Letteratura

Una bottega di libri tra le macerie di Gaza

Rachid Benzine immagina un incontro tra un reporter francese e un vecchio libraio di Gaza, seguendo le tracce delle parole scritte in grado di alleviare il dolore e di far crescere il senso di solidale amicizia tra gli esseri umani

29 Dicembre 2025

 

Due sono i protagonisti umani di questo ultimo romanzo di Rachid Benzine, Il libraio di Gaza. Il terzo, essenziale, protagonista non umano è la città di Gaza, “una città da riscrivere costantemente”, rappresentata nell’attuale tragedia di distruzione e morte: “Questa terra è una litania di rappresaglie, di odio accumulato, di tristezza sommersa da altra tristezza”.

Rachid Benzine è uno scrittore, professore e politologo franco-marocchino, islamista attivo nella lotta contro il razzismo  e nella promozione del dialogo interreligioso, soprattutto tra Islam e Cristianesimo. Tra i suoi volumi tradotti in italiano vanno citati Il Corano spiegato ai giovani e Canto d’amore a mia madre. Questo suo recente lavoro è una testimonianza importante della volontà di resistenza del popolo palestinese, raccontata e ed esaltata non solo attraverso immagini di guerra, ma utilizzando l’amore per la parola, raccolta e diffusa dalle pagine della letteratura mondiale.

Il fotoreporter francese Julien Desmanges è stato incaricato dal suo giornale parigino di raccogliere visivamente le immagini più toccanti e sensazionalistiche della sofferenza degli abitanti di Gaza, con la finalità di suscitare non solo la commozione dei lettori, ma anche di stuzzicare la loro curiosità morbosa: bambini piangenti e affamati, soldati feriti, palazzi squarciati. Dall’albergo in cui risiede, insieme ad altri colleghi della stampa internazionale, si spinge a visitare i quartieri più devastati dai bombardamenti: “I marciapiedi sono un mare di macerie, pezzi di cemento polverizzati, travi rotte, come se un gigante avesse schiacciato la città sotto i suoi piedi. Le automobili, o quel che ne rimane, sono bruciate, carbonizzate, incastrate nelle rovine, come barche arenate”. Improvvisamente, in quel panorama desolato, gli appare la figura di un vecchio, magro, con capelli e barba incanutiti e gli occhiali rabberciati con il nastro adesivo, seduto su uno sgabello a leggere un libro, davanti a una vetrina scheggiata attraverso cui si intravedono centinaia di volumi ammucchiati alla rinfusa. Il cronista francese gli chiede il permesso di fotografarlo, sullo sfondo della sua bottega polverosa. L’anziano libraio lo invita invece a sedersi, a prendere il tè con lui, ad ascoltarlo raccontare di sé, della sua vita: “Una fotografia cattura un uomo in un istante, ma cosa rimane, nell’immagine, della vita di quell’uomo?” La parola scambiata, trascritta, riportata agli altri, resta invece rivelatrice, con tutta la propria carica di esperienza, di memoria, di dolore.

Così Nabil Al Jaber racconta di sé, nato presso Haifa nel 1948 da madre musulmana e padre cristiano, costretti ad abbandonare la loro casa durante la Nakba, inseguiti e picchiati da soldati israeliani tra migliaia di profughi malnutriti, in un pellegrinaggio umiliante di città in città, da Balad al-Shaykh a Nazareth, dal campo di Aqabat Jaber a quello di Jabaliya in Gaza: “La sabbia grigiastra ricopriva tutto, i nostri indumenti, i nostri volti. Anche la gente sembrava essersi fusa in questa tavolozza di colori tristi, i tratti del volto segnati dalla fatica… Rimaneva soltanto qualche scintilla di vita: il velo islamico colorato di una donna, la camicia chiassosa di un bambino che giocava. Di notte, il freddo umido, talvolta glaciale, ti stringeva come in una morsa, perfida e insidiosa, e s’insinuava ovunque… Io sono cresciuto nel campo come un albero contorto, educato tra suore cattoliche missionarie e imam… Un bambino tra due mondi. Forse un traghettatore. Un traghettatore di storie, di preghiere, di parole che si ricongiungono come fiumi. Capivo le sure ma capivo anche le parabole”. Dal Corano e dal Vangelo il piccolo Nabil impara la comprensione verso tutti gli esseri umani, il senso della giustizia anche quando viene calpestata. Impara che la letteratura può diventare una forma di resistenza di fronte agli orrori, che le parole “salvano in silenzio. La realtà è la stessa, niente può rovesciare l’oppressione, ma la mente invece può fuggire”.

Nel 1967, durante la guerra dei sei giorni, carri armati israeliani invadono Gaza e distruggono le case. Vengono uccisi il fratello e i nonni di Nabil, che sempre di più si rifugia nella lettura, inizia ad apprezzare il teatro, fino a quando riesce a emigrare al Cairo per frequentare l’università. Decide lì la sua sorte futura: trasmettere alla sua gente quello che ha imparato, raccogliendo, distribuendo e regalando immagini e idee. Quindi André Malraux, Victor Hugo, Simone Weil, Racine, Shakespeare, Primo Levi, Solženicyn, Foucault, Kundera, Marquez. Ma anche poeti e narratori arabi: Mahmud Darwish, Omar Khayyam, Mohammed Dib, Murid al-Barghuti, Sahar Khalifa. E la Bibbia con il libro di Giobbe, creatura umana messa incessantemente alla prova da Dio. Tornato a Gaza nel 1973, dopo la guerra del Kippur, Nabil lotta per la liberazione del suo paese, entra nella resistenza palestinese, viene arrestato e incarcerato per vent’anni.

Questo il vecchio libraio racconta al fotoreporter francese, seduto davanti alla bottega in cui i volumi “sono classificati per affinità segrete, per legami sottili che lui solo sembra conoscere”. Nelle loro pagine ha trovato la possibilità di sopravvivere al lutto, al dolore, alla rabbia: pagine che restano e resteranno al di là delle morti individuali, delle case distrutte, della scomparsa delle librerie.

 

RACHID BENZINE, IL LIBRAIO DI GAZA – IL CORBACCIO, MILANO 2025

Traduzione dall’originale francese di Lucia Corradini Caspani. Pagine 144

 

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