Lavoro
Nazioni senza lavoro, lavori senza nazione
Le identità e le culture nazionali non esauriscono le ragioni per le quali alcuni reclamano più autonomia. C’è anche il lavoro. Le nazioni (e i territori) che creano lavoro vogliono anche appropriarsi della ricchezza che esso genera.
È un principio ragionevole e va collocato nella giusta prospettiva, perché sta crescendo il numero di lavori senza nazione [1].
Procediamo con ordine. Le nazioni senza lavoro ci sono sempre state. I lavori senza nazione sono un fenomeno più recente, che si è affermato con la progressiva digitalizzazione, prima delle attività di servizi e poi di quelle manifatturiere.
Nazioni con e senza lavoro
Le nazioni senza lavoro sono diventate un fatto socialmente rilevante da quando, nei secoli più recenti, lo sviluppo tecnologico in tutti gli ambiti del sapere ha permesso di creare aree di grandi dimensioni dedicate alla produzione, dove concentrare altrettanto grandi masse di lavoratori [2].
Dove c’erano le fabbriche c’era il lavoro e là accorrevano centinaia di migliaia, se non milioni, di persone: migrazioni epocali alla ricerca di un posto di lavoro, che trasformavano la fisionomia di alcuni territori e spopolavano i territori senza lavoro, relegandoli ai margini dei processi di sviluppo.
Soprattutto nel passato, la concentrazione di masse di lavoratori nei dintorni dei luoghi della produzione ha lasciato segni indelebili. Andate a Manchester a visitare il People’s History Museum. Io l’ho fatto quasi fino alla nausea vent’anni fa, quando ancora si chiamava National Museum of Labour History e io ero visiting scholar alla Manchester Metropolitan University: mi ha aperto un mondo. Oppure andate in quella che nell’Ottocento fu soprannominata la Manchester d’Italia: Schio. Andate a vedere la Fabbrica Alta del Lanificio Rossi e leggete la storia del Giardino Jacquard, del Teatro Jacquard e del Nuovo Quartiere Operaio voluti dalla famiglia Rossi, proprietaria del lanificio. Oppure andate a Valdagno a conoscere la storia della Città sociale creata dalla famiglia Marzotto.
Oggi, il confine tra nazioni/territori con lavoro e nazioni/territori senza lavoro è diventato mobile e sfumato. Chi reclama più autonomia ne tenga conto.
Nazioni dello shopping del lavoro
In tempi più recenti, c’è stato un periodo in cui alcune attività manifatturiere sono state trasferite in nazioni lontane (offshoring) spesso alla ricerca di differenziali favorevoli nel costo del lavoro e, in alcuni casi, alla ricerca di territori in cui si poteva contare su soluzioni al ribasso in termini di diritti dei lavoratori, di tutele del lavoro e di sostenibilità ambientale. Lo shopping territoriale ha dato opportunità di lavoro a milioni di persone nei loro Paesi di origine, ha reso meno necessarie le migrazioni di massa e ha ridotto il numero delle nazioni senza lavoro.
Un effetto non previsto e indesiderato di questo processo è aver posto le basi per far decollare i lavori senza nazione.
La prova sta nella possibilità di mettere in competizione stabilimenti della stessa impresa in Paesi diversi e (legittimamente) decidere dove allocare le produzioni e quindi a chi dare e a chi togliere il lavoro. Per certe attività industriali, ci si può spostare da una nazione all’altra con costi di transizione molto bassi.
È un cambio di prospettiva importante, perché in questa decisione rientrano anche valutazioni che nulla c’entrano con i lavoratori e le loro competenze, ma che coinvolgono l’ambiente e le istituzioni che ruotano attorno al lavoro e nei quali il lavoro si inserisce: dalle strade alla qualità delle regole, dalle scuole alla qualità della pubblica amministrazione e così via.
Chi reclama più autonomia ne tenga conto: si sta assumendo la responsabilità di progettare efficaci strategie di nation o region branding capaci di attirare e trattenere persone, imprenditorialità, capitale finanziario e capitale sociale.
Lo dimostrano due fatti. Si dice che, a seguito della Brexit, l’Agenzia europea del farmaco (EMA) sarà spostata da Londra e potrebbe arrivare a Milano. Si dice che, di fronte allo scenario di indipendenza dalla Spagna, alcune imprese abbiano deciso di spostare il loro quartier generale dalla Catalogna a Madrid.
Chi vuole la bicicletta, si sa, deve anche pedalare.
I lavori (vecchi e nuovi) senza nazione
Il trasferimento del lavoro da una nazione all’altra è reso semplice, veloce ed economico dalla digitalizzazione dei processi.
Nel settore dei servizi, gli effetti della trasformazione digitale è già sotto gli occhi di tutti. I luoghi in cui realizzare le attività amministrative, quelle di back office (come ad esempio, i call center), quelle di sviluppo software e molte altre possono essere cambiati in tempi brevi.
Gli straordinari sviluppi della stampa tridimensionale permettono di inviare via email i file di un numero crescente di prodotti fisici, per essere «stampati» nei Paesi in cui verranno materialmente utilizzati o consumati.
Ci stiamo avviando verso un’economia in cui crescerà il numero dei lavori senza nazione. È un fenomeno senza ritorno?
No, a condizione di mettere in campo progettualità illuminate come, ad esempio, quelle citate dei Rossi e dei Marzotto.
Brunello Cucinelli ci è riuscito a Solomeo, e basta visitare il sito che spiega la filosofia del progetto per rendersi conto del valore dell’iniziativa.
Chi reclama più autonomia dovrà tenere conto che solo i territori e le città (non più le nazioni) con una solida base di capitale umano e un’economia fondate su creatività e ricerca attrarranno un numero sempre maggiore di imprese di successo e di posti di lavoro con salari elevati, diventando in tal modo attrattive per cittadini altrettanto qualificati, che porteranno con sé esigenze di vita che creeranno opportunità per decine di altre professionalità anche meno qualificate. Così facendo si avvia un volano potentissimo.
Chi reclama più autonomia dovrà tener conto del ruolo chiave che giocano le dotazioni infrastrutturali, che sono precondizioni per aumentare il numero di opportunità (dalla viabilità alla banda larga; dai servizi alla persona alla qualità delle pratiche burocratiche), e dell’importanza crescente delle connessioni, che si esprimono solo nei luoghi in cui ci sono iniziative capaci di favorire la socializzazione e l’integrazione dei cittadini (dal social-housing alle attività culturali, dalla valorizzazione degli spazi della città al coinvolgimento dei cittadini nelle scelte; dal riconoscimento dei diritti alla valorizzazione delle differenze presenti in città).
Chi reclama più autonomia sappia che solo i territori e le città (non più le nazioni) che sapranno offrire modelli sostenibili di sviluppo e convivenza sociale diventeranno le mete preferite dei nuovi cittadini, accomunati da un’idea moderna di benessere che al livello di reddito individuale aggiunge considerazioni sulla lungimiranza delle azioni per salute e sostenibilità, sulla qualità delle iniziative per cultura e ricerca, sull’equità delle decisioni in tema di cittadinanze e diritti.
Saranno questi i territori e le città destinati ad assumere ruoli di primo piano mentre rimarranno progressivamente in posizione marginale quelli che continueranno a seguire schemi dell’altro secolo.
[1] Il titolo che ho dato a questa riflessione riprende il ben più noto Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza Nazione, scritto dai ben più noti Giulio Tremonti, Sabino Cassese, Tiziano Treu e Francesco Galgano e pubblicato da Il Mulino nel lontano 1993. Lo lessi proprio in quell’anno e quella lettura ha lasciato i suoi segni.
[2] Una lettura facile su questo processo è Il libro dei secoli. Mille anni di storia e innovazioni, di Ian Monnier, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 2015 (edizione originale Forrester Mortimer 2014)
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