Teatro
Frankenstein: la creatura e la creatrice. Uno spettacolo di Ivonne Capece
Dal 12 al 16 marzo torna in scena, al Teatro Fontana di Milano, Frankenstein, per la regia di Ivonne Capece. La storia è un classico e non ha bisogno di presentazioni: uno studente di scienze naturali – Frankenstein – assembla una creatura, a cui decide di dare vita, a partire da parti anatomiche di cadaveri. L’esperimento è un successo, ma il creatore si dimostra insoddisfatto e rifiuta la sua stessa creazione di cui non riesce a non aver paura. Lo stesso accade all’autrice di questo racconto – Mary Godwin Shelley – che dopo averlo dato alle stampe ne sminuisce l’importanza e la portata, nonostante il successo. Shelley continuerà per tutta la vita a ridimensionare quello che, giustamente, verrà considerato un classico della letteratura, cercando di riportare la sua figura a una “normalità” fatta di ciò che al tempo competeva a una donna: la cura di casa e della famiglia. L’opera che ha suggerito al grande pubblico dei lettori che una donna potesse primeggiare, al pari dei colleghi scrittori, in ambito letterario, è diventata quindi prova di un’ambizione difficile da rivendicare, quasi disturbante e per questo censurata. Lo spettacolo racconta quindi una duplice storia: quella narrata dal romanzo e quella della sua autrice, la fuga dello scienziato dal mostro da lui creato e il tentativo di negazione della maternità del testo da parte della letterata. Ho intervistato la regista, Ivonne Capece, per approfondire con lei il complesso percorso della messa in scena di questa pièce.
Negli ultimi anni abbiamo – per fortuna – assistito a un’importante accelerazione negli studi e nelle riflessioni sulle figure di artiste, poetesse, scrittrici, scienziate del passato. Questo dopo secoli di storia e storie al maschile, che hanno spesso marginalizzato il ruolo delle donne. Da cosa è nato il tuo desiderio di raccontare l’immortale storia di Frankenstein a partire da una parallela riflessione sulla sua creatrice?
Non credo che si possa raccontare Frankenstein senza Mary Shelley: perchè il romanzo è di fatto una autobiografia nascosta (o inconscia). Mary Shelley non ha solo scritto Frankenstein—lo ha vissuto sulla sua pelle. È stata una creatrice in un mondo che non voleva lasciarle spazio, esattamente come la sua Creatura. Un profilo eccezionale e a tratti surreale per la sua epoca: figlia di genitori totalmente atipici (il padre Willian Godwin, un famoso autore radicale, la madre Mary Wolstonecraft, una scrittrice famosa proto-femminista); un’outsider nella letteratura, per la semplice circostanza di essere donna in un mondo intellettuale totalmente dominato dagli uomini; convivente senza essere sposata con Percy Shelley (da cui ebbe numerosi figli, quasi tutti morti, oggi diremmo per grave incuria genitoriale); praticante il poliamore e il veganesimo. Il mio desiderio di raccontare questa storia nasce dalla consapevolezza che Mary stessa è stata il “mostro” del suo romanzo: una donna troppo intelligente, troppo indipendente, troppo libera per essere accettata senza riserve. Anche da se stessa. Il conflitto che per tutta la vita mostrerà nei confronti del suo stesso talento e della sua più famosa opera è un segno evidente di ciò: Mary è sia il dottore che la creatura. E ho voluto segnalare il posto che le spetta: non solo come autrice di un capolavoro – che ha segnato tra l’altro la nascita di un genere topico della contemporaneità (quello della Fantascienza e delle distopie) oltre a creare uno dei più famosi miti dell’età tecnologica (la Creatura umanoide realizzata artificialmente) – ma come figura dirompente, che con la sua penna e la sua vita ha sfidato le regole, è andata avanti di 200 anni e si è presa l’eternità.
Scrivere come atto sovversivo e rivoluzionario per una donna, ancora di più quando i temi trattati non appartenevano, all’epoca, ai generi tradizionalmente attribuiti all’universo femminile. Mary Shelley abbraccia questo ruolo, poi sembra volerlo disconoscere, sminuendolo, ma afferma comunque il suo io, il suo ruolo di autrice usando, a differenza di quanto farà Mary Anne Evans (George Eliott) che si celerà sotto uno pseudonimo. Quanta riflessione possiamo aspettarci, in questo spettacolo, sull’io narrante che si assume la maternità dell’opera in un’epoca in cui alle donne era negata voce in capitolo persino sulle scelte personali più intime?
Lo spettacolo affonda i denti in questa contraddizione: Mary Shelley crea un’opera che sfida ogni convenzione, ma poi sembra quasi volerla ridimensionare, come se avesse paura della sua stessa ombra. Non sceglie un nome maschile, non si nasconde dietro uno pseudonimo, eppure sembra voler minimizzare il proprio ruolo, come se sapesse che il sistema non le avrebbe mai perdonato di aver giocato a mettersi in primo piano come intellettuale. Essere e non essere, dichiararsi e ritrarsi, creare e poi rinnegare: un riflesso di quella società che imponeva alle donne di esistere a metà, di chiedere scusa per il proprio genio. In una delle scene più forti dello spettacolo Mary sradica dal fondale il tessuto bianco su cui ha scritto ripetendo ossessivamente: “Fare, dimenticare”. La regia gioca moltissimo sull’ambiguità dell’io narrante: chi detiene davvero il controllo della storia? Chi la recita per lo spettatore? La Creatura, il Creatore o la donna che ha dato loro vita? E come può una donna rivendicare la maternità della propria opera in un mondo che non le permette nemmeno di scegliere sulla propria vita privata? In scena esploriamo questa lotta di potere, il bisogno di Mary di affermarsi senza chiedere il permesso, ma anche le gabbie che l’epoca le imponeva. Scrivere era già un atto rivoluzionario. Farlo senza nascondersi significava pagare un prezzo della visibilità.
Quanta fatica, ancora oggi, le donne fanno nell’ammettere il valore del successo, senza sensi di colpa nei confronti di eventuali altri ruoli sociali rivestiti (mogli, madri, compagne, figlie) o il peso di un giudizio esterno che le costringe a non sentirsi “mai abbastanza”?
La fatica è enorme, perché il meccanismo non è cambiato: una donna di successo è sempre chiamata a giustificarsi. Se raggiunge un traguardo, deve dimostrare che non ha trascurato nessun altro ruolo, che non ha “pagato” il successo con qualche mancanza altrove. È un logoramento continuo, un equilibrio impossibile che lascia sempre la sensazione di non essere mai abbastanza. Nel mio Frankenstein, questa pressione è sottopelle, nei silenzi, nei non detti, nella solitudine di Mary Shelley, che non è mai stata solo una scrittrice, ma anche una madre, una moglie, una donna costantemente giudicata. È un nodo che stringe ancora oggi, perché il successo femminile è sempre visto come un’eccezione da giustificare, mai come un diritto acquisito. E allora raccontarlo in scena diventa necessario: non per trovare risposte, ma per smettere, almeno per un momento, di chiedere scusa.
Il mostro che prende vita è un esempio di perfezione mostruosa: tante parti tenute insieme dal genio del suo creatore e la follia che deriva dal disconoscimento della creatura. Come mai a Frankenstein manca l’orgoglio della creazione e a Shelley il coraggio di rivendicare a pieno la perfetta compiutezza del suo valore creativo?
Perché il potere di creare è un’arma a doppio taglio. Victor Frankenstein costruisce la sua Creatura pezzo dopo pezzo, sfidando ogni limite, ma quando la vede prendere vita, ne è terrorizzato. È l’orrore di chi si accorge troppo tardi di aver fatto qualcosa di irreversibile. Mary Shelley, in un certo senso, subisce lo stesso destino: concepisce un’opera straordinaria, rivoluzionaria, eppure non la rivendica fino in fondo, come se sapesse che quel gesto l’avrebbe resa un’anomalia, un’eccezione da guardare con sospetto. In scena esploro proprio questa paura del potere creativo, questo paradosso di chi genera qualcosa di enorme e poi ne è schiacciato. Frankenstein abbandona la sua Creatura perché ne teme l’alterità, Mary trattiene il respiro perché sa che il suo successo è una bomba a orologeria. È il dilemma di chi rompe le regole: averne l’orgoglio significa accettare di essere fuori dalla norma. E questo, allora come oggi, ha un prezzo altissimo.
Quali sono gli ostacoli che nel mondo teatrale, ancora oggi, le registe, sceneggiatrici, attrici incontrano nel veder riconosciuto (e nel riconoscersi) a pieno il ruolo creativo? E quali pregiudizi ancora oggi vivono sulle scene e dietro le quinte?
Gli ostacoli sono sempre gli stessi, solo più subdoli. Il teatro è ancora un ambiente dove il genio femminile deve continuamente dimostrare il proprio valore, mentre quello maschile viene dato per scontato. Per una regista, una drammaturga, un’attrice, il riconoscimento non è mai immediato: il talento femminile deve essere giustificato, contestualizzato, quasi concesso. Sul palco i ruoli femminili spesso restano ancorati a stereotipi. Dietro le quinte e nei ruoli dirigenziali c’è ancora il pregiudizio che una donna al comando sia “difficile”, “troppo emotiva” o, all’opposto, “troppo dura” se non si adatta al ruolo della musa ispiratrice o della figura accogliente. E quando una donna si prende il diritto di imporre la sua voce, di dirigere, di scegliere, il primo giudizio che arriva non è mai sul suo lavoro, ma sulla sua persona. Lo spettacolo Frankenstein racconta in parte questa fatica: smettere di chiedere il permesso.
FRANKENSTEIN
Regia Ivonne Capece
Con Maria Laura Palmeri (in scena), Lara Di Bello e Giuditta Mingucci (in video)
Drammaturgia Ivonne Capece
Ph. Credist Luca Del Pia
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