Italia
Lettera a Bruno Vespa
Una lettera politica su un gesto antico e attuale. Il baciamano al potere come postura culturale, la televisione come scuola dello sguardo, l’accompagnamento che sostituisce il conflitto. Non un attacco personale, ma il racconto di un’abitudine nazionale.
Bruno Vespa,
lei non ha mai raccontato il potere. Lo ha accompagnato. Come si accompagna qualcuno di notte, per essere certi che arrivi a casa senza inciampare. Il problema è che, mentre lo accompagnava, qualcuno restava al buio. Non è una colpa. È una funzione. Qualcuno deve pur tenere la luce accesa dove il potere passa, per evitare che si faccia male. Ma ogni luce accesa abbaglia qualcun altro. Ogni corridoio illuminato crea una stanza che resta chiusa. Lei ha chiamato tutto questo equilibrio. Io lo chiamo abitudine. L’abitudine di vedere sempre gli stessi volti, le stesse mani, le stesse parole che sanno come stare in scena senza tradirsi mai. E alla storia, forse, non resteranno le interviste, né le domande calibrate, né le sere in cui tutto sembrava importante. Resteranno i plastici da studio per qualche omicidio, il dramma buttato in farsa, il dolore ridotto a scala, a mappa, a oggetto maneggiabile. Quando il dolore diventa scena, non è più solo il dolore di qualcuno. Diventa un linguaggio. E ogni linguaggio educa La televisione non si limita a mostrare. Stabilisce quando voltare pagina. Così un paese ha imparato che la sofferenza può essere spiegata, che un corpo spezzato può essere contenuto, che la morte, se ben illuminata, non fa più paura. Rassicura. Non è spettacolo, è addestramento. Addestramento a non sentire troppo, a non restare a lungo, a consumare anche ciò che dovrebbe fermarci. E alla fine non è una questione di governi o di stagioni politiche. È una questione di postura. Il baciamano al potere, qualunque esso sia, è sempre lo stesso gesto. Cambiano le mani, non cambia l’inclinazione della schiena. Lei quel gesto lo ha reso elegante, presentabile. Ha insegnato che il potere non si incalza, si accompagna. Non si mette in difficoltà, si mette a proprio agio. Non si contraddice, si ascolta con rispetto. Non è propaganda. È qualcosa di più sottile. È la rinuncia preventiva al conflitto. È l’idea che disturbare sia sconveniente, che contraddire sia una forma di maleducazione, che la realtà possa essere trattata come un ospite importante, mai come una domanda che non sa dove sedersi. Così un paese ha smesso di contraddire e ha imparato a riconoscere il potere dal tono di voce con cui entra in studio. Ha confuso la stabilità con la deferenza, la competenza con la prossimità, l’informazione con il baciamano. Lei non ha imposto questo gesto. Lo ha reso possibile, praticabile, ripetibile. E quando un gesto diventa abitudine, smette di sembrare una scelta. È così che una democrazia non cade. Si accomoda.
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