Si sapeva che sarebbero state elezioni incerte.
Qualcuno le ha dipinte come le più incerte di sempre, anche se tutti sapevano che non era così.
Elezioni Presidenziali veramente incerte sono state quelle del 2000.
Quelle vinte da George W. Bush su Al Gore assicurandosi i Grandi Elettori della Florida (erano solo 25 e non i 30 di oggi) di soli 537 voti (sugli oltre 101 milioni espressi dagli americani).
Una elezione decisa dopo una lunga battaglia e decine di cause legali (a riprova che contestare l’esito elettorale non è una prerogativa del solo Donald Trump) conclusa da una sentenza della Corte Suprema (assunta a maggioranza 5-4) che, il 12 dicembre del 2000, fermò le procedure di riconteggio dei voti.
Il 13 dicembre Al Gore, riconobbe la vittoria dell’avversario repubblicano con un discorso che mise fine a un lungo e convulso confronto. Queste le sue parole: “Questa sera, per il bene della nostra unità come popolo e della forza della nostra democrazia, riconosco la sconfitta”. In questa dichiarazione si può misurare tutta “l’anomalia” di Donald Trump.
Le stesse elezioni del 2020 che hanno portato alla Casa Bianca il 46mo Presidente Joe Biden nonostante l’apparenza (il conteggio dei Grandi Elettori si è chiuso 306-232) si sono decise con margini estremamente ridotti (poco più di 10.000 voti) in Arizona, Georgia e Wisconsin che complessivamente hanno assegnato ben 37 Grandi Elettori.
Elezioni incerte, insomma, quelle di ieri. Ma come lo sono spesso le Presidenziali USA.
Con pochi Stati (più o meno sempre quelli) a decidere l’inquilino della Casa Bianca.
Aldilà della narrazione dei media nostrani (bisogna pur garantirsi l’attenzione del lettore o dello spettatore) e dei molti sondaggi “too close”, ne avevo da tempo previsto l’esito con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca il prossimo gennaio.
Così come il fatto che i Repubblicani conquisteranno la maggioranza in entrambi i rami del Congresso (alla Camera già l’avevano dopo le elezioni del 2022, al Senato non l’avevano dal 2020), anche se la buona qualità dei candidati DEM al Senato e il loro forte radicamento territoriale mi avevano fatto ipotizzare che la sconfitta DEM potesse essere contenuta in un risultato finale di 51-49 (con solo i seggi di West Virginia e Montana conquistati dai GOP).
I dati della notte dicono che al Senato finirà almeno 52-48 vista la sconfitta di Sen. Sherrod Brown in Ohio (e a meno di altre sconfitte nelle tre corse degli Stati del Blue Wall al momento in cui scrivo ancora aperte)
Ho passato, comunque, la notte davanti allo schermo del mio Mac a seguire i risultati elettorali di quella che resta la più grande democrazia del pianeta, ma non mi aspettavo certo di seguire un avvincente film giallo, con una sorpresa nell’ultima scena.
Donald Trump (purtroppo per me) ha vinto. Si sapeva.
E ci sono alcune ragioni precise che spiegano questo esito.
Per quanto sia indegno di governare dopo i fatti del 6 gennaio 2021 e possa risultare pericoloso per l’intero Occidente per le sue politiche economiche protezionistiche e per le sue posizioni di disimpegno dalla Nato.
Ma il mio orientamento a favore dei DEM non mi impedisce di riconoscere distintamente le ragioni che spiegano, piuttosto chiaramente, le cause della sconfitta di Kamala Harris. Eccole.
1. La seconda candidatura di Joe Biden
Nessuno è riuscito a fermare per tempo il desiderio del 46mo Presidente di avere un secondo mandato.
Nonostante la sua età e le sue condizioni di salute, chiaramente percepibili, lo sconsigliassero apertamente.
E, invece, per mesi lo staff del Presidente e i DEM hanno ritenuto che questi problemi fossero irrilevanti, salvo cambiare opinione dopo la pessima impressione fornita nel dibattito televisivo dello scorso luglio.
Si è lasciato che fosse il ticket Biden-Harris a presentarsi alle primarie DEM e a raccogliere fondi per la campagna presidenziale per poi arrivare a correre ai ripari e cambiare candidato a luglio.
Il punto rilevante non è solo (e basterebbe) che a quel punto i DEM avevano come unica opzione possibile la candidatura della Vicepresidente (non fosse altro che per poter continuare ad utilizzare i fondi della campagna), ma soprattutto che la candidatura di Joe Biden ha impedito la selezione (e la presentazione al Paese) attraverso primarie “aperte” di un candidato “nuovo”, in grado di raccogliere consensi e suscitare entusiasmi nel Paese.
Di cambiare le “regole del gioco” e lanciare una vera sfida a Donald Trump.
I DEM non lo fanno dal 2008. Da quando Sen. Barack Obama si è imposto con una candidatura, non gradita ai vertici del partito, ma capace di suscitare e raccogliere nuove speranze e voglie di cambiamento.
Succede spesso (ogni riferimento al nostro Paese è puramente casuale) a “sinistra” di preferire “l’usato sicuro”.
Ma quasi sempre è un’opzione che spalanca le porte della sconfitta.
2. Kamala Harris: una candidata non all’altezza.
Kamala Harris non era preparata ad una sfida complessa come quella presidenziale.
Ci è entrata all’ultimo minuto grazie al sostegno dei big del partito (non è un caso che l’ultimo a condividere la scelta sia stato proprio il 44mo Presidente Barack Obama) senza una adeguata preparazione.
Dopo quattro anni da Vicepresidente in cui ha sprecato l’opportunità, che la scelta di Joe Biden nel 2020 gli aveva aperto, di mostrare di avere il profilo e le caratteristiche per essere un vero leader nazionale.
Kamala Harris non si era mai misurata prima con sfide elettorali importanti.
È diventata Senatore per la California nel 2018, vincendo le primarie DEM e poi conquistando un seggio senatoriale scontato. La sua candidatura alle primarie presidenziali DEM del 2020, dopo essersi caratterizzata come fortemente progressista, si è risolta in un rapidissimo flop.
Un candidato presidente moderato, bianco, cattolico come il 46mo Presidente Joe Biden l’ha scelta per il ticket del 2020 più per le sue caratteristiche soggettive (donna, giovane, di sinistra, espressione di una minoranza) che per le sue capacità di leadership.
Un gigante della politica DEM e del Senato USA come Sen. Dianne Feinstein commentò la sua designazione sottolineando la sua totale inesperienza: “a Washington non conosce nemmeno un idraulico”.
Quattro anni alla Casa Bianca e l’accesso quotidiano allo Studio Ovale non hanno cambiato il suo profilo politico e la sua capacità di incidere. Ha dimostrato solo di non essere all’altezza del ruolo che le è stato attribuito sia sul piano nazionale che, ancor più, su quello internazionale.
Quattro mesi di campagna elettorale – e la spesa di un miliardo di dollari – non potevano bastare a fare di lei una leader di prestigio e capace di attrarre nuovi consensi.
3. Ma chi è e cosa vuole davvero Kamala Harris?
Questa è la domanda che in questi mesi si sono posti gli elettori (e gli analisti politici) “indecisi”. Quelli che ti fanno vincere o perdere le elezioni.
Il punto vero è che la campagna di Kamala Harris non ha mai saputo dare loro una risposta convincente a questa domanda.
La sua storia è una storia tipica della “sinistra californiana”, radicale, ambientalista, lontana dai ceti popolari e dalle aree rurali del Paese.
Dopo aver iniziato la campagna evocandola – ad esempio ricordando la sua storia di “procuratore duro” – ha provato a riposizionarsi con modalità che sono parse decisamente poco credibili. Per definire un diverso posizionamento politico non basta, infatti, dire che possiedi un’arma o che in gioventù hai lavorato al McDonald (peraltro senza fornire particolari e dettagli capaci di rendere davvero credibili queste due affermazioni) o che dopo una vita di opposizione al “fracking” e ai combustibili fossili ci hai ripensato.
Insomma: nessun messaggio forte e preciso, in grado di catturare consensi al di fuori del recinto della comunità politica DEM. Anzi perdendo anche una quota di questi se, come sembra, in molti Stati decisivi i candidati DEM al Senato (o alla carica di Governatore) effettivamente otterranno risultati superiori a quelli di Kamala Harris.
La scelta del Governatore del Minnesota, Tim Walz, come suo compagno di strada nella corsa non l’ha certo aiutata nella costruzione di una narrazione vincente.
Di sicuro sarebbe stato preferibile avere al suo fianco un esponente più centrista (come il Governatore della Pennsylvania Josh Shapiro, anche considerando che si sapeva che quello Stato si sarebbe rivelato decisivo il giorno delle elezioni), capace di garantire un maggior equilibrio ideologico alla sua candidatura.
La scelta del suo Vice (un altro esponente della “sinistra” del partito) è stata la prima scelta compiuta da Kamala Harris ed è stata una scelta completamente sbagliata.
Incapace di sfuggire alla sua radicata cultura politica, tipica della sinistra radicale californiana, e, nello stesso tempo, preoccupata delle implicazioni delle sue prese di distanza (quasi sempre piuttosto scivolose) dall’ortodossia di sinistra, Kamala Harris ha finito con il concentrare la campagna su due soli messaggi: il diritto all’aborto e le conseguenze nefaste per la democrazia americana di una vittoria di Donald Trump.
Troppo poco per un candidato a leader del mondo libero.
4. La “lealtà” all’Amministrazione Biden.
Non sono solo, però, la mancanza di prestigio e la confusione della sua narrazione le uniche cause della sconfitta della candidatura di Kamala Harris.
Ce ne è una più profonda che ha direttamente a che fare con i due temi decisivi per la stragrande maggioranza degli elettori americani (anche per quelli “registrati come elettori DEM”): lo stato dell’economia e le migrazioni.
I sondaggi che registrano il giudizio sulle politiche dell’Amministrazione Biden indicavano da mesi tassi di disapprovazione che superano il 60%.
Nessuno degli ultimi tre presidenti ha finito il suo mandato scendendo così in basso nel giudizio degli americani: non Trump nel 2020, né Obama nel 2016 e nel 2012 e nemmeno George W. Bush nel 2008.
Un giudizio negativo che riguarda anzitutto l’economia.
Gli americani si confrontano con un’inflazione che ha aumentato i prezzi di quasi tutto: cibo, benzina, bollette, assicurazioni, case. E la percezione diffusa è che l’inflazione stia continuando ad essere più elevata di quanto le statistiche ufficiali registrano.
A torto o a ragione ne attribuiscono la responsabilità alle politiche della Presidenza.
Le politiche di rilancio dell’economia e della manifattura americana insieme all’espansione dei sussidi pubblici hanno aumentato il debito nazionale a livelli record ma non hanno cambiato le cose soprattutto per i ceti popolari e le aree più deboli del Paese.
Poi ci sono le questioni legate alle migrazioni. Tema di cui Kamala Harris si è occupata direttamente nei quattro anni passati alla Casa Bianca.
Anche qui il giudizio sulle politiche seguite è largamente negativo. E la percezione delle minacce alla sicurezza che arrivano da un confine meridionale giudicato troppo permeabile all’immigrazione illegale genera forte preoccupazione e diffuso scontento.
Quando, in diretta TV nazionale, Kamala Harris ha risposto che non aveva in mente nemmeno una cosa che avrebbe “fatto diversamente dal presidente Biden”, ha secondo me abdicato ad ogni possibilità di vittoria.
Senza mettere una chiara distanza tra sé stessa e i quattro anni dell’Amministrazione Biden era davvero difficile pensare che potesse votare per lei chi giudica come fallimentare questa esperienza.
In politica quando imbocchi una strada sbagliata (la ricandidatura di Joe Biden e, poi, la sua frettolosa sostituzione con la sua Vicepresidente) inesorabilmente la realtà ti presenta il conto.
5. Lo sgretolarsi del “blocco sociale” storicamente DEM.
Le ragioni della debolezza della candidatura di Kamala Harris, sin qui illustrate, si inseriscono su una questione più generale e profonda che penalizza i DEM.
Ed è il venire progressivamente meno dello storico blocco di elettorato giudicato tradizionalmente “sicuro” dai candidati DEM.
È una tendenza in atto da tempo. Almeno dalle elezioni del 2016.
Ceti operai anche sindacalizzati e minoranze etniche il cui voto era stabilmente orientato verso i DEM oggi non appaiono più dei monoliti inaccessibili alle campagne GOP. Soprattutto a campagne “spregiudicate” come quella di Donald Trump.
Chiamare “spazzatura” gli elettori poveri e con basso titolo di studio non aiuta.
Trascurare i latinos in nome del Black Lives Matters finisce con lo spingerli dall’altra parte della barricata: i risultati in Florida da questo punto di vista sono significativi (e qualcosa di simile, sono sicuro, lo scopriremo domani leggendo i voti del Nevada).
L’intervento la scorsa settimana del 44mo Presidente Barack Obama per chiamare a raccolta il voto dei maschi neri dice, da solo, delle difficoltà che i DEM incontrano anche in questo segmento di elettori tradizionalmente considerati “sicuri”.
In nessuno Stato, anche in quelli vinti, i DEM hanno sensibilmente aumentato il loro radicamento politico ed elettorale. Al contrario, l’esito della competizione in molti Stati conferma uno “spostamento a destra” dell’elettorato che va ben al di là dell’esito di questa notte.
La candidatura di Kamala Harris sembra aver avuto l’unico risultato di accentuare queste tendenze.
Il voto delle minoranze etniche (anche nere), delle donne, dei giovani si è distribuito tra i due candidati e non è andato in maniera netta a favore dei DEM come avveniva in passato e come il profilo della candidata poteva far pensare.
Donald Trump ha, invece, cavalcato questo processo profondo.
Intestandosi il ruolo di “protettore” dei deboli, degli “hillibilly” raccontati nel libro del suo candidato vicepresidente Sen. JD Vance.
Delle loro sicurezze economiche minacciate e dei valori culturali e morali di cui sono portatori.
Ceti e gruppi sociali, in particolare nelle zone rurali, che da un chiaro e netto orientamento DEM si sono spostati progressivamente ma inesorabilmente verso il GOP e i suoi candidati.
La sinistra americana, del resto, ha pochi messaggi positivi da offrire loro e l’approccio dominante alle grandi sfide di questo tempo (la sostenibilità ambientale e le migrazioni su tutte) non offre loro che preoccupazioni, insicurezze economiche e perdita di “status sociale”.
No ai DEM non poteva bastare chiamare a raccolta lo star system dello spettacolo e dello sport.
E men che meno spendere milioni di dollari in pubblicità che invitano a “far vincere i buoni”.
Serviva un lungo confronto capace di costruire una diversa narrazione sul futuro del Paese, che potesse suonare inclusiva anche per chi si percepisce come “sconfitto” dalle trasformazioni.
Servirà un vero (e nuovo) leader capace di avere la visione per costruirla e il carisma e l’autorevolezza per raccontarla, generare entusiasmi, conquistare i consensi necessari.
Da mercoledì (purtroppo) avranno davanti tre anni per farlo.
Spero ci riescano.
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