Un chiostro dell'Università di Bologna, al centro delle polemiche per il caso del corso di laurea per i militari

Università

Politici e generali, all’università non si insegna “alla carta”

2 Dicembre 2025

La vicenda del corso di laurea “rifiutato” dall’Università di Bologna ai militari dell’Accademia di Modena ha messo  in luce quanto poco si sappia dell’università in questo paese. Pochi ci passano, dall’università, pochi ci insegnano, e chi ci ha insegnato ed è passato alla politica spesso si dimentica di come funzioni (e, attenzione, funziona così perché l’ha voluto la politica). Per questo, nonostante l’Ateneo abbia risposto, non ritengo inutile rubare qualche minuto alla didattica per chiarire alcuni aspetti tecnici sul tema: come si costruisce un corso di laurea. Nella mia carriera a me è capitato di disegnarne due e ho diretto corsi di laurea per dieci anni.

Cominciamo dalle basi. L’università offre tre tipi di corsi: corsi di laurea, distinti in laurea di primo livello e laurea magistrale; corsi master, di primo e secondo livello; corsi di alta formazione. In genere la collaborazione con istituzioni e industria avviene a livello di master o corsi di alta formazione, perché qui è maggiore lo scambio e la collaborazione tra accademia e ambiente esterno.

Qui parliamo di un corso di primo livello. Cominciamo dalla progettazione. Chi lo progetta deve scegliere la classe di laurea, in questo caso L-5. A questa corrisponde una “griglia” di categorie di insegnamenti, ripartiti tra “caratterizzanti” a “affini”, e per ognuna di queste categorie devono essere previsti corsi per un numero minimo di crediti (considerateli ore di lezione). Definito il diagramma dei corsi, vengono poi definiti i regolamenti, didattico e normativo, che regolano il funzionamento del corso.

Una volta disegnato, il corso comincia il suo iter di approvazione, interno (Rettorato) ed esterno (Roma), e al termine di una navetta di osservazioni e correzioni il corso è pronto a partire. Fate attenzione a cosa succede adesso: il Dipartimento di riferimento deve destinare un numero di “docenti di riferimento” che in slang chiamiamo “teste” che possono essere “giocate” (sempre in dialetto)  solo su quel corso di laurea. Ai miei tempi si trattava di quattro docenti per anno di studio, quindi per una triennale dodici docenti. In gioco entra anche la numerosità: oltre un certo numero di studenti servono più “teste”, ma non è questo ovviamente il caso.

Prima osservazione: attivare il corso di laurea richiesto per un’audience riservata (e limitata a quindici studenti) potrebbe limitare la possibilità di un numero rilevante di altri studenti di accedere a un corso di laurea in filosofia. La numerosità media di un corso di laurea di triennale è senz’altro superiore ai cento studenti. Questi studenti avrebbero meno diritto di altri che accedono a un corso di laurea a seguito di un “dialogo tra istituzioni”? E dodici docenti di un dipartimento dovrebbero essere “incardinati” in un corso per quindici studenti?

Ma ora assumiamo che si faccia il corso. Nel regolamento si mettono, tra le altre cose, delle regole di accesso, che riguardano il merito. Non dimentichiamo che noi il merito lo pratichiamo. I nostri corsi sono a numero “programmato”, e il programma consiste nel concedere l’accesso a chi, a parere di un comitato di ammissione, ha buona probabilità di portare a termine il corso. Perché poi il corso viene valutato su questo. Certo non posso pensare che il generale ritenesse di scegliere lui chi acceda a un corso, senza una valutazione dell’università. Sarebbe come se scegliessimo noi chi ci viene a difendere in caso di guerra (per citare soltanto la battuta diffusa sui giornali, per la risposta basta il silenzio delle lapidi in Rettorato ). Se non fosse così, se l’ingresso, e il percorso educativo non fosse subordinato al merito, valutato da chi è in grado di valutarlo, la proposta del generale sarebbe pericolosamente simile a casi che abbiamo visto nella vecchia università, ma ora estinti, di corsi finalizzati a far conseguire a buon prezzo il “pezzo di carta” a particolari categorie in un “dialogo tra istituzioni”. Non pare questo il caso e l’intento.

Ma assumiamo che i quindici candidati siano tutti brillanti, vengano ammessi al corso e il corso parta. C’è qualche motivo per cui non si debbano confrontare con gli altri studenti? Un professore analizza sempre il livello della classe, per tarare l’insegnamento a quello che si aspetta di ottenere da una classe (oltre che per valutare in maniera critica il proprio lavoro). Per questo l’eterogeneità della classe è importante. Peraltro, ritengo che lo sia molto più in un corso di filosofia (in cui a un certo punto si deve parlare di argomenti “sensibili”) rispetto a un corso di matematica o economia come quelli che insegno io. La domanda che nessuno si è fatto è: c’è un motivo per cui allievi del nostro esercito non debbano confrontarsi e competere con studenti di provenienza diversa? Perché un soldato non si confronta? C’è forse un pericolo di contaminazione?

Potrei continuare a descrivere la vita di questo corso di laurea che non ha visto la luce, con i piccoli e grandi problemi che emergono ogni giono, ma mi sembra che ci sia già abbastanza per capire che la costruzione di un corso di laurea è un processo complesso. Le regole sono state poste da anni di interventi della politica sull’università, sono complesse (il motivo per cui non costruirò mai il terzo corso di laurea della mia carriera), ma sono le stesse per tutti. Il rispetto delle regole definisce la laurea. Se il “dialogo tra istituzioni” allude a cambiare anche una delle regole, non è più un corso di laurea.

Mi resta una forte curiosità sull’interesse del proponente per il “pensiero laterale”, e come questo si sarebbe fatto largo tra le griglie della classe di laurea L-5. Ma su questo preferisco limitarmi all’unica nozione di filosofia che conosco. Il primo Wittgenstein: “su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Mi sento di consigliarla come punto di partenza a molti altri.

(università di Bologna, Creative Commons, Maria Firsova)

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