’Occidente tardocapitalistico come una società caratterizzata da una vera e propria ossessione per la libertà individuale e, di conseguenza, da una totale assenza di sentire comunitario. In questo senso, ci si chiede se questo feticismo della libertà impedisca ad alcuni di capire che lo stato assente è pericoloso quanto quello sorvegliante, e che, se proprio dobbiamo avere un’ossessione, in questo momento dovrebbe essere un’altra: quella di pretendere un sistema sanitario statale solido e uno stato che sostiene le persone che sono costrette a casa in modo efficiente.
Ma c’è un terzo, più importante motivo per cui bisogna fare queste considerazioni. Per ora, nel nostro contesto specifico, è opportuno sospettare di chi sventola con troppa facilità la carota della libertà. Renzi che con la solita spavalderia promette riaperture pericolose. Salvini che scavalca il papa, e chiede che si possa essere liberi di andare in chiesa. I Tories Britannici che hanno aspettato che morissero quattrocento persone prima di organizzare le misure di isolamento. Monsiuer Macron che se frega del parere di eminenti epidemiologi e tra un mese riapre le scuole. Queste le voci di cui diffidare. Non c’è dubbio. Dobbiamo tenere alta la guardia contro chi minaccia la libertà, soprattutto in un momento in cui bisogna, lentamente, tornare a vivere, a lavorare, ad essere liberi. Però dobbiamo anche ricordarci che qualche volta le serpi parlano come liberatori. E se ti fissi a guardare gli spauracchi, perdi di vista gli spettri.
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