Innovazione

Occupazione in crescita, produttività ferma: le sfide della trasformazione digitale in Italia

21 Gennaio 2025

Nonostante una crescita dell’occupazione, l’Italia registra stagnazione nella produttività e ritardi nell’adozione tecnologica, con criticità legate a competenze digitali, formazione continua e innovazione organizzativa. Le imprese incontrano difficoltà nel trasformare investimenti ICT in output produttivi, mentre persistono divari generazionali e di genere. Un approccio olistico e collaborativo è necessario per superare le sfide e valorizzare il potenziale dell’IA e della trasformazione digitale.

🔸Gli indizi
Anche se il susseguirsi di indizi non costituisce necessariamente una prova, offre quantomeno uno spunto di riflessione. Da un lato, ci si riferisce all’andamento della produzione industriale e del PIL; dall’altro, alla dinamica dell’occupazione e alla crescente adozione del digitale nelle imprese italiane.
Per quanto concerne la prima, il 20 dicembre 2024 il contatore de IlSole24ore sui giorni di calo della produzione industriale era arrivato a 688 e si è interrotto con i dati appena rilasciati grazie a un timido +0,1%. Ora la variazione acquisita nel 4° trimestre è +0,1% (-0,5% nel 3°, 6 trimestri consecutivi in calo), ma l’indice RTT del Centro Studi di Confindustria, il cui ultimo aggiornamento è stato rilasciato il 10 gennaio 2025, segna -5,1% a novembre per l’industria e -3,7 per i servizi. Niente per cui star tranquilli. Sul fronte del Prodotto Interno Lordo, le stime Istat per il 2024 (ancora in attesa di conferma a fine gennaio) indicano un tiepido +0,5%, cui potrebbe seguire un +0,8% nel 2025. Si tratta di cifre inferiori alle previsioni governative, seppur sostenute dal PNRR.

Sul versante opposto, l’occupazione prosegue il trend di crescita iniziato nel 2021. Stando agli ultimi dati dell’Istituto Nazionale di Statistica, a novembre 2024 il tasso di occupazione è aumentato dell’1,4% su base annua, attestandosi al 62,4%. È vero che, rispetto a ottobre, vi è un lieve calo (-0,1%), ma il livello di quel mese era il più alto registrato dal 2004 (anno di introduzione dei dati mensili confrontabili). Nonostante questo progresso, l’Italia mantiene il tasso di occupazione più basso tra i Paesi dell’Unione Europea.
Analizzando inoltre la composizione degli occupati, la quota femminile resta quasi 20 punti percentuali al di sotto di quella maschile, mentre il numero degli inattivi è in aumento. Se si considerano le fasce d’età, i giovani continuano a segnare il passo.

Secondo i dati Istat, la percentuale di imprese con almeno 10 addetti che adottano tecnologie di intelligenza artificiale è passata dal 5,0% all’8,2%, rimanendo tuttavia al di sotto del 13,5% registrato nell’UE27. Nell’arco di dieci anni, il fatturato online delle PMI (imprese con 10-249 addetti) è aumentato dal 4,8% al 14,0% del totale (a fronte di un passaggio dall’8,5% al 12,4% nella media UE27). Inoltre, cresce anche l’adozione di strumenti avanzati di sicurezza informatica: il 32,2% delle imprese con almeno 10 addetti (contro il 28,0% del 2022) dichiara di utilizzare almeno sette delle 11 misure di sicurezza analizzate, un dato che si confronta con il 38,5% dell’UE27.

🔸La prova?
Semplificando, se il numero di lavoratori cresce mentre la produzione ristagna, è possibile che esista un problema di produttività. Le cause possono essere molteplici: l’incremento degli occupati potrebbe concentrarsi in settori o mansioni a basso valore aggiunto; la crescita potrebbe avvenire con un numero ridotto di ore lavorate; i nuovi assunti potrebbero non sfruttare appieno le dotazioni tecnologiche (una presenza marginale di giovani può incidere negativamente) o potrebbero essere impiegati in aziende con basso livello di digitalizzazione, come emerge dalla tabella in calce all’articolo; gli altri fattori di produzione potrebbero non generare il valore atteso oppure, pur essendo disponibili, non vengono impiegati in modo ottimale, anche a causa di scarse innovazioni organizzative e di processo.
In un report del 9 gennaio 2025, l’Istat analizza l’andamento della produttività* nel periodo 1995-2023. Il metodo adottato consente di scomporre la dinamica dell’output nei contributi dei fattori produttivi primari (lavoro e capitale) e della Produttività Totale dei Fattori (PTF). Quest’ultima è definita come “il rapporto tra l’indice di volume del valore aggiunto e l’indice di volume dei fattori primari, e cattura gli effetti del progresso tecnico e di altri fattori propulsivi della crescita: innovazioni nei processi produttivi, miglioramenti nell’organizzazione del lavoro e delle tecniche manageriali, oltre che l’aumento dell’esperienza e del livello di istruzione della forza lavoro”.
Osservando i dati, nel 2023 la produttività del lavoro è diminuita del 2,5%, a fronte di un incremento delle ore lavorate (+2,7%) più marcato rispetto a quello del valore aggiunto (+0,2%). Inoltre, pur avendo registrato nel periodo 1995-2023 una crescita media annua dello 0,4%, il dato italiano resta distante dalla media europea, che nello stesso arco temporale ha segnato un +1,5%.
Concentrandosi in particolare sulla parte di innovazione tecnologia e digitale, nel periodo 1995-2023 l’input di capitale ICT (Information and Communication Technologies) è cresciuto in media del +2,7% annuo. Nello stesso intervallo, però, la produttività è calata dell’1,8% annuo.

🔸Le ipotesi
Possono esserci varie cause o spiegazioni, non escludenti ma anzi concatenate. Tali elementi sono stati messi in luce, in modo più direttamente collegato con l’IA, da Erik Brynjolfsson, Daniel Rock, and Chad Syverson. Gli autori, un lavoro del 2018**, esaminano diverse spiegazioni del problema, suddividendole in due categorie principali: quelle che spiegano la discordanza tra alte aspettative e realtà statistica con un errore in uno dei due elementi, e quelle che vedono l’apparente contraddizione come naturale manifestazione dell’implementazione di u#_ftn1na nuova tecnologia. Nel primo caso, ognuna delle prime tre ragioni – false speranze, misurazione errata e distribuzione concentrata – si basa sullo spiegare la discordanza tra le alte aspettative e le deludenti realtà statistiche. In ogni caso, uno dei due elementi si presume essere “sbagliato”. Nel secondo, si riconosce che le sue due parti apparentemente contraddittorie non sono in realtà in conflitto. Piuttosto, entrambe le parti sono in un certo senso manifestazioni naturali dello stesso fenomeno sottostante di costruzione e implementazione di una nuova tecnologia.
Di conseguenza, le imprese che intraprendono la trasformazione digitale spesso si trovano a dover rivedere non solo i processi interni, ma anche le catene di fornitura e distribuzione, con interventi che interessano l’intera struttura organizzativa.
In entrambi i casi, gli autori descrivono una “J-Curve” nella misurazione della produttività. Inizialmente, gli investimenti in capitale AI non misurato portano ad una sottovalutazione della produttività. In seguito, quando i benefici di questo capitale si manifestano, si può osservare una sovrastima della produttività misurata, che viene erroneamente attribuita alla PTF.

Le evidenze empiriche suggeriscono che molte imprese incontrano ostacoli nell’integrare efficacemente le nuove tecnologie nei processi produttivi. L’adozione di soluzioni digitali avanzate richiede infatti sia una riorganizzazione dei flussi di lavoro sia un cambiamento culturale, aspetti spesso sottovalutati. Un fattore chiave è la carenza di competenze adeguate tra i lavoratori, che risulta al contempo causa ed effetto di un utilizzo subottimale della tecnologia. Anche i sistemi più sofisticati, infatti, necessitano di operatori formati capaci di sfruttarne appieno le potenzialità; se gli investimenti tecnologici non sono accompagnati da piani di formazione mirati, l’impatto sulla produttività resta limitato. Peggio ancora, si corre il rischio di adottare soluzioni ormai superate o poco adatte alle esigenze specifiche dell’azienda, spesso per inseguire incentivi o per timore di perdere terreno rispetto ai concorrenti.
Sul piano macroeconomico, inoltre, persistono inefficienze strutturali che rallentano la trasformazione digitale di alcuni settori, impedendo di coglierne i vantaggi. Vi è poi un problema di misurazione: gli indicatori di produttività attuali potrebbero non catturare appieno i benefici delle tecnologie digitali, specialmente nei comparti dei servizi, dove miglioramenti qualitativi — come la maggiore rapidità o personalizzazione del servizio — non sempre emergono nelle metriche convenzionali.
Infine, una possibile spiegazione potrebbe coinvolgere il rendimento marginale decrescente: oltre una certa soglia, ulteriori investimenti in ICT producono benefici via via minori, a meno che non siano supportati da trasformazioni organizzative profonde. Va detto, però, che se questo fenomeno fosse la causa principale, ci si aspetterebbero andamenti e indicatori ben diversi dagli attuali.
Ci troviamo quindi dinanzi al cosiddetto “paradosso di Solow” — già analizzato in precedenza — e a quello attribuito a Michael Polanyi, filosofo ungherese-britannico della metà del XX secolo noto per i suoi studi in filosofia e teoria dell’informazione. Quest’ultimo paradosso, con le parole di Stefano Gatti nella sua ultima newsletter, si fonda sull’idea che molte delle nostre abilità siano difficili da spiegare in termini espliciti. In breve, come sintetizza Jeremy Kahn (AI Editor di Fortune), “we know more than we can tell.”
Tale concetto mette in luce la complessità di codificare il sapere implicito o tacito, cioè quelle competenze che applichiamo in modo intuitivo, senza esserne del tutto consapevoli. Secondo Kahn, l’IA generativa ci starebbe avvicinando al superamento di questo limite, a patto che le imprese riescano a formalizzare il proprio know-how. Un traguardo che, per molte realtà italiane, appare ancora lontano.
Nel frattempo, se da un lato si stanno finalmente rendendo disponibili i dati numerici generati dai processi produttivi, dall’altro occorre imparare a valorizzare anche quelli qualitativi e impliciti. Riuscirci implica un percorso articolato, che veda coinvolti non solo gli specialisti ICT, ma l’intera forza lavoro.

A questo proposito, risultano particolarmente interessanti le considerazioni di Francesca Borgonovi, Head of Skills Analysis presso l’OECD Centre for Skills, illustrate lo scorso 12 dicembre in occasione della presentazione dell’Osservatorio sulle Competenze Digitali di Anitec-Assinform, in collaborazione con AICA, Assintel e Assinter Italia.
Borgonovi descrive un modello a “piramide”, secondo cui la transizione digitale e l’intelligenza artificiale non richiedono esclusivamente data scientist o specialisti IA, ma chiamano in causa l’intera popolazione lavorativa, che deve acquisire competenze tali da applicare l’IA al proprio contesto professionale quotidiano.
Prendendo in esame la maggioranza della popolazione impiegata in ambiti non ICT, la Survey of Adult Skills 2023 (pubblicata lo scorso 10 dicembre) evidenzia come in Italia, nella fascia 16-65 anni, il livello di competenze resti al di sotto della media OCSE in ambito literacy (245 punti), numeracy (244 punti) e problem solving adattivo (231 punti). Circa il 35% degli adulti italiani mostra livelli molto bassi sia in literacy sia in numeracy (livello 1 o inferiore), a fronte di una media OCSE del 26% e 25%. Inoltre, solo il 5% raggiunge l’eccellenza in literacy e il 6% in numeracy, contro il 12% e 14% rispettivamente nella media OCSE. Nel problem solving adattivo, il 46% si colloca al livello 1 o inferiore, mentre soltanto l’1% eccelle, a fronte del 5% nella media OCSE.
I giovani fra 16 e 24 anni ottengono punteggi medi leggermente superiori rispetto alle fasce d’età più avanzate, ma rimangono comunque al di sotto della media internazionale. Il divario tra i 55-65enni e i 25-34enni evidenzia un gap generazionale che riflette sia la qualità sia la quantità dell’istruzione ricevuta. Infine, il 26% degli adulti italiani registra valori molto bassi in tutti e tre i domini, a fronte del 18% della media OCSE, confermando la presenza di sfide strutturali nel sistema educativo e formativo nazionale.

🔸Uno sguardo d’insieme
Di conseguenza, è fondamentale contestualizzare il processo di trasformazione digitale e non isolarlo dal quadro generale. Per esempio, per quanto l’intelligenza artificiale appaia promettente nel fronteggiare sfide quali transizione ecologica, invecchiamento demografico, crescita delle disuguaglianze e rallentamento economico, il suo impatto effettivo sul lavoro e sulle imprese è ancora in larga parte da verificare. Tali priorità emergono anche dal Future of Jobs Report 2025 del World Economic Forum, pubblicato nel gennaio 2025, che, come di consueto, include numerose percentuali e previsioni sulle tendenze del mercato del lavoro.

Stando alle indagini del Report, entro il 2030 quasi la metà delle mansioni attuali (47%) potrebbe essere svolta prevalentemente da macchine, modificando in modo radicale il mercato del lavoro globale. Le competenze oggi disponibili subiranno una trasformazione altrettanto profonda: secondo le stime, il 39% diventerà obsoleto o verrà rivisto in maniera sostanziale nei prossimi anni. Ne consegue che il 59% della forza lavoro mondiale richiederà un aggiornamento formativo, sia per adeguarsi alle mansioni esistenti (29%) sia per ricollocarsi in nuovi ruoli (19%). Resta inoltre un margine di esclusione non trascurabile, poiché l’11% dei lavoratori rischia di non acquisire le competenze necessarie, esponendosi a una maggiore vulnerabilità occupazionale.
Tra gli elementi più rilevanti figurano le competenze maggiormente richieste, in linea con il nuovo paradigma economico: alfabetizzazione digitale, gestione dei big data e sicurezza informatica spiccano nell’ambito tecnologico, mentre il pensiero analitico, la creatività e la resilienza emergono tra quelle di natura cognitiva e relazionale. Non meno importanti risultano le competenze legate alla sostenibilità, come la gestione delle energie rinnovabili e l’implementazione di tecnologie verdi.
Tuttavia, il divario di competenze rimane un ostacolo di primo piano: il 63% dei datori di lavoro lo indica come principale freno alla trasformazione. Per rispondere a questa criticità, l’85% delle aziende dichiara di aver avviato programmi di riqualificazione interna, il 70% valuta assunzioni mirate e il 50% intende riconvertire risorse provenienti da ruoli in declino verso posizioni emergenti.
Su questo l’Italia non fa eccezione, ponendo la formazione nelle sue varie declinazioni in cima alle priorità, così come la carenza di competenze e la difficoltà ad attrarre talenti in vetta alle criticità, affiancate da una preoccupazione sulla presenza di dati e infrastrutture tecniche adeguate. Interessate notare che la carenza di competenze nel mercato del lavoro sia inferiore in Italia di cinque punti percentuali rispetto alla media globale, trovandosi al primo posto anche in Paesi come Francia, Germania, Danimarca e Stati Uniti.
Inoltre, come mettono in luce i dati dell’ultimo Osservatorio di Anitec-Assinform, l’Italia è in ritardo rispetto agli altri Paesi europei per percentuale di laureati ICT e specialisti ICT nelle imprese. Con solo l’1,5% di laureati ICT sul totale, siamo all’ultimo posto nella classifica europea, che vede il 4,5% di media e, per alcuni confronti, il 5,8% in Germania, il 5,3% in Spagna, 4,1% in Francia e 3,5% in Grecia. Un risultato altrettanto sconfortante per gli specialisti impiegati.

Per colmare tale divario, è essenziale una collaborazione sinergica tra settore pubblico e privato: da un lato, politiche pubbliche dedicate — come il finanziamento di corsi di aggiornamento facilmente accessibili — e, dall’altro, investimenti delle aziende in formazione interna, così da assicurare una transizione inclusiva e produttiva. Come ricorda l’Associazione, occorrerebbe aumentare l’offerta di corsi ICT, potenziare percorsi alternativi come gli ITS e migliorare la collaborazione tra imprese e università. Un ruolo che può essere svolto dal sistema costruito con il PNRR, che rischia però di vacillare allo scadere del piano. Digital Innovation Hub, Competence Center, Università e imprese dovranno rimanere capaci di collaborare e costruire percorsi di sviluppo condivisi, per evitare duplicazioni o una digitalizzazione a macchia di leopardo.

🔸Skill tecniche, ma anche trasversali e “soft”

Tornando all’analisi OECD, Borgonovi sottolinea inoltre come l’assenza di un sistema di formazione continua davvero efficace in Italia contribuisca al declino delle competenze nelle fasce di età più avanzate, mentre Paesi come la Svezia offrono percorsi formativi che sostengono i lavoratori lungo tutto l’arco della carriera. Al di là delle competenze tecniche, resta cruciale un cambio di mentalità per capitalizzare le opportunità offerte dall’IA: siamo di fronte alla possibilità di ripensare radicalmente mansioni, processi e metodologie per il raggiungimento degli obiettivi.
In questo scenario, l’IA agisce in modo paradossale: da forza potenzialmente dirompente può rivelarsi un prezioso alleato, grazie a piattaforme personalizzate e simulazioni pratiche che accelerano l’acquisizione di competenze tecniche avanzate.
Benché l’uso di percentuali per descrivere scenari futuri possa risultare spesso fuorviante, resta comunque utile analizzare questi dati per apprezzare la portata (o la percezione) delle trasformazioni in atto. Al di là delle singole classifiche, si possono cogliere alcuni spunti fondamentali: da un lato, crescono la domanda di competenze digitali e legate alla transizione ecologica, mentre diminuisce il fabbisogno di mansioni facilmente automatizzabili; dall’altro, emergono sempre più chiaramente le competenze trasversali, che ribadiscono il valore della relazione e il ruolo specifico dell’essere umano in affiancamento alla tecnologia.
Ne consegue che le sfide investono l’intero sistema formativo e lavorativo, interessando sia chi è già occupato, sia chi sta per entrare o uscire dal mercato del lavoro, senza dimenticare gli studenti che si preparano a esservi inseriti. Al tempo stesso, le persone acquisiscono un valore crescente per le organizzazioni, le quali — almeno a livello dichiarativo — intensificano i propri sforzi in ambito ESG, con interventi che incidono trasversalmente sui principali indicatori aziendali.
Occorre dunque un approccio olistico che includa scuola, formazione professionale e iniziative promosse dalle aziende, così da affrontare in modo sistemico le sfide poste dall’IA e dalla trasformazione digitale. Diversamente, se ci si limita a introdurre nuove tecnologie senza un’adeguata riorganizzazione e con carichi di lavoro crescenti, si rischia di alimentare dinamiche di burnout, come evidenziato dalla ricerca “From Burnout to Balance: AI-Enhanced Work Models” di Upwork.

Considerando nuovamente il legame tra produttività e innovazione tecnologica, si intravede un’opportunità significativa per un Paese come l’Italia. Da Techno-Optimist, sono convinto che la tecnologia, pur generando timori, possa offrire soluzioni ai rischi che essa stessa comporta, diffondendone al contempo i benefici. Al momento, tuttavia, a fronte di alcuni casi di eccellenza, la trasformazione digitale nel nostro Paese procede a rilento.
Sarebbe forse facile identificare un unico responsabile — la Pubblica Amministrazione, le imprese o i lavoratori — ma i dati evidenziano chiaramente che nessuno è davvero esente da responsabilità. I timidi miglioramenti registrati nei livelli di digitalizzazione di personale e imprese non si traducono in riscontri altrettanto positivi sul versante degli output.

Elaborazioni su dati ISTAT

Inoltre, se rapportati alle medie europee, questi dati evidenziano come il divario tra le realtà più avanzate e il resto del panorama, siano esse imprese o interi Paesi, tenda ad ampliarsi ulteriormente. Il rischio, come messo in luce da vari osservatori, tra i quali i ricercatori di McKinsey & Company (2024), “Rewired and running ahead: Digital and AI leaders are leaving the rest behind , significa ricadere nella logica del “winner takes all” (ovvero del “vincitore prende tutto”). Guardando anche solo al nostro Paese, ignorando quindi i grandi colossi della Silicon valley, secondo gli ultimi dati Istat relativi all’utilizzo dell’ICT nelle imprese, la dimensione aziendale non influisce solo sulla propensione a investire in tecnologia, ma anche sulla capacità di individuare i fattori di digitalizzazione che potranno migliorare competitività e sviluppo nel biennio 2025-2026. A tal proposito, il 26,3% delle imprese di minori dimensioni ritiene che nessun fattore possa incidere positivamente nel periodo considerato, contro appena il 7,0% delle imprese di grandi dimensioni.
In merito ai principali fattori trainanti, le imprese con almeno 10 addetti indicano:

  • Agevolazioni e finanziamenti pubblici a sostegno della digitalizzazione (57,8%; 72,7% tra quelle con almeno 250 addetti e 62,9% nelle aziende del Mezzogiorno).
  • Formazione del personale già in organico per potenziare le competenze tecnologiche (38,1%; 70,8% nelle grandi imprese).
  • Infrastrutture e connessioni in banda ultra larga (33,4%; 54,8% nelle grandi).

Seguono poi:

  • L’adozione di una strategia di digitalizzazione (indicata dal 31,4% delle imprese con almeno 10 addetti e dal 61,6% di quelle più grandi).
  • Il reclutamento di nuove competenze tecnologiche tramite assunzioni (22,0%; 55,4% nelle grandi).
  • La collaborazione in rete con altre imprese e centri di ricerca (13,5%; 30,0% nelle imprese di grandi dimensioni).

Inoltre, come emerge dalla tabella seguente, anche il rapporto con la produttività sembra trovare alcune correlazioni.

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*il rapporto tra il volume dell’output e gli input che concorrono alla sua realizzazione. Essa misura l’efficienza con cui i fattori primari — lavoro e capitale — vengono impiegati nel processo di produzione, ed è considerata un indicatore chiave di crescita economica e competitività, anche ai fini del confronto internazionale.
** Erik Brynjolfsson & Daniel Rock & Chad Syverson, 2018. “Artificial Intelligence and the Modern Productivity Paradox: A Clash of Expectations and Statistics,” NBER Chapters, in: The Economics of Artificial Intelligence: An Agenda, pages 23-57, National Bureau of Economic Research, Inc

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