Arte

Sgarbi: la montagna nell’arte; alla ricerca dell’Assoluto

27 Dicembre 2025

Vittorio Sgarbi nel corso del 2025 ha scritto un bellissimo libro “Il cielo più vicino. La montagna nell’arte”.
L’edizione – sontuosa nelle riproduzioni fotografiche dei dipinti – curata dalla “Nave di Teseo”, ci offre una nuova dimensione del noto critico d’arte; come lui stesso ha affermato, richiamando Gabriele D’Annunzio, quella del “notturno”, alveo misterioso ed affascinante,di rarefatta spiritualità che coglie il numinoso.
Aldo Cazzullo, che lo ha intervistato per il “Corriere della Sera”, dice che questo libro, di raffinati contenuti, è la riprova della sua straordinaria lucidità, è del “lampo genuino dei suoi occhi”.
Come ha scritto Antonio Gnoli su “Repubblica” la montagna rappresenta l’infinita potenza della natura e da essa risaltano i nostri limiti, il nostro disorientamento.
Vittorio dice di non credere in Dio: invece sostengo che lui sia nella costante ricerca dell’Assoluto.
E questo libro è lo scandaglio più adamantino: la montagna è l’elevazione del sublime, il suo naturale suggello, il luogo più congeniale per avere il contatto con il cielo, perché sulla montagna si avverte la dimensione eterea.
Il tempo della montagna è il tempo della ricerca dell’uomo che attende un segnale dal cielo. Oltre la montagna c’è il cielo più alto, il luogo del desiderio, dell’elevazione, dove la nostra mente trova i pensieri che la terra non consente. Nulla è più vicino all’eterno della montagna e allo stesso tempo niente permette di intendere la fragilità dell’uomo.
I grandi maestri sono coloro che in qualche modo sentono che la montagna deve raccontare qualche cosa che non è quello che si vede, ma quello che si sente.
La montagna, più di ogni altro paesaggio, forse solo come il paesaggio del mare, ci pone il problema del rapporto con il cielo, reca con sé il pensiero di Dio.
Il libro si snocciola – come di consueto è nello stile di Vittorio – nel come sia stata descritta dai pittori, lungo i secoli, in modo particolare dal 1300 al 1900, la montagna nell’arte.
Apprendiamo che già Giotto, nel dipinto “Storie di San Francesco”, conferisce un ruolo determinante alla montagna, come il locus, che pone l’uomo rispetto a Dio nella condizione di chi ne cerca l’ausilio, ma che vede in essa l’unica possibilità di aprirsi al cielo, all’assoluto.
Allo stesso modo nel Mantegna la montagna nel dipinto “ Orazione dell’Orto” rappresenta quella eccedenza che sfugge all’uomo, che prepara al miracolo della morte e resurrezione e avvicina al cielo.
La prosa di Sgarbi diventa affascinante quando descrive la montagna nella poetica di Leonardo Da Vinci, in modo particolare nel commentare “La Gioconda”. Infatti, il volto di quest’ultima si staglia in uno sfondo costellato da ghiacciai e perciò la montagna assurge ad elemento sorgivo, vitale, fonte di luce. L’impervietà delle rocce si è dissolta in un’armonia divina, come il riposo dopo la creazione, come il compiacimento di Dio. Il volto della donna è la perfezione raggiunta di quei ghiacciai lontani.
Con la descrizione del magistero del Turner Vittorio penetra nella tematica dell’ Infinito e giocoforza deve calarsi – e lo fa con delicatissimo tatto – nel pensiero di Giacomo Leopardi e di Blaise Pascal.
Nessun pittore è stato capace di interpretare il sublime come Turner, e lo si vede nel dipinto “ il ponte del diavolo al San Gottardo”, dove sentiamo che la natura è così potente che l’uomo si riduce a una condizione di grande fragilità.
Come avviene nella poesia di Leopardi, si ha la consapevolezza dello smarrimento, della sproporzione, della distanza tra la forza dell’uomo e quella della natura e perciò si “spaura”.
Il sublime è proprio questo rovesciamento del limite nel pensiero dell’illimitato, tra la finitezza della condizione umana e l’infinito che il suo pensiero può raggiungere.
Così, in Friedrich nel “Viandante sul mare di nebbia” – che rappresenta anche la copertina del libro – l’uomo contempla la natura, ma senza poterla dominare.
Scrive Vittorio: “non c’è dominio sulla natura, ma abbandono. Col viandante, anche noi siamo arrivati fin lì, abbiamo scalato il monte, abbiamo raggiunto la vetta, avvicinato il cielo, e siamo diventati una cosa sola con la natura. Nella poetica matura di Friedrich c’è la consapevolezza che non solo nella montagna, nel mare, nella luce, nella nebbia c’è presenza di Dio. Dio sta nell’uomo che contempla gli elementi della natura. Non c’è bisogno di mostrare il volto dell’uomo, tanto meno di dipingere simboli sacri, come il crocifisso. Dio sta nel pensiero dell’uomo, che sa la sua precarietà, la sua finitezza e, perciò, si fa divino”.
Sgarbi accosta, poi, Paul Cézanne alla filosofia di Spinoza: dentro la natura di questo artista c’è una struttura solida, geometrica, che non soggiace al flusso temporale. Non è Dio, non è più il Dio nel senso cristiano e creazionista del termine, è l’impersonale Dio di Spinoza.
Diventa musicale e lirica la prosa di Vittorio, infine, quando descrive la poetica di Vincent Van Gogh.
Il capitolo ha un titolo preciso: “La montagna e la follia”.
Si commenta il dipinto “Campo di grano con volo di corvi”. E siamo nel gorgo, nel lago oscuro della follia: Van Gogh mette in scena un idillio senza idillio. Il dipinto mostra una divisione molto netta. La linea dell’orizzonte delimita l’estensione del campo di grano dal cielo azzurro. Un azzurro che tende al blu carico, come se un turbamento della psiche si trasmettesse alla natura, e la perturbasse. Tra il campo giallo e il cielo, al centro, si stende una strada, un cammino, un tratturo, che indirizza verso il limitare dell’orizzonte. Ma è un sentiero che non porta a nulla. Per quella via non si va da nessuna parte.
È un “viaggio al termine della notte”, un viaggio al confine della coscienza, ai suoi limiti estremi. Lungo quella strada il viandante non avrà compagni e in fondo non esiste neppure una destinazione. Se a qualcosa essa conduce è a un luogo di morte: contro quel cielo, infatti, su quel campo di grano, si stampano le ombre, le impronte di corvi, presagio di una morte su cui essi riversano la loro spinta maligna e malefica. Prevale la componente simbolica, dunque. Non stiamo semplicemente guardando un campo di grano contro un cielo, attraversato da un volo di corvi, ma il tormento di una mente e l’attesa della morte.
Vittorio con questo libro è stato toccato dalla grazia della fragilità; prima lo conoscevamo come irascibile; oggi invece è pervaso dalla mitezza; nel suo sguardo si snoda il manto protettivo del silenzio contro le insignificanze d’accatto, la volgarità, il ciarpame della mediocritas, dalla quale si erge la sua superiore visione della vita.
È pregiata la sua prosa, idilliaca piena di poesia struggente.

Vittorio con questo libro si consegna alla migliore letteratura.

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