Scuola
Come la nostra lingua madre modella il nostro modo di pensare
Un numero enorme di ragazzi non è capace di comprendere un comune testo in lingua italiana. È un’incapacità che certo dipende dalle carenze del sistema scolastico ma che affonda le sue radici in un terreno più vasto.
Un episodio che per giorni é stato alla ribalta delle cronache e su cui non mi sono espressa, pur avendo toccato il nervo scoperto dell’educatore che è in me, é l’esclusione da parte del sindaco Gualtieri di Tony Effe dal concerto di capodanno a Roma in quanto i testi risultano violenti e misogini. Mahmood e altri sedicenti cantanti hanno annunciato il loro ritiro dall’evento come gesto di opposizione all’esclusione di Tony Effe parlando di censura. Facile smascherare la menzogna nell’era della conoscenza facilmente accessibile a tutti: basta andare su un motore di ricerca e effettuare qualche indagine. Il testo di una canzone di Tony Effe, Dopo le 4, così recita:
“Mi piacevi troppo e non ti ho scopata la prima volta…
Ti sputo in faccia solo per condire il sesso…
Ti chiamo “puttana” solo perché mе l’hai chiesto
Solo di notte ci capiamo
Non gridare sennò mi arrestano
Dopo le quattro, ti amo
Dopo le dieci, mi dimentico…
Ed io che ancora stravedo per “Notte prima degli esami” per Dante, Ariosto e “Claudia che ha le cosce chiuse come le chiese e non deve tremare se l’amore è amore”. Non si tratta di essere vecchio stampo e ormai troppo attempata per poter apprezzare le novità musicali, si tratta di considerare che la scuola non é il luogo dove si curano i mali del mondo, é forse, o dovrebbe essere, una delle agenzie educative attraverso cui veicolare idee, valori, luogo di esercizio delle qualità morali, é, però, un anello di una catena poiché altre risorse educative sono fornite dal cinema, dal teatro, dalla musica.
A proposito di vecchio stampo, è proprio così che si chiama una canzone cantata da Frezza, e che i ragazzi utilizzano in demenziali tik tok come sottofondo da cantare in playback mentre mimano movenze di starlette e boss della camorra e il cui testo così recita:
“o sord oppur a bara, o gli spar o mi spara
Amante e chi ci sfid
Forse nat capito
Si tu mo punt o rit
Io mett ndo grillett
Si facc nu colp ch è n’opera d’art
Che sord nda sacc ma nun vac a sharm
Chest frezza coce v’ata fa o segn ra roc
Arap e cosc staij tt nfos
Aggio venut o gesso
Facit capa e cess”.
Poi aspettiamo che qualche politico ci ricordi che non basta più l’educazione alla cittadinanza, nelle scuole va introdotta quella all’affettività.
Non si può, nella rassegna dei talenti prêt à porter, non citare Geolier che non solo fa sognare masse sterminate di ragazzini che si possa diventare ricchi e famosi partendo da contesti disagiati come lui, ma è invitato dal rettore dell’Università Federico II di Napoli nell’aula Magna del complesso di Scampia, dicendo “candidamente”, io non ho nulla da insegnare, solo da imparare. Bravissimo Goelier, ottima mossa di marketing, e le folle impazzite ad urlare quanto sia modesto e consapevole. La vera colpa del cantante napoletano, idolo dei ragazzi con la pistola che imperversano per la città, ammazzando a sangue freddo chi abbia la sventura di incrociarne le scorribande, è lasciare che questi pazzi confondano palco e realtà (per dirla alla Luciano Ligabue) esaltandosi per le sue rime. Geolier ha scritto sui social «basta» dopo il quinto giovane ucciso a colpi di revolver in pochi mesi, ma non ha mai rinnegato la sua amicizia con il capoclan Crescenzo Marino, recentemente condannato a 10 annidi carcere per associazione mafiosa.
Anzi, in un’intervista lo ha giustificato, lo ha assolto: «Ci sta mio fratello in carcere, che era la mia spalla, era sempre con me. È in carcere per niente, perché a Napoli, anche se non lo fai, ma hai una situazione familiare che c’ha avuto a che fare con ’ste cose, tu l’hai fatto o non l’hai fatto, paghi».
È talmente forte il legame tra i due che il rapper doveva prenderne la difesa nel corso del processo, citato come testimone dagli avvocati di Marino, solo che i legali hanno rinunciato perché Emanuele Palumbo (questo il vero nome dell’artista) era reduce da Sanremo, e sarebbe stato un colpo mortale per la sua immagine sfilare in aula, sottoposto alle domande dei pm antimafia.
Eppure, su Instagram, ci sono ancora le foto di Geolier e Crescenzo abbracciati in vacanza, e in tante altre occasioni. Ed è al giovane boss che probabilmente Palumbo si riferisce quando si accalora: «Teng nu frat criminal e n’at figl e nu boss/Je so intoccabile a Secondiglian comm ’e Narcos». Se a Geolier stanno a cuore Napoli e i giovani napoletani perché non urla che la famiglia Marino, che ha ispirato addirittura il personaggio di Ciro Di Marzio nella fiction Gomorra, si è arricchita con il traffico di cocaina?
Perché non spiega che gli scatti di Crescenzo in giro per il mondo (a Mikonos oppure al volante di una Ferrari con la Tour Eiffel sullo sfondo o, ancora, con un pitbull alla catena) sono macchiate di sangue e dolore? Quelle di padri e madri che hanno visto i figli distrutti dall’uso degli stupefacenti, annientati nella volontà e nel fisico.
È impossibile che Palumbo, che in quel quartiere è nato e cresciuto, ignori le malefatte di suo «fratello» e del suo contesto familiare. Per i giudici, Crescenzo è subentrato al padre Gennaro (in cella da vent’anni) nella gestione degli affari della cosca di Scampia, che fu protagonista della sanguinosa faida che, dal 2004 al 2006, lasciò sull’asfalto almeno un centinaio di morti.
La zia di Crescenzo, Tina Rispoli, è ancora in galera insieme al suo nuovo compagno, il neomelodico Tony Colombo, per associazione mafiosa e riciclaggio.
I due avrebbero ripulito soldi sporchi grazie anche all’attività musicale. Questo va raccontato agli adolescenti, e Geolier dovrebbe riconoscere pure che il suo videoclip Narcos (46 milioni di visualizzazioni su YouTube) è un modello di vita che può finire solo in due modi: al camposanto o in galera. Tace, invece: perché? In quelle immagini, Emanuele si mostra su un pickup con un kalashnikov accanto mentre tutt’attorno spacciatori e trafficanti vanno in giro con borse piene di banconote e sparano con i fucili a pompa. «Trappo comm ’a Genny, mentr accir ’a nu cristian», intona. «Sott e terr e contadin stann spars e miliun/Ca stann e muort ca te parln chius rint e mur».
Sono i cadaveri dei nemici murati nelle case, come il gatto nero di Edgar Allan Poe. In Money canta: «Teng’ frat’ ca teneno ll’anne cuntate/’Ncopp”e ccarte firmate ’ra magistrati». L’esistenza criminale come epopea. Un orrore.
Altro che Recalcati, Barbero, o il Roberto Saviano che ancora insiste a martellare sulla camorra. Qui l’arma vincente è il nulla. Diabolico, nel contaminare pregressi di periferia urbana in salsa lusso, amicizie pericolose da curva e rime baciate e non.
Mi pare lapalissiano affermare che la musica è portatrice di messaggi. Ricordo ancora un esame di maturità (io ero commissario esterno presso un liceo linguistico di Pomigliano) durante il quale un ragazzo, un cantante arrivato alla finale del programma “Amici” di Maria De Filippi, presentò una splendida disamina delle canzoni di De Gregori declinandole attraverso le varie discipline di studio. Bob Dylan ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 2016 perché con le sue parole e la sua musica ha saputo ispirare intere generazioni.
Quella dei trapper é un’industria musicale che dai milioni di streaming e visualizzazioni guadagna fior fior di quattrini. I testi sessisti e misogini che inneggiano alla violenza non hanno nulla a che fare con la ribellione giovanile, la contestazione, la ribellione contro l’autorità costituita e la rivolta antigerarchica che ispirò gli eccessi sessantottini poiché manca di qualsiasi ispirazioni a matrici ideologiche e a posizioni culturali di rottura, manca il fondamento libertario e fraterno. Sentendosi padroni del futuro, i giovani desideravano abitare il mondo e volevano l’immaginazione al potere. Cominciata senza bandiere, con le assemblee, le occupazioni e i cortei, la critica dei ragazzi ai sistemi scolastico e universitario si era poi estesa alla società capitalistica, politicizzandosi, con pestaggi tra rossi e neri, tra gli studenti e la polizia. Ben presto la contestazione era uscita dalle aule e aveva invaso le fabbriche.
In Storia di un impiegato, sesto album di Fabrizio De André, un giovane impiegato, dopo aver ascoltato un canto del Maggio francese, entra in crisi e decide di ribellarsi, ma, dice Faber in un’intervista,
“se alle manifestazioni un autonomo sgangherato iniziava a tirare pistolettate, questo non lo condividevo sicuramente, ma condividevo la rivolta contro un certo modo di gestire la società che non teneva minimamente conto della società stessa. Volevamo diminuire la distanza tra il potere e la società”.
“Anche se il nostro maggio/ ha fatto meno del vostro coraggio/ se la paura di guardare/ vi ha fatto chinare il mento” o per dirla con le parole di Arthur Zimmerman, in arte Bob Dylan, “How many times can a man turn his head/pretending that he just doesn’t see”.
Si può far finta che il linguaggio violento, scurrile, osceno e indecente sia confinato ai testi delle canzoni e non venga riprodotto nelle aule di certe periferie in cui i modelli, purtroppo, sono quelli di cui cantano testi nei tik tok?
Certo si può far finta, bastano solo massicce dosi di malafede e il bisogno di far girare molti soldi del Pnrr per spacciare l’idea che nella scuola un’immersione digitale continua possa e debba sostituire lo spazio protetto del pensiero, della parola, dei rapporti umani, dei corpi in crescita, delle scoperte conoscitive, della socialità e del dialogo educativo. É necessario ribadire che il compito fondamentale della scuola sarebbe proprio quello di restituire agli studenti i tempi della riflessione, del dialogo, del confronto e del contatto umano, della capacità di sentire e dell’attesa, un tempo che al di fuori della scuola non riescono più a vivere.
Obiettivo arduo quando la comunicazione sembra impossibile perché indossare gli abiti culturali di certi studenti significherebbe usare un linguaggio che utilizza parolacce ed epiteti di ogni sorta che escludono ” Pelide” per Achille, o Magnifico per Lorenzo de’ Medici. Allora, per dirla alla Ligabue, meglio perderle le parole, senza considerare che il numero delle parole conosciute ed usate é direttamente proporzionale al grado di sviluppo di una democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole poche idee, poche possibilità e poca democrazia; “più sono le parole che si conoscono, più è ricca la discussione politica e, con essa, la vita democratica”. (Carofiglio)
Un numero enorme di ragazzi non è capace di comprendere un comune testo in lingua italiana. È un’incapacità che certo dipende dalle carenze del sistema scolastico ma che affonda le sue radici in un terreno più vasto. Quello della progressiva perdita di senso del dibattito pubblico, dell’esibito disprezzo che taluni politici e talune forze hanno per la responsabilità connessa con l’uso del linguaggio.
Sembra concretizzarsi nel nostro Paese l’inquietante fenomeno che Humpty Dumpty illustra ad Alice in un passo celebre di Attraverso lo Specchio.
<<Quando io uso una parola» disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante, «questa significa esattamente quello che decido io… né più né meno».
«Bisogna vedere» disse Alice «se lei può dare tanti significati diversi alle parole».
«Bisogna vedere» disse Humpty Dumpty «chi è che comanda… è tutto qua».
Quando si ha a che fare con le parole — dice l’interlocutore di Alice — una cosa sola importa: chi comanda, chi è il padrone.
L’impressionante inettitudine messa in luce dai risultati dei test Invalsi è a un tempo causa ed effetto di questo fenomeno: giovani incapaci di capire il significato di discorsi elementari sono i destinatari ideali per la propaganda dei demagoghi e dei populisti di ogni risma. E la propaganda volgare, violenta, carica di disprezzo per i significati, caratterizzata da una programmatica povertà del lessico è uno degli acceleratori dell’ignoranza, dunque dell’inadeguatezza democratica.
Il linguaggio é ciò che consente di esprimere emozioni. Nelle scienze cognitive questo fenomeno — la mancanza di parole, e dunque di idee e modelli di interpretazione della realtà, esteriore e interiore — è chiamato ipocognizione (conoscenza e consapevolezza striminzita). Si tratta di un concetto elaborato a seguito degli studi condotti negli anni Cinquanta dall’antropologo Bob Levy. Nel tentativo di individuare la ragione dell’altissimo numero di suicidi registrati a Tahiti, Levy scoprì che i tahitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico ma non quello psichico. Chi non sa esprimere il dolore o si ammazza o ammazza l’altro. Talvolta la violenza é solo simbolica, non assume la forma di una mano armata, ma di parole (o parolacce) che esprimono disistima quando non si configurano come vere e proprie aggressioni verbali.
Nell’ambito della distopia politica del XX secolo, uno dei più interessanti casi di manipolazione del linguaggio è contenuta in Nineteen Eighty-Four di George Orwell. Lo scrittore vi teorizza una nuova lingua, il Newspeak, in cui il vocabolario é ridotto e distorto perché per riscrivere la storia bisogna alterare i ricordi, distruggere la memoria. Per rompere (parola che non é a caso il contrario di costruire e nel newspeak vengono aboliti sinonimi e contrari) col passato e riscriverlo, si ha bisogno di un’amnesia indotta dalla soppressione delle parole.
La corruzione dei pensieri che animano la società impoverisce e imbruttisce il linguaggio, ma allo stesso tempo un utilizzo improprio del linguaggio svilisce i pensieri: «But if thought corrupts language, language can also corrupt thought». Orwell critica principalmente due aspetti dell’utilizzo del linguaggio: l’impiego di parole in modo impreciso – il che denoterebbe una mancanza di cognizione esatta del loro significato – e una mancanza di immaginazione.
Anna Arendt in La banalità del male definisce la banalità non come giustificazione per il male compiuto, ma incapacità di immaginare il dolore inferto, immaginare ci consente di essere empatici e solidarizzare. Senza questa facoltà, che non é sinonimo di fantasia, l’uomo é una bestia antropofaga.
Ritorno da dove sono partita: l’esclusione di Tony Effe dal concerto di capodanno e l’accusa di censura mossa da quei grandi cultori della storia di chi ha solidarizzato con lui. Non bisogna essere dei geni per sapere che censurare ha a che fare con l’eliminare, il tagliare quanto non é ritenuto conforme, ha a che fare col controllo delle informazioni, operazione che in Germania nel periodo nazista veniva effettuato dalla Stasi, il Ministero della Sicurezza dello Stato, (apparato della polizia segreta della ddr che si avvaleva anche di spie e delatori). Mi pare che certi messaggi veicolati da canzoni sconce e raccapriccianti non abbiano dovuto superare il Checkpoint Charlie, dove Dalla scrisse la bellissima Futura, ma girano liberamente in rete, dove scalzano classifiche, superando senza sforzo capolavori di intellettualacci fissati con quella cretinate della qualità e del talento.
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