Storia
W. G. Sebald, il tempo e la storia
Scrive Winfried Georg Sebald (Wertach, 18 maggio 1944 – Norfolk, 14 dicembre 2001) in Breve escursione ad Ajaccio, «Ma che cosa ne sappiamo noi – a priori – del corso della Storia, che procede secondo una legge la cui logica rimane indecifrabile e viene messo in moto da eventi minuti e imponderabili, tali da cambiare spesso la direzione proprio al momento decisivo: una corrente d’aria appena percepibile, una foglia che cade a terra, uno sguardo che corre da un occhio all’altro in mezzo a un gruppo di persone?» (Le Alpi sul mare, p.24). L’occasione per questa riflessione è una escursione ad Ajaccio, ma per l’autore è soprattutto – come in altri libri – l’occasione per mettere in questione la verità storica o, per meglio dire, le possibilità che la conoscenza scientifica ricostruiscano il passato come un oggetto statico e definito, con confini chiari e certi. Non lontane queste riflessioni da quelle esposte in più occasione dallo storico statunitense Hayden White, l’autore, nel 1973, di Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, una delle opere principali della critica storiografica novecentesca. Ancora nel 2008, introducendo la «Keynote Lecture» tenuta ad Atene, il 30 ottobre, durante la conferenza «History between reflexivity and critique», White sostiene: «La mia prima raccomandazione è di vedere la storia come un discorso». E ˗ proseguendo nella relazione ˗ tenere ben salda la differenza «tra un discorso e una disciplina scientifica». Le affermazioni scientifiche devono poter essere «confutate ˗ dice ˗, devono assumersi l’onere della prova: penso che nella maggior parte dei casi la storia, […] non rispetti tutte le condizioni di verificabilità proprie delle scienze». Per questo, nella vicenda dei saperi, «la storia è stata in primo luogo discorso piuttosto che disciplina scientifica: è divenuta disciplina soltanto all’inizio del diciannovesimo secolo, ma non per questo è diventata disciplina scientifica». Sebald, da un punto di vista e un genere letterario diversi, si pone le stesse questioni, non smettendo di interrogare la storia e le sue possibilità. Un corpo a corpo condotto con il passato che ha in una figura paradigmatica come Napoleone un punto di riferimento attraverso cui mostrare le assurdità della storia. Nomi, riferimenti, luoghi e personaggi, disseminati tanto nel viaggio che costituisce Gli Anelli di Saturno, con il memoriale della battaglia di Waterloo, quanto nella vicenda di Stendhal, in Vertigini, sullo sfondo della campagna d’Italia, fino ad Austerlitz, l’ultimo libro. La storia di Jacques, arrivato bambino in Inghilterra in fuga dal nazismo, privo della memoria se non il ricordo della celebre battaglia napoleonica nei ricordi della scuola. Il protagonista, mentre affida la sua biografia impossibile al narratore, sancisce questo paradosso costitutivo che, a ben vedere, è quello con cui deve fare i conti la ricerca storica quando si confronta con il passato smarrito: «Sin dall’infanzia e dalla giovinezza […] non ho mai saputo chi in realtà io sia» (p.52). E poco importa che la memoria di Austerlitz, pian piano, riemerga; il passato cancellato, il trauma della madre deportata a Theresienstadt nell’Europa distrutta dal nazismo, sono macerie con cui è impossibile fare i conti e per questo vengono rimosse. Dall’individuo ma, è evidente – secondo Sebald – anche dalla collettività.
I libri scritti da W.G. Sebald puntano al passato e il presente serve come piattaforma per scandagliare, interrogare, mettere in questione il corso della storia. Non soltanto quella degli individui, ma anche quella collettiva dei gruppi, delle nazioni, delle società. Come Austerlitz, Sebald, da giovane, arrivò in Inghilterra, dove si stabilì e divenne professore di letteratura all’Università di Norwich, Nel libro Il fantasma della memoria, pubblicato da Treccani Libri, curato da Lynee Sharon Schwartz, Sebald racconta che l’allontanamento dalla Germania fu il suo modo di regolare i rapporti con la terra natia, segnata dallo scandalo nazista. Una memoria impossibile su cui, negli anni del dopoguerra, era calato una sorta di «complotto del silenzio». Tutto ciò che era legato all’esistenza stessa della Repubblica Federale Tedesca era per lui inconcepibile, tanto che in occasione della sua ammissione all’Accademia tedesca, si presentò in quella che era la sua terra di origine nei panni di un esiliato. Il problematico rapporto con il passato di Sebald eredita tutta la difficoltà della scrittura storica a fare a meno delle tradizionali coordinate metafisiche e della sua eredità moderna. Come ha evidenziato lo storico tedesco Reinhart Koselleck in Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, il tempo storico è differente da quello della natura. Ma è soprattutto guardando a come sia cambiato il concetto moderno di storia, reso dalla parola tedesca Geschichte, a partire dall’ultimo trentennio del XVIII secolo, che è possibile individuare il cortocircuito tra tempo, storia e narrazione, che attraversa le opere di Sebald. Secondo la ricostruzione di Koselleck, l’affermazione del concetto Geschischte ha comportato la contaminazione di concetti quali «evento» e “«historie», favorendo la ibridazione tra quanto accaduto e la riflessione sui fatti. Narrazione e metanarrazione si rincorrono fino a confondersi, determinando un’apertura della storia verso la filosofia della storia o, quantomeno, verso la riflessione su ciò che accaduto, ma anche sul processo storico stesso. Si sviluppa così una nuova temporalità (Neuzeit), inaugurata dalla Rivoluzione francese e dalla discontinuità prodotta sul corso degli eventi. Il nuovo concetto di storia, integrando fatti, eventi e storie in una visione di insieme, secondo una logica che l’idealismo pensò unitaria, è adesso in grado di contenere tempi diversi, fatti e storie disperse, in un orizzonte interpretativo generale guidato da una razionalità.
La temporalità degli scritti di Sebald è rispetto a tutto ciò postmoderna perché è giunta ormai al suo compimento, a quell’impossibilità di autofondarsi che è insita nel proprio sviluppo. Per Koselleck resta la certezza che il concetto della storia non sarà in grado di sciogliere il cosiddetto enigma della storia (p.140). Lo stesso vale per Sebald, secondo cui l’unico modo di guardare alla storia è quello di puntare lo sguardo verso gli spazi deserti «di un impoverimento e di un degrado ormai visibilmente cronici» (p.XXV), come sostiene Lynne Sharon Schwartz. Rispetto a tale ripiegamento nichilistico, non è la memoria la soluzione, essendo questa il teatro delle apparizioni spettrali individuali e collettive. Il tempo corrode anche il ricordo e così lo scrittore per Sebald assiume le vesti del cacciatore di fantasmi, come dichiara in un’intervista con Eleanor Wachtel registrata per CBS Radio nel 1998, pubblicata nel libro Il fantasma della memoria: «Quando ti interessi a qualcuno (…) cominci a occupare lo spazio di questa persona, ben dopo il suo tempo. Stabilisci una presenza in un’altra vita attraverso un’identificazione emotiva. E se hai soltanto una briciola o due di informazioni su un certo pittore del XVI secolo, se sei abbastanza interessato, quelle briciole ti consentiranno di essere presente in quella vita, e di riportarla nel tempo presente». Percorrere luoghi dimenticati, frequentare archivi, passeggiare lungo temporalità disperse, consente di instaurare una complicità con la storia impossibile che, per i personaggi sebaldiani, è l’unica possibile. D’altra parte come attraversare un tempo segnato dall’ineluttabilità del dissolvimento, se non in maniera irregolare, soggettiva, con «un’inquietudine dell’anima» perenne? In questo senso, pur nella diversità delle opere, un filo tragico attraversa tutta l’opera dello scrittore tedesco e tiene insieme l’idea che ogni impresa umana sia destinata al dissolvimento, spesso proprio a causa dell’azione umana. La storia si configura così come un cumulo di macerie, in mezzo al quale si muovono personaggi diversissimi, ma uniti dalla difficoltà a rintracciare un ordine nel rincorrersi delle diverse temporalità. Emblematiche in tal senso le vicende dei quattro ebrei fuggiti dalla Germania, raccontate ne Gli emigrati. Vite diverse ma legate dal fantasma della Shoah, dal vagabondaggio in una memoria che non può essere cancellata ma neppure portata del tutto alla luce.
Se sullo sfondo di tali riflessioni c’è tutto il carico traumatico della storia novecentesca, la negazione può apparire come l’unico rifugio possibile e il nichilismo la direzione scontata, come sembra suggerire ne Gli Anelli di Saturno: «l’unica cosa certa è che la notte dura molto più del giorno, se paragoniamo la vita individuale, la vita in genere o la stessa totalità del tempo con il relativo sistema sovradeterminato» (p.165). Eppure non è questa l’ultima parola. Cosa fare allora? I personaggi di Sebald ci dicono che bisogna continuare a vagabondare tra le macerie, come esiliati o, come Jacques Austerlitz, con l’idea di vivere la vita sbagliata e senza memoria, ma con la spinta a non perdersi, seguendo un filo invisibile. Raccogliere oggetti, mettere in fila i ricordi, riportare alla luce storie cadute nell’oblio, sono così modi per combattere l’insensatezza da cui proveniamo. La convinzione è che in mezzo a quei frammenti di passato – come dice Sebald nell’intervista Cacciatore di fantasmi – «c’è qualcosa di nascosto» a «cui non vuoi rinunciare, a nessun costo» (p.25). Proprio come fa lo storico ostinandosi a seguire le tracce disperse del passato contenute negli archivi.
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