Diritti
Off-grid ma solo se bianchi: la famiglia nel bosco e le lenti ideologiche dell’Italia
La storia della famiglia nel bosco rivela più di quanto sembri: se i protagonisti fossero stati africani, la stessa vicenda sarebbe stata letta come fallimento dell’integrazione. Ai bianchi si attribuisce eccentricità, alle minoranze un problema culturale. Gli alberi non cambiano
La vicenda della famiglia nel bosco scoperta (diciamo) in Abruzzo, i genitori off grid, i figli spostati con la madre per decisione del tribunale, le accuse allo Stato rapitore, la difesa dell’obbligo scolastico e delle condizioni igienico abitative, si sono trasformati nel consueto duello ideologico.
Libertà individuale contro tutela dei minori, magistratura contro politica, vita romantica e libera nella natura contro il sistema capitalistico.
Ognuno ha sentito la necessità di pontificare, cavalcando la vicenda per rappresentare il proprio posizionamento. Forse nemmeno questo articolo sarà salvo dalla deriva, tuttavia è il caso di cercare di capire non tanto cosa dire della famiglia nel bosco ma cosa questa faccenda dice di noi.
L’identità dei protagonisti, anglo australiani bianchi, ha favorito un’interpretazione endogena del caso. Tutta la discussione è rimasta confinata in categorie psicologiche, sociali e politiche interne al perimetro dell’Occidente. Il diritto allo stile alternativo di vita, l’homeschooling, l’ecologismo radicale, non hanno intaccato il concetto di appartenenza né sfiorato il nervo sensibile dell’integrazione culturale. Chi strizza l’occhio alla remigrazione ha persino benedetto i genitori nel bosco.
Cosa sarebbe accaduto se quella famiglia, nelle stesse identiche condizioni, anche economiche, fosse stata africana, nera, di recente immigrazione?
Per non cadere in simulazioni astratte e basate su convinzioni personali o di area, proviamo a considerare dei precedenti reali del dibattito europeo. Vediamo allora subito che quando i protagonisti sono percepiti come minoranza etnica stigmatizzata, l’evento smette di essere inquadrato come off grid singolare e diventa immediatamente la prova di un ragionamento preesistente. A destra e a sinistra, per essere chiari.
Forse qualcuno ricorderà che nel 2019, nei Paesi Bassi, nella fattoria di Ruinerwold venne scoperta una famiglia vissuta per anni nell’isolamento più totale perché il padre attendeva “la fine dei tempi”. Bambini, ragazzi, chiusi in una stanza segreta, senza poter andare a scuola, senza contatti con l’esterno. I media olandesi lo definirono un caso di abuso psico settario, sottolineando il fallimento dei servizi sociali locali. Nessuno, ovviamente, stabilì una contestazione su base etnica: i protagonisti erano bianchi, olandesi, cittadini. Erano percepiti come nostri che sbagliano.
Più recente è il caso francese del padre terrorizzato dal Covid che aveva portato i figli nei boschi per anni. Li scoprirono nel 2021; i bambini con gravi carenze educative, semianalfabeti, abitavano in una capanna. L’intero dibattito pubblico si bloccò sul complottismo, la salute mentale, la paranoia individuale, la responsabilità genitoriale. Ancora, dunque, una polemica legata al rapporto Stato-individuo.
Se spostiamo lo sguardo sulle cosiddette minoranze razzializzate, cambia completamente il paradigma di riferimento. Nel Regno Unito, ad esempio, gli studi mostrano una sovrarappresentanza dei Rom nel sistema di tutela dell’infanzia. Questo, non perché vi sia una prova empirica di maggiori abusi ma perché il modello di vita nomade, non assimilabile a quello maggioritario, viene percepito come inadeguato e a rischio. I media conservatori pongono l’accento sul problema delle comunità problematiche, sull’impossibilità dell’integrazione per via della difficoltà di accettare le regole nazionali. Per altro verso le ONG e la stampa progressista parlano di razzismo istituzionale e di stereotipi automatici incorporati nel sistema di tutela sociale.
Per dirla in soldoni: la destra vede il simbolo del fallimento del multiculturalismo, la sinistra la prova dell’oppressione discriminatoria dei più deboli.
In Italia, nella controversia sui Rom, sugli immigrati senza inclusione, sugli sgomberi, la destra italiana parla di problemi di sicurezza, degrado, modelli non compatibili con la nostra organizzazione sociale. Il contraltare della sinistra – e di alcuni organismi europei impegnati nella tutela – esalta il problema dei diritti umani violati, della discriminazione sistemica, delle assunzioni ideologiche dello Stato.
Se la famiglia nel bosco fosse stata costituita, anziché da benestanti anglo australiani, da neri africani non sarebbe mai stata etichettata come famiglia che fugge dal sistema ma come una famiglia che non può integrarsi nel sistema. Il discorso interpretativo, dunque, non sarebbe stato in merito alla scelta di vita ma all’Italia e al suo modello di integrazione.
Le reazioni dell’opinione pubblica sarebbero state (e sono state) anche orientate dalla narrazione di una storia completamente diversa a seconda del modello interpretativo.
Ancora, andando per le vie brevi: ai bianchi che vivono ai margini si applicano categorie individuali o sistemiche: devianza, fallimenti dello Stato, libertà personale. Alle minoranze razzializzate si applicano categorie identitarie: integrazione, valori, confini culturali, razzismo.
Alla fine, non è rilevante la verità, il buon senso, i diritti umani ma la rivendicazione dell’interpretazione simbolica.
In sostanza, se la famiglia nel bosco fosse stata africana e immigrata (anche con permesso di soggiorno) la destra avrebbe gridato all’incompatibilità culturale e alla sicurezza; la sinistra alla discriminazione sistemica e ai diritti violati.
Il senso dei corpi nel dibattito politico, della carne viva in cui si manifestano sentimenti ed emozioni è un rumore di fondo. Non nel bosco ma ai margini del Paese.
La differenza la fanno le lenti ideologiche. Gli alberi sono gli stessi.
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