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Musica

I significati della musica

di Dino Villatico

Lucchesini propone le pagine di Berio, Liszt e Chopin come un viaggio nei segreti della costruzone armonica della musica.

11 Dicembre 2025

Si può anche rifiutare – e oggi dopo più di mezzo secolo è facile – la poetica delle avanguardie, ma sarà difficile e, soprattutto, antistorico, negare il peso che le avanguardie, musicali e no, del primo e del secondo novecento, hanno avuto nel modificare la percezione e la concezione stessa dell’arte, in particolare della musica. Non è, infatti, un caso, credo, che gli interpreti più interessanti della musica prenovecentesca, e in particolare di quella romantica, siano proprio i musicisti che affrontano anche la musica del novecento. Hanno, si può dire, un secondo occhio, anzi un secondo orecchio, che scava dove l’occhio e l’orecchio che non ha varcato il baratro non vede e non sente. Il concerto che Andrea Lucchesini ha offerto mercoledì scorso nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica per il pubblico dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ne è stato una magnifica dimostrazione. In programma due dei massimi compositori del Romanticismo europeo: Liszt e Chopin. Ma l’opera di ciascuno era preceduta da una pagina di Luciano Berio, quasi a fare ascoltare, e in anticipazione, le conseguenze di ciò che si sarebbe ascoltato dopo. Come, insomma, se il preludio fosse in realtà un postludio o, meglio, come se ascoltare subito a quale musica sia arrivato il novecento facesse capire meglio che cosa avessero pensato e scritto i compositori dell’ottocento. I Six Encores (sei bis) di Berio hanno preceduto la Sonata in si minore di Liszt e la Sequenza IV, sempre di Berio, i 24 Preludi op. 28 di Chopin. Le astruserie – che tali non sono – armoniche del compositore ligure venivano così in qualche modo giustificate, previste dagli intrichi del pensiero armonico di Liszt e di Chopin. Liszt concentra in un unico movimento l’elaborazione di un modello di forma musicale che da Haydn a Mozart e a Schumann (al quale la Sonata è dedicata) sembrava avere percorso una strada molto accidentata. Ma Liszt è non a caso allievo di un allievo di Beethoven, Czerny, e sa benissimo che la sonata non si fonda su temi melodicamente individuati bensì su contrasti armonici che la differenziazione melodica enfatizza. Come per Beethoven la Sonata di Liszt è già tutta contenuta nell’attacco, un si ribattuto, che contiene l’impulso ritmico e il campo tonale del percorso. La cellula si complica, si espande, vengono aggiunti suoni, che sembrano tutti nascere da quel primo impulso e via via costruiscono un viaggio armonico che si sofferma di volta in volta, cambiando campo armonico di riferimento, su diverse formulazioni della stessa cellula motivica. Non serve dividere la sonata in più movimenti. Basta uno solo che proceda con passi diversificati, ora meditativi e lenti, ora concitati e mossi, ora furiosi e veloci. Per chiudersi, svanendo, come un ripiegamento su sé stessa, su quel si iniziale. Di solito Liszt è palestra di esibizioni virtuosistiche. Un modo assai diffuso di fraintenderlo: il virtuosismo, o, più esattamente, la perizia tecnica, è un mezzo che serve a mettere in evidenza la durezza del confronto tra ciò che si vorrebbe e ciò che si può fare con uno strumento musicale (anche l’orchestra è uno strumento) e, più profondamente, con una forma musicale. Lucchesini, che per sua e nostra fortuna, non è un virtuoso esibizionista lisztiano, ma un ferratissimo e lucidissimo musicista, lascia perdere queste smorfie esteriori, e va subito al nocciolo: la costruzione della forma musicale. Naturalmente, del virtuoso possiede l’abilità tecnica, il dominio infallibile dell’abilità tecnica, ma non gli interessa esibirla, la sottomette a denudare i nervi della composizione che interpreta. La sonata lisztiana esce così come un monolite dentro cui si racchiude la storia della scrittura musicale precedente e la previsione dei suoi sviluppi futuri: per esempio Skrjabin, il primo Schoenberg. Ecco allora il senso degli Encores di Berio. Senza Liszt Berio non avrebbe potuto pensarli, per quanti diversi, e lontani, possano sembrare gli effetti. Ma, per esempio, sia in Liszt sia in Berio, le differenze di tocco non mirano a mostrare bellurie timbriche bensì a evidenziare quelle che Schoenberg chiama le “funzioni strutturali” dell’armonia. E Lucchesini ha un’arte strabiliante del tocco, fa appunto sentire le funzioni armoniche differenziando il tocco. Il rapporto con Berio si fa ancora più evidente con Chopin. I Preludi in tutt’e 24 le tonalità sono un lavoro monumentale che certo richiamano subito alla memoria il Clavicembalo Ben Temperato di Bach, ma la sottrazione della fuga attribuisce loro una funzione nuova: quella di concentrare l’attenzione quasi soltanto sulle “funzioni” armoniche. E qui la Sequenza IV di Berio, che li ha preceduti, casca opportuna. Perché Berio addirittura mescola diversi approcci armonici, li sovrappone, nel fa il fulcro della forma musicale, al punto che scompare la differenza tra timbro e armonia, l’uno nasce dall’altra e l’altra si risolve nell’uno. Esattamente come in Chopin. Fin dal primo Preludio, che è addirittura atematico: un saggiare il campo di do maggiore. Il sipario che si alza sulla ricerca armonica che dovrebbe illustrarci come nascano e come si differenzino le tonalità, come funzioni, anzi, perfino l’enarmonia, vale a dire l’identità tonale con scrittura diversa, di diesis o di bemolli. A differenza di Bach, che procede cromaticamente a grado a grado, Chopin procede seguendo il circolo delle quinte, e accostando, di volta in volta, a ogni preludio maggiore il suo relativo minore, che cade alla terza inferiore. Ma, giunto alla tonalità di fa diesis maggiore, con sei diesis in chiave, invece di proporre re diesis minore, ricorre alla tonalità enarmonica di mi bemolle minore, con sei bemolle in chiave, di più semplice scrittura: in re diesis minore si sarebbero di fatti sprecati i doppi diesis, che avrebbero complicato la lettura. E torna armonicamente indietro fino agli ultimi due preludi, in fa maggiore e in re minore. Quest’ultimo, come la sonata di Liszt, si conclude con la tonica ribattuta, in Liszt un si, in Chopin un re, quasi come che il concerto di Lucchesini volesse ritornare al suo principio. Ma il si lisztiano è intonato sottovoce, il re chopiniano è urlato, aggressivo, fortissimo. C’è in Chopin la ferocia tipica della cultura slava, il piacere dell’eccesso, che ritroviamo anche in Šostakovič e che ha disturbato, sembra, alcuni spettatori dello spettacolo scaligero. Ma che c’è anche nei romanzi di Dostoevskij, nella poesia di Majakovskij, nei film di Kieslowski. Lucchesini non si tira indietro: esemplari, appunto, l’ultimo preludio e quello in si bemolle minore. Ma c’è anche l’altro lato, quello della dolcezza, della tenerezza, in cui Chopin è maestro: nel preludio in re bemolle maggiore si associa a un senso di desolazione, di inevitabile minaccia. O il tono cupo, funebre, il nichilismo di una morte senza speranza: preludio in do minore. O la sublime delicatezza del brevissimo preludio in la maggiore, quasi solo un appunto. Gli applausi entusiastici hanno convinto il pianista a concedere due bis, uno più bello dell’altro: l’improvviso in sol bemolle maggiore di Schubert, incunabolo di tanta musica successiva, Chopin compreso, e, come omaggio alla sua maestra Maria Tipo, morta proprio quest’anno, una Sonata in mi maggiore, famosissima, di Domenico Scarlatti, compositore a lei assai caro e che Maria Tipo eseguiva spesso proprio come bis nei suoi concerti. Ma questo di Lucchesini, oltre a essere stato uno splendido concerto, è stato anche uno stimolo, un’opportunità per riflettere ai tanti possibili significati della musica. Che non sono solo, come troppi ancora ingenuamente credono, l’espressione dei sentimenti, anzi, se mai, i sentimenti la musica non già li esprime ma li rappresenta, come giustamente pensava Monteverdi, ma significati della musica sono, più profondamente, una rappresentazione della nostra esperienza del mondo, possiedono un densità di pensiero esattamente come una pagina di filosofia, solo che la musica non lo enuncia con le parole, bensì con l’effetto che i suoni, la realtà raffigurata dai suoni, producono in noi, e allora la grammatica, la sintassi di questo linguaggio che non è propriamente un linguaggio, ma una raffigurazione, una costruzione simbolica, sono l’armonia, il ritmo, la melodia, il loro combinarsi e muoversi nel tempo. Perciò ci coinvolge, perché ci coglie nella nostra intimità, dove il pensiero non pensa, ma agisce. La musica non è come un quadro, una statua, una pagina scritta, che sta lì, la vediamo, perché il suono appena udito scompare, e noi ricostruiamo una melodia, un ritmo, un percorso armonico, perché lo ricordiamo, e la musica dunque prende corpo solo nella nostra memoria. Ed è lì che ci tocca. E ci mette a confronto con noi stessi: con il tempo che fugge, con la fugacità, anzi, tutto ciò che viviamo. Senza tempo non ci sarebbe musica, senza tempo non c’è nemmeno la nostra vita. Liszt, Chopin, Berio ci hanno raffigurato una sensazione del tempo, una misura del tempo, in cui ci siamo riconosciuti. Riconosciuti, soprattutto, con la possibilità di una fine del tempo, con la morte. Hegel, nelle sue Lezioni di Estetica ha pagine mirabili su questa esperienza della musica. E questo senso di conclusione, di fine, che terrorizza, e sconvolge, losi avverte nel si impercettibile che chiude la Sonata di Liszt, nel re aggressivo e disperato che conclude l’ultimo Preludio di Chopin, nel diluirsi e svanire delle armonie della musica di Berio.

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